Case a lavoro. Storie di homeworkers.

Telelavoro non è la parola adatta. Chi lavora da casa oggi è il più delle volte un indipendente, senza un contratto subordinato, senza una sede centrale di riferimento. Il termine telelavoro nasce piuttosto per definire attività dipendenti che si svolgono a distanza, delocalizzate in periferia rispetto a un centro che rimane l’azienda, l’ufficio. Per gli indipendenti, invece, la maggior parte delle volte il centro non esiste per definizione. La casa diventa così punto di partenza, back-office, laboratorio in cui dislocare una parte dell’attività economica. E allora mancano le parole per definire un fenomeno che, non solo esiste nel nostro paese, ma coinvolge unnumero significativo di individui, soprattutto nel terziario avanzato. Sono i cosiddetti ‘lavoratori della conoscenza’ o autonomi di seconda generazione[1], nel 2012, rispetto agli altri paesi europei l’Italia ne contava il numero più alto[2]. Secondo i dati Istat sulle forze lavoro relativi all’anno 2013 e rielaborati dall’Associazione dei Consulenti del Terziario Avanzato (ACTA) i nuovi autonomi in Italia sono più di 1,2 milioni, quasi il 6% della popolazione. E negli ultimi anni la presenza delle donne tra questi professionisti è cresciuta sensibilmente passando dal 27% nel 2004 al 32% nel 2013. Un dato che, insieme alla femminilizzazione del lavoro ‘atipico’, intercetta le difficoltà maggiori che una donna incontra sul mercato del lavoro subordinato rispetto ai colleghi maschi, e allo stesso tempo tiene traccia di adattamenti inediti e invenzioni quotidiane: sempre più spesso, sono proprio le donne che si trovano, per scelta o per necessità, a lavorare da casa.

Storie di homeworkers

Consulenti, grafiche, redattrici, traduttrici, illustratrici, ma anche artigiane, coltivatrici, professioniste iscritte a Ordini e Albi, come giornaliste o avvocate. Cosa succede se a lavorare da casa è una donna, in un paese come il nostro dove la conciliazione pesa ancora tutta su un sesso? A raccontarlo è Sandra Burchi, sociologa e filosofa che da anni raccoglie storie di donne e di case. Nel testoRipartire da casa. Lavori e reti dallo spazio domestico[3], l’autrice ha raccolto le biografie di dieci homeworkers italiane d’età compresa tra i 29 e i 49 anni.

Senza soluzione di continuità con una storia appena precedente all’ingresso delle donne nel mercato del lavoro ‘fuori’ (che ha visto le lavoratrici a cottimo, le sarte, le piccole artigiane, produrre reddito dentro le case), Burchi racconta di come il domestico può diventare sito di resistenza inedito, scenario di complicati andirivieni tra il dentro e il fuori, a metà strada tra categorie che risultano non più appropriate come quelle di ‘pubblico’ e ‘privato’, ‘reale’ e ‘virtuale’. Gli ambienti abitati dalle professioniste di Burchi non hanno mura impermeabili, ma sono interni ‘iper-connessi’ in cui schermi e fili sovraespongono costantemente corpi e intelligenze. La casa non è più luogo deputato all’intimità, alla riservatezza, ma spazio aperto a incursioni continue (telefoni che squillano, smartphone e pc che notificano continuamente notizie da caselle di posta elettronica, programmi di messaggistica istantanea, discussioni tramite social network), una dimensione non del tutto ‘privata’, insomma. I profili delle protagoniste di queste storie sono anch’essi ‘eccedenti’, perché non sempre rappresentano unicamente il segno di una strategia di sopravvivenza, ma tengono in conto il desiderio, rappresentando quindi anche un tentativo di sottrarsi a percorsi totalmente eterodiretti, convenzionali e il più delle volte frustranti.

Non si tratta tanto di lavori da casa, potremmo dire quindi, quanto in più di un senso di lavori fatti in casa, con tutto il significato di ‘autoproduzione’ che questa espressione si porta dietro.

