Carta dei diritti del sud, per il sud e per l’Italia

Noi donne e uomini che abitiamo le regioni meridionali d’Italia e le vediamo continuamente attraversate dal degrado e dalla povertà;
noi che abbiamo molta storia difficile alle spalle, ma non ci siamo abbrutiti nelle sofferenze e non ci siamo consegnati all’apatia e all’indifferenza dei sudditi consenzienti, come avrebbero voluto i tanti re che si sono succeduti nell’arco della modernità, ed anche prima, e come avrebbero voluto le classi possidenti e parassitarie che facevano loro da corona,
noi che non siamo stati piegati neppure dalla ingenerosità di una Italia unita che non ha mantenuto ciò che prometteva e non ha modificato, se non tenuamente, le condizioni di miseria e abbandono,
noi che abbiamo conosciuto soprattutto i risvolti negativi del decollo economico, largamente segnato, nel nostro Sud, dalla carenza dei servizi pubblici, dalla fatiscenza del sistema viario e ferroviario, dalla insufficienza del credito alle imprese, dalla prevalenza delle produzioni obsolete e tecnologicamente povere;
noi che viviamo questi luoghi bellissimi, stracolmi di memorie e patrimoni culturali, ma incapaci di dare un futuro lavorativo a tanti nostri figli e figlie, e a tanti padri e madri di famiglia, ancora costretti a cercare altrove, nel nord dell’Italia e fuori dall’Italia, la possibilità di un futuro. Come cinquant’anni fa, cent’anni fa, centocinquant’anni fa;
noi che sappiamo quanto poco sia cambiato dai silenzi rabbiosi dei nostri trisavoli, col cappello in mano davanti ai possidenti nobili e borghesi. E non basta che nei vicoli tortuosi delle città, i popolani non camminino più a piedi nudi,
noi che capiamo sempre più chiaramente quanto abbia a vedere con la nostra condizione disperante il sistema sociale che si basa sul profitto di pochi e il lavoro di molti, e che concentra in alcuni poli il buon vivere e la ricchezza e ad altri poli lascia la miseria e la vita di scarto,
noi che sperimentiamo giorno per giorno quanto continui ad esser duro lo scontro di civiltà tra le regole del vivere solidale e le regole della sopraffazione brutale dei potentati economici, politici, criminali,
noi che ricordiamo quanto questo Sud abbia combattuto, come sia stato punteggiato da grandi lotte bracciantili e contadine e come i nostri operai non siano stati da meno degli operai del Nord nel rivendicare dignità e diritti,
noi che solidarizziamo con le tante resistenze che continuano in questo nostro Sud martoriato: dalla tutela dell’ambiente, della salute e dell’istruzione alle battaglie contro l’affarismo clientelare e mafioso che sfregia il paesaggio e le comunità; dalle mobilitazioni per la salvaguardia dei beni comuni ai movimenti che si battono per il potenziamento dei servizi pubblici; dalla denuncia del lavoro precario e sottopagato alla difesa dei diritti di chiunque abiti i nostri paesi e le nostre città, vi sia nato o vi sia giunto con la speranza nel cuore; dalle lotte del lavoro e per il lavoro alla rivendicazione di un reddito e un vivere dignitosi per tutte e tutti; dalla costruzione di spazi aperti di condivisione, solidarietà e accoglienza all’affermazione di una cultura che metta assieme lo tradizioni territoriali e la rottura delle barriere, con lo sguardo inclusivo, aperto al futuro e alla vastità dell’orizzonte,
noi, insomma, che vogliamo un nuovo Sud in una nuova Italia solidale, resa finalmente uguale per qualità di vita e prospettive di futuro presentiamo al Parlamento, al Governo e all’insieme delle Istituzioni nazionali e locali la seguente CARTA DEI DIRITTI DEL SUD, redatta, a un tempo, come rivendicazione e proposta.

RITENIAMO IMPRESCINDIBILI ED EVIDENTI DI PER SÉ I SEGUENTI
DIRITTI DELLE POPOLAZIONI DEL SUD DELL’ITALIA:

Diritto ad una qualità della vita uguale a quella delle altre regioni d’Italia.