“Lavorare a casa può essere una soluzione a lungo termine o di passaggio, ma rappresenta in ogni caso un adattamento che ha a che fare con un di più di invenzione” ci spiega Burchi in un’intervista. “È un’esperienza sempre più diffusa, anche se ancora poco visibile e priva di attenzioni economiche e normative, che va valorizzata ma non celebrata, in modo da comprenderne la complessità. Il lavoro indipendente è, in un certo senso, il risultato di un non pensiero pubblico, un lavoro abbandonato a se stesso, e al tempo stesso un settore in cui si produce molto di nuovo, si trasforma, si va incontro a prospettive impensate, alla soddisfazione di desideri, anche. Partire dalle storie allora ha significato molto, perché le storie raccontano meglio questo chiaroscuro rispetto a un ‘discorso sul lavoro’. I racconti, le esperienze tengono dentro tutto, la vita. Le protagoniste del mio libro utilizzando un capitale di partenza sono riuscite a realizzare progetti molto ambiziosi rispetto a quello che c’è intorno”.

Storie, che fanno da termometro ai cambiamenti in corso. Tempi, che non si mettono in riga. Corpi, che continuamente si riorganizzano. Case, che non restano chiuse al mondo.

Stanze (non solo) per sé

E sono proprio gli spazi, i primi a registrare questo ‘strano ritorno’ al domestico. Risale al 2012 l’hashtag #ufficioincasa, lanciato su Twitter da Francesca Sanzo, consulente specializzata in media digitali, per raccontare come si svolgono le giornate di chi lavora da remoto, non solo a parole, ma attraverso fotografie di scrivanie e ambienti contaminati da elementi familiari e domestici come gatti, piante, panni, giochi dei bambini, bollette, tazze di tè. L’abbiamo intervistata. “L’hashtag è stato Trend Topic per due giorni nel 2012 ed è ancora utilizzato dagli homeworkers italiani, ha avuto subito grande adesione lasciando emergere un fenomeno non ancora raccontato. Ne ho parlato anche nel mio e-book Narrarsi online e secondo me è un dato importante rispetto alla percezione che si ha di questo tipo di modalità lavorativa e della sua invisibilità” ci spiega Francesca.

Il rischio, per una donna, è proprio quello di lasciarsi inghiottire da uno spazio che storicamente ha significato svolgere attività di manutenzione gratuite e invisibili, di ridimensionare il lavoro all’ennesimafaccenda domestica. Una preoccupazione che decisamente si intuisce nel documentario della registaSilvia Savorelli Le stanze delle donne, dove l’inquietudine a colori delle protagoniste che hanno portato a casa l’ufficio viene quasi contrapposta al sorriso in bianco e nero dei gruppi di operaie e impiegate immortalate nelle immagini di repertorio degli anni Sessanta.

Eppure l’eventualità dell’invisibilità, dell’isolamento, del moltiplicarsi della fatica, del multitasking che diventa declinazione potenziata del concetto di conciliazione, non è tutto ciò che accade quando una donna oggi si trova a lavorare per il mercato da una postazione situata in una sala, nel corridoio, in cucina o in camera da letto. È vero, bisogna ancora fare i conti con il fantasma dell’angelo del focolare di cui parlava Virginia Woolf nel 1931[4], ma nel portarsi a casa il mondo c’è qualcosa di nuovo, che ha a che fare anche con i desideri e la percezione di sé e del presente, riporta Burchi: “Nelle storie che ho raccolto, più che la fatica di una conciliazione declinata al femminile, è emersa forte l’urgenza di trovare vie percorribili per tutti”.

Prezzi da pagare

Nel suo libro, Burchi dice anche degli apprendimenti, di tutto quello che da un lavoro fatto in casa s’impara. Per esempio, a darsi un prezzo. Operazione difficile soprattutto quando non c’è un albo o un ordine di riferimento a stabilire dei parametri. Oppure a misurare equivalenze, tra tempo e lavoro, tra lavoro e valore monetario.  Molte energie, spiega Burchi, vengono impiegate proprio per cercare continuamente un equilibrio, nel negoziare periodicamente le proprie competenze, nel tentare continuamente di rendere visibile il proprio valore. Accade in questa cornice che si compongano i redditi di attività più “stabili” insieme ad altri provenienti da attività instabili ma più creative e imprenditoriali. Ricomposizione che in alcuni casi coinvolge il partner o i nuclei familiari di partenza. “Un dato comune è che a livello di ore alla fine si lavora molto rispetto ai cicli di lavoro tradizionale. C’è una sproporzione tra il tanto di tempo e di sé che viene impiegato, e quel che viene prodotto. Uno scarto che d’altra parte viene ricompensato da un largo margine di autonomia nella produzione e nella progettazione, un’autonomia altrimenti impensabile” sottolinea Burchi.