Chiediamo che si ponga mano ai guasti creati dalla modifica del Titolo V della Costituzione, che a partire dal 2001 ha spezzato l’unitarietà nazionale dei servizi pubblici essenziali e ha moltiplicato le distanze tra le diverse regioni del Paese. In particolare, pretendiamo che vengano mantenute, anche nell’emergenza del Covid19, sia la destinazione dei finanziamenti europei a valere sul Fondo di coesione, destinati al Sud per l’80%, sia la percentuale del 34% degli investimenti diretti statali, normativamente prevista per il Sud dalla Legge n. 18/2017, incredibilmente ancora priva di decreti di attuazione. Anzi, riteniamo indispensabile estendere la clausola del 34% anche ai piani di investimento delle aziende a partecipazione pubblica o comunque controllate dal Ministero del Tesoro, e ciò perché è assolutamente necessario ed urgente il recupero del gap tra il Sud e il resto dell’Italia, cresciuto ulteriormente negli ultimi decenni con lo sciagurato paradigma delle cosiddette “spese storiche” delle regioni. Con tale sistema, chi aveva speso di meno per l’istruzione, la sanità e la cura dei beni comuni rimaneva inchiodato, anno dopo anno, alle stesse cifre di sempre, e riceveva concretamente di meno dallo Stato nazionale. Diventava, cioè, ininfluente che il Sud avesse speso di meno soprattutto perché aveva avuto sempre meno risorse a disposizione, perché si era trovato nel “posto sbagliato” quando la storia concreta del nostro Paese andava determinando, da un lato, i poli di sviluppo e, dall’altro, i poli di declino. È una situazione non più sostenibile. E chi addirittura prospetta il rafforzamento dell’autonomia regionale davvero vuole non solo il male del Sud, ma proprio il male dell’Italia intera. Per noi è dunque indispensabile mettere da parte qualsiasi discorso di autonomia regionale differenziata ed affidare allo Stato politiche attive di costruzione dell’uguaglianza sostanziale fra tutte le zone nel nostro Paese.

Diritto ad un ambiente sano, amico agli esseri umani.

Il degrado ambientale del Sud è sotto gli occhi di tutti: dai veleni sotterrati ovunque dalle mafie e dalla grande industria al disboscamento intensivo, dal consumo onnivoro di suolo pubblico al degrado delle falde acquifere e delle produzioni agricole. È urgente e indispensabile una grande opera di rimboschimento e di risanamento del suolo e del sottosuolo, in uno con la difesa e lo sviluppo degli spazi agricoli. Occorre, a tal fine, l’azione coordinata di tutte le istituzioni pubbliche e la vigilanza attiva della cittadinanza e dei comitati ambientalisti. Occorre anche il concreto sostegno pubblico alle filiere produttive che recuperino spazi per una agricoltura e una zootecnia di qualità incentrate sulle vocazioni territoriali. Occorre inoltre la difesa intransigente del paesaggio e il reintegro degli spazi di vivibilità, anche, e forse soprattutto, degli spazi di vivibilità urbana, legando a tale contesto il riordino del ciclo dei rifiuti e delle merci, e puntando sul riciclaggio e sul riuso contro la logica dell’usa e getta. Occorre infine una tutela inflessibile dei territori dalle aggressioni speculative grandi e piccole, che ancora insistono, in questo nostro Sud, con la logica della rapina e dello sfregio ambientale.

Diritto ad essere curati al meglio, senza distinzioni di censo.

La tragedia del coronavirus in Italia ha chiarito a tutti come la sanità non possa rientrare nella logica del profitto. Lo smantellamento progressivo della Legge 833, che nel dicembre 1978 aveva istituito il servizio sanitario nazionale basato sul diritto uguale dei cittadini a ricevere assistenza contro le patologie, è stato davvero uno dei più gravi disastri vissuti dall’Italia. Si è passati da un sistema unitario, sorretto dalla fiscalità generale e incentrato sul concetto di solidarietà, ad un sistema non solo spezzettato per regioni, ma anche sempre più privatizzato e con differenze vistose che penalizzano regolarmente il Sud: per ogni 10mila utenti anziani con più di 65 anni, 88 usufruiscono di assistenza domiciliare integrata con servizi sanitari al Nord, 42 al Centro e appena 18 nel Mezzogiorno. Ed anche con risorse diversificate, costi per l’utenza e prestazioni di qualità frammiste a prestazioni di scarso valore. Noi lo ribadiamo con forza: la sanità deve essere gestita direttamente dallo Stato – ovvero, dal soggetto che può esprimere, più di ogni altra istituzione, l’interesse generale e, di conseguenza, l’impegno (articolo 3 della Costituzione) a “rimuovere gli ostacoli” che impediscono l’effettiva uguaglianza dei cittadini. Non solo. Vogliamo anche che si privilegi l’ambito della prevenzione e della medicina pubblica di prossimità, del tutto abbandonata per favorire la medicalizzazione ospedaliera e la diagnostica privata. In tale quadro, va recuperato l’insostenibile divario tra il Sud e il resto dell’Italia in termini di personale sanitario complessivo e posti letto (28,2 posti letto di degenza ordinaria ogni 10 mila abitanti al Sud, contro 33,7 al Centro-Nord), ridimensionando lo strapotere dei privati sulla sanità meridionale (per dare qualche riferimento, basti pensare che mentre la media nazionale si attesta su 0,75 posti letto in strutture private accreditate ogni 1.000 residenti, la Campania ha invece 1,6 posti letto ogni 1.000 residenti. E gli stessi dati della Federlab, l’associazione che riunisce gli imprenditori della Diagnostica di Laboratorio privata in Italia, dicono che a fronte delle circa 2.000 strutture sul territorio nazionale, ben 700 – più di un terzo! – operano nella sola Campania…)

Diritto ad un lavoro stabile, tutelato dalla legge.

Siamo in un’epoca che vede la società e l’economia interagire molto più che in passato, e in modo diverso, perché c’è addirittura una preminenza della qualità della società sulla qualità della economia: Nella difesa del lavoro e dei diritti del lavoro non si può procedere, in particolare nel Sud, all’identica maniera degli ultimi decenni, senza l’intervento della mano pubblica nella programmazione economica. Chiediamo perciò una ripresa della politica industriale nel nostro Mezzogiorno, guidata dallo Stato; e, di contro, giudichiamo riduttiva una prospettiva che assegni alle regioni meridionali un ruolo di pura piattaforma turistica e logistica. Ma ciò non basta. Occorre, infatti, una qualificazione sociale degli investimenti, una loro aperta finalizzazione in direzione del modello di società. Diventano stringenti, in altre parole, non solo le questioni del “dove produrre”, ma esattamente le tematiche più ampie e ultimative del “cosa” produrre, del “come” produrre, del “quanto” produrre. Si tratta di intervenire contemporaneamente su tutti i punti del vivere sociale, sugli spazi della produzione e del lavoro non meno che su quelli del vivere e delle relazioni interpersonali. E soprattutto di intervenire avendo in testa, ancor prima che un modello di economia, proprio un modello di società. È questo il nodo di fondo: la sfida del Sud si pone oggi esattamente sulla linea di confine dell’alternativa di sistema. Il ragionamento va fatto fin da subito, oltre che dal versante dell’economia, anche da quello della cultura e della politica. È proprio in questo Sud disarmonico, che ha pienamente senso proporre le acquisizioni sulle quali il movimento dei movimenti ha insistito negli ultimi anni, dai processi di sviluppo de-mercificato alla critica del consumismo, dalla difesa dei beni comuni all’apertura comunicativa. È proprio in questo Sud difficile, che vede le concentrazioni urbane caotiche e invivibili, e al tempo stesso la dorsale appenninica in fase di progressivo spopolamento, che ha senso proporre il ciclo breve di produzione e consumo, oppure l’energia pulita, o anche il recupero ambientale come riqualificazione non solo dell’economia ma dell’intero vivere sociale. In sostanza, la questione meridionale non può essere affrontata con la pura logica del trasferimento delle risorse. Piuttosto che sulle quantità, bisogna ragionare esattamente sulle caratteristiche qualitative degli investimenti. Ovviamente, il punto di partenza di una tale prospettiva non può che essere la condizione del lavoro stabilizzato e normativamente tutelato. Che, in ogni caso, va fatto valere subito, con appositi programmi pubblici di riqualificazione dei lavoratori nonché coni investimenti e sostegno pubblico alla riconversione eco-compatibile delle aziende in crisi.

Diritto ad un reddito certo, che permetta una esistenza dignitosa.

Poter disporre di un reddito sicuro è un desiderio, una aspirazione irrealizzata per larghissime fasce della popolazione del Sud. Non basta il reddito di cittadinanza recentemente varato, largamente insufficiente sul piano quantitativo e viziato da una logica familistica che costringe i giovani all’impossibilità pratica di costruirsi una vita autonoma dalla famiglia di origine. Non è accompagnato, inoltre, proprio nelle regioni del Sud, da alcuna vera prospettiva di inserimento lavorativo. Noi riteniamo urgente una riforma di questo istituto, che lo renda quantitativamente più consiste, in particolare per chi ha familiari a carico, e ne faciliti la fruizione per i singoli in quanto tali. Inoltre, vanno riorganizzati dalle fondamenta i Centri per l’impiego: la gestione può continuare ad essere delle Regioni. ma il coordinamento deve essere dello Stato, collegato all’ insieme dell’intervento pubblico in economia. Non è una misura specificamente per il Sud; ma nel Sud acquista particolare importanza per le percentuali abnormi di disoccupazione e per la diffusione, altrettanto abnorme, del lavoro nero. Non serve soltanto a chi indirettamente ne usufruisce, ma serve anche all’insieme della forza-lavoro: per difendere le proprie condizioni salariali in un mercato che ovunque, e nel Mezzogiorno in particolare, penalizza duramente il lavoro sia sul piano dell’orario e della quantità della fatica che sul piano delle retribuzioni.

Diritto ad una abitazione che garantisca la dignità delle persone.

La questione delle abitazioni in questo XXI secolo si presenta ovunque, e in particolare nel Sud dell’Italia, con caratteri del tutto simili a quelli denunciati dal movimento operaio dell’Ottocento e del Novecento. È vero che l’Italia abbonda di case di proprietà, e che anche negli strati popolari l’essere proprietari della propria abitazione non è una rarità. Ma quali case? Quelle nei paesi di origine, abitate, da chi lavora al Nord o all’estero, solo 3 o 4 settimane l’anno? O quelle fatiscenti dei centri storici in rovina, quinto piano senza ascensore? E poi: da quando non si costruiscono più case popolari? Da quando manca in Italia un vero “piano casa”? Tutti lo sappiamo: chi è precario nell’attività lavorativa, seppure non vive nella casa dei genitori anziani, può permettersi appena l’affitto di abitazioni (o mezze abitazioni) fatiscenti, piccole, mal servite, e comunque costose. Chi ha un lavoro più stabile può affittare case leggermente migliori, e magari accendere un mutuo per l’acquisto, ma non deve guardare troppo alle distanze, ai servizi, agli spazi, alla qualità degli infissi. E poi ovunque abbondano le coabitazioni: dagli immigrati che pagano 100, 150 euro per un posto letto ai giovani part-time, agli studenti fuorisede. È venuto il tempo di un riordino generale del sistema casa. Noi vogliamo una ripresa dell’edilizia pubblica popolare, che privilegi il recupero urbanistico dei centri cittadini ed eviti il consumo di suolo. E vogliamo il controllo popolare sulle assegnazioni. Vogliamo anche un sistema di netta penalizzazione fiscale per le case sfitte o falsamente abitate, che favorisca l’offerta di case e l’emersione dei contratti. E vogliamo il sostegno pubblico a chi vive in affitto con bassi redditi, da far valere sulle bollette di luce, gas, acqua e spazzatura.

Diritto a una istruzione ricca e completa, che favorisca personalità consapevoli.

Invece di dare milioni alle scuole private, tradendo il dettato costituzionale, occorre concentrare tutte le risorse possibili sulla scuola e sull’università statali. E non è solo questione di coronavirus: prevedere un massimo di 15 alunni per classe è necessario proprio per rafforzare la qualità e l’efficacia della didattica. Ed occorre subito innalzare l’obbligo scolastico a 18 anni, incentivando in tutti i modi le pratiche di recupero dell’abbandono e della dispersione scolastica. La scuola italiana vive molte difficoltà, a partire dalle carenze strutturali degli edifici e delle dotazioni, particolarmente gravi nel Sud; ma essa resta ancora un punto di forza del sistema-Italia. E però non si può continuare a fare assegnamento sulla sola dedizione dei docenti e del personale scolastico in genere. A tal proposito, noi vogliamo che il personale impegnato nell’istruzione e nella formazione abbia retribuzioni davvero equivalenti a quelle dei principali paesi europei. Del resto, sono queste le cose che chiedono da anni gli studenti e i lavoratori della scuola e dell’università.

Diritto ad un sistema efficiente di mobilità pubblica.

È sotto gli occhi di tutti che il traffico privato diventa sempre più insostenibile, mentre il trasporto pubblico diventa sempre peggio sia sul piano quantitativo che qualitativo. È dunque una necessità obiettiva, imposta dalla drammaticità dell’inquinamento, nonché dalla sempre più marcata invivibilità degli spazi urbani: va assolutamente invertito il pauroso declino del trasporto pubblico locale, dando reale alternativa alla mobilità privata. Ciò significa intervenire con urgenza sulle reti ferroviarie secondarie, ammodernandole, nonché sull’insieme del trasporto locale: non solo moltiplicando le corse e rinnovando le vetture, ma anche ripristinando la presenza del personale nelle piccole stazioni ferroviarie, un tempo esse stesse piccoli presidi di civiltà nei paesi più isolati. Significa anche rimettere ordine, con apposite provvidenze, nel sistema dei bus cittadini, provinciali e regionali, incentivando le reti consortili e le partecipate pubbliche, e mettendo in condizione gli enti territoriali di offrire un efficiente servizio di mobilità all’intera cittadinanza. Significa infine una cura puntuale del sistema viario, in particolare quello cosiddetto “secondario”, che collega i tanti paesi della nostra Italia e del nostro Sud.

Diritto all’accoglienza e all’inclusione come valori fondanti del vivere civile.

Nel nostro tempo le migrazioni sono inevitabili e nessun muro, nessuna barriera potrà mai impedire a chi spera un futuro migliore di perseguire il suo sogno. Tanto più che i paesi ricchi dell’Occidente hanno pesantissime responsabilità storiche per le terribili condizioni di miseria e insicurezza che segnano l’Africa, l’Asia e l’America Latina. D’altra parte, ci sono interi comparti produttivi che stanno su, in Italia, proprio grazie al lavoro dei migranti. Ma se le cose stanno così, è mai possibile che le leggi, la burocrazia e le istituzioni dello Stato continuino a frapporre ostacoli ad una chiara e lineare accoglienza? E che solo con incredibile fatica le associazioni di volontariato riescano ad attivare concrete dinamiche di inclusione? Nel nostro Sud non si possono lasciare migliaia di immigrati allo sbando e alla miseria più assoluta, con l’unica alternativa o del supersfruttamento o delle offerte di lavoro criminali. Noi vogliamo che i decreti che beffardamente si autodefiniscono “decreti sicurezza” vengano cancellati. Vogliamo che sia facilitato in tutti i modi l’impegno delle associazioni di volontariato tramite “Tavoli di ascolto territoriali”, che mettano le istituzioni in grado di recepire i molti suggerimenti che proprio le associazioni di volontariato possono dare: dalla modulistica ai sistemi informativi, dalle situazioni di degrado che vanno recuperate alle situazioni critiche che vanno affrontate. Vogliamo anche una normativa e un iter procedurale più agevoli per la regolarizzazione di chi lavora, e ciò anche al fine di favorire l’emersione del lavoro nero e tutelare la dignità delle persone e dei lavoratori. Vogliamo anche il potenziamento dei percorsi scolastici e formativi tesi all’inclusione effettiva delle persone migranti e dei loro familiari. Vogliamo infine un programma statale di ripopolamento della dorsale appenninica, che offra ai migranti, e a chiunque voglia farlo, la possibilità di rimettere a cultura produttiva tante aree abbandonate del nostro Mezzogiorno, ricostruendo un tessuto di vita e di civiltà aperto alla pluralità delle culture, delle lingue e delle esperienze.

Diritto alla piena valorizzazione del patrimonio culturale materiale ed immateriale.

È fuor di dubbio che l’Italia sia una grande potenza sul piano culturale. L’intera nostra penisola è punteggiata di straordinarie testimonianze storiche e artistiche, che non sempre sono adeguatamente valorizzate, sia per la carenza di fondi e sia per la carenza di personale. Investire in cultura non vuol dire scrivere semplicemente dei depliant illustrativi, ma rendere il nostro patrimonio storico e paesaggistico, che costituisce uno dei principali punti di forza del nostro Mezzogiorno, una presenza viva non solo per i turisti ma anche per la cittadinanza più prossima. Noi vogliamo che ci sia un vero investimento pubblico in cultura, a partire dalla manutenzione e dal recupero dei centri storici. E questo vale per tanti comuni, piccoli e grandi del nostro Sud. Vogliamo perciò un immediato censimento dei siti su cui intervenire, e parallelamente vogliamo un diffuso sostegno pubblico a favore del nostro enorme patrimonio culturale immateriale, quello fatto di tradizioni musicali, antropologiche, religiose, artistiche, linguistico-letterarie, ludiche e culinarie. Vanno salvaguardate non in nome di un passato astratto, ma proprio in nome di una memoria capace di costruire comunità e apertura comunicativa al tempo stesso. Vogliamo, a tal proposito, che il Ministero dei beni culturali istituisca un tavolo permanente di coordinamento con le singole Regioni e gli enti locali sul piano provinciale. aperto al contributo attivo dell’associazionismo culturale.

Diritto ad una amministrazione davvero democratica e trasparente della vita pubblica.

C’è bisogno di una moralizzazione profonda delle istituzioni e della pubblica amministrazione, che riguarda non solo lo strato dei politici, ma anche lo strato dei funzionari. Vogliamo, perciò, non soltanto regole più chiare di funzionamento, ma un vero e proprio codice etico che presieda alla vita normale delle pubbliche amministrazioni. La questione morale, ovvero la consapevolezza piena dello stato di degrado in cui versa la vita amministrativa del Sud – che langue quasi ovunque tra arroganza, sprechi, incompetenze, clientele, commistioni affaristiche e contiguità col malaffare -, dovrebbe attraversare come un lievito decisivo l’intera azione istituzionale, nonché tutte le istanze di progresso, le rivendicazioni dei movimenti, le stesse vertenze specifiche. E un elemento decisivo di questo processo virtuoso dovrebbe essere costituito, a nostro avviso, dalla effettiva permeabilità delle amministrazioni alle istanze dei movimenti e delle associazioni impegnate sul versante dei diritti e nelle pratiche di solidarietà. Non sono cose difficili: tavoli di ascolto e bilanci partecipati da parte degli Enti locali; effettivo valore al confronto pubblico per limare e limitare le asperità burocratiche da parte di chiunque abbia ruoli istituzionali; rendiconto trasparente di cosa si delibera e su come si attuano concretamente i dispositivi normativi.

Diritto alla tutela dalle pressioni affaristiche e mafiose.

Noi lo sappiamo: nessuna ricetta esclusivamente economica può davvero affrontare una questione meridionale diventata oggi così complessa, e una realtà sociale così lacerata e lacerante, così piena di contraddizioni. Siamo nell’epoca in cui un reale ed armonico avanzamento economico riesce solo se si colloca entro l’alveo di una società attraversata da relazioni positive al suo interno, che costruisce e conserva elementi di civiltà finanche sul piano dei più minuti legami interpersonali. Occorre perciò guardare con grande attenzione non soltanto ai dati nudi e crudi dell’economia, ma anche alla qualità intrinseca del tessuto sociale, al segno che contraddistingue le relazioni interpersonali, al comune senso civico, al grado di autonomia intellettuale degli strati popolari, ai codici comportamentali, al formarsi dei processi di identità e di appartenenza. Occorre, in beve, far pienamente interagire società ed economia, tanto sul piano dell’indagine quanto sul piano della proposta, proprio perché già esse interagiscono nella concreta realtà del nostro tempo. Per questo, anche per questo, è necessario porre nel modo giusto il tema della lotta alla criminalità organizzata, così pervicacemente presente in larga parte dei territori del Sud. Essa è espressione di un determinato assetto sociale, e le mafie e le camorre sono parti reali del sistema dei poteri dominanti. Con l’aggravante che la criminalità organizzata si alimenta continuamente della illegalità diffusa, che in particolare nelle cinture urbane è una pratica di massa e coinvolge fasce amplissime di popolazione, e cresce anche grazie alle sue intersecazioni con un diffuso circuito di microdelinquenza aggressivo e privo di scrupoli. Nel combattere i fenomeni mafiosi e delinquenziali, le classi dominanti evitano accuratamente di chiamare in causa lo sviluppo capitalistico per come concretamente si articola e si struttura nel Mezzogiorno. Il risultato è una prospettiva puramente securitaria oppure un lasciar correre e un convivere. Noi additiamo, invece, la via di una vera e propria lotta sociale contro la criminalità organizzata e la via di una iniziativa sociale e politica specifica contro l’illegalità diffusa e la microdelinquenza. Si tratta, in sostanza, di rendere protagonisti di una tale iniziativa non le istituzioni separate, ma direttamente le popolazioni, legando questa lotta al loro riscatto sociale e alla costruzione di contenuti e presidi di civiltà. La via maestra è proprio la moltiplicazione dei presidi di civiltà. Non si batte la criminalità con la semplice intensificazione della repressione. Da un lato essa si limiterebbe a contenere solo gli effetti di una più complessiva dinamica economica e sociale, e potrebbe contenerli, del resto, solo momentaneamente; dall’altro, se spinta all’eccesso, fino alla militarizzazione del territorio, essa riprodurrebbe per altre vie la stessa insicurezza che si vorrebbe combattere: una sparatoria tra agenti di polizia e malviventi non è meno micidiale di una sparatoria tra bande criminali… Ma anche invocando maggiore sviluppo per combattere mafia e camorra, si rischia di porre male il problema: fin quando lo sviluppo avrà come centro il profitto e la mercificazione, fin quando esso genererà una domanda assolutamente squilibrata, con la mitologia del consumismo opulento da un lato e la rincorsa affannosa alla sopravvivenza dall’altro, fin quando, in una parola, si limiterà a produrre e riprodurre l’attuale società, questo sviluppo s’accompagnerà sempre al degrado, alla barbarie, alla violenza e alla morte. Occorre allora tesaurizzare pienamente il fatto che la criminalità si distende tra degrado e profitto, e che perciò occorre muoversi esattamente contro il sistema del degrado e contro l’opacità del profitto. La legalità e il rispetto delle regole non si impongono con gli stati d’assedio, ma moltiplicando i punti di vivibilità autentica dei territori. Le scuole, le strutture sanitarie, il reticolo funzionante dei trasporti pubblici, l’associazionismo, il volontariato: sono tutti presidi che fanno barriera contro la criminalità organizzata e contro l’illegalità diffusa allo stesso modo, e a volte anche di più, delle caserme dei carabinieri, dei commissariati di polizia e dei tribunali. Si vogliono più sicure le regioni meridionali? Allora la prima risposta è il lavoro, e la seconda sono i servizi sociali. Ed è anche necessario, parallelamente, che la politica si modifichi realmente nel rapporto con i cittadini, puntando ad essere più trasparente e più partecipata. Quando la cosa pubblica è attraversata dalle istanze della gente normale, allora gli interessi particolari dei ceti privilegiati, anche gli interessi perversamente intrecciati con i poteri criminali, sono costretti ad indietreggiare. Ma il degrado di cui parliamo non è soltanto il degrado dei quartieri, delle città, dell’ambiente; il riferimento è anche a punti specifici di degrado, per esempio le carceri. E poi c’è una seconda prospettiva d’intervento: contro la sacralità, contro i santuari del profitto, le banche e i segreti bancari, i patrimoni e i segreti patrimoniali, i paradisi fiscali e la cortina di protezione che sta intorno ai paradisi fiscali. Si tratta insomma di far valere, anche sul tema della criminalità, la critica alle ingiustizie e alla barbarie della moderna società capitalistica, sfidando le logiche securitarie e riproponendo la centralità assoluta degli esseri umani e dei loro diritti di cittadinanza.

Questo insieme di diritti, noi sottoscritti li rivendichiamo apertamente di fronte all’insieme delle istituzioni del nostro Paese.
È una CARTA DEI DIRITTI che si misura con le condizioni difficili del Sud.
Ma essa vale, nei nostri convincimenti, tanto per il Sud quanto per l’Italia intera.

Pubblicato sul numero 8/9 settembre 2020 del mensile Lavoro e Salute

www.lavoroesalute.org

Puoi leggerlo anche in versione interattiva: http://www.blog-lavoroesalute.org/lavoro-e-salute-settembre-2020/

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