In generale, il lavoro indipendente è coinciso con uno spostamento complessivo di costi di varia natura dalle organizzazioni ai singoli. La gestione della contabilità, la pressione fiscale e contributiva, come ci conferma ACTA, rappresentano oggi tra i disagi maggiori per chi svolge la propria professione come indipendente. E le misure istituzionali sembrano procedere verso un inasprimento fiscale e contributivo. Solo a novembre 2014 l’Osservatorio del Dipartimento delle Finanze ha censito 38.351 nuove partite IVA,  l’84% in più rispetto al corrispondente mese dell’anno precedente, una corsa per sfuggire al nuovo regime dei minimi previsto per il 2015, ancora più penalizzante per gli autonomi e su cui dopo le proteste virali il governo ha fatto un parziale passo indietro per l’anno in corso.

Cercare un fuori

Insomma, se da un lato il lavoro autonomo permette di ricollocarsi in un momento di crisi del mercato del lavoro inteso come diritto, dall’altro non sono state adottate misure in tema di salute, congedi parentali, pensioni, che garantiscano una qualità di vita dignitosa alle persone, a prescindere dai contratti. È anche per rispondere a questo vuoto che sono nate iniziative ed esperienze partecipate di mutualismo, coworking e cofinanziamento.

Samanta Boni, di ACTA, associazione nata proprio per rappresentare e fornire assistenza a professionisti e consulenti del “terziario avanzato”, ci racconta del caso di Daniela Fregosi, freelance malata di tumore al seno, e del suo sciopero contributivo nei confronti dell’Inps2. Un caso che ha fatto il giro del web e per cui l’associazione ha deciso di esporsi creando un precedente normativo.

Come già la Mutua Elisabetta Sandri, istituita da STRADE, Sindacato dei Traduttori Editoriali, anche ACTA, consente di entrare a far parte di un sistema di solidarietà tra pari, con la possibilità di abbonarsi a convenzioni di mutuo soccorso per la salute e accedere a una previdenza complementare agevolata.

Intanto, per reagire al rischio di isolamento professionale e umano, si diffonde il modello del CoWorking, e aumentano gli spazi condivisi che offrono anche la possibilità di intraprendere percorsi comuni. La ricercatrice Elisa Badiali, dell’Università di Bologna, in una ricerca diffusa a maggio 2014, ne ha censiti finora più di 200 a livello nazionale. Su inGenere ne abbiamo parlato a proposito delprogetto Cobaby, gestito a Milano dal team MammeCheFatica, e del coworking L’Alveare, nato a Roma a settembre.

E chissà, se le stanze di autonome e professioniste non tenderanno nel prossimo futuro a spostarsi sempre più in questi spazi condivisi. D’altra parte, come scrive Burchi, la casa non è mai destinazione definitiva, ma sempre punto di partenza o di passaggio, tutte cercano un fuori.

 Claudia Bruno

13/3/2015 www.ingenere.it

NOTE

[1]Knowledge workers, nei paesi di lingua anglosassone. Per una fotografia del lavoro indipendente in Italia prima del Jobs Act, si veda Giuseppe Allegri, Roberto Ciccarelli, Il Quinto Stato, Ponte alle Grazie, Milano, 2013 [2]European I-Pros. A Study, 2012 chiamato anche “Rapporto Rapelli”, dal nome del suo relatore Stéphane Rapelli dell’Associazione di consulenti inglesi Professional Contractors Group (PCG), tra gli organismi fondatori dell’European Forum of Independent Professionals (EFIP), al quale aderisce anche l’ACTA. [3] Uscito per Franco Angeli a fine 2014 [4] Virginia Woolf, “Professioni per le donne”, 1931, in Le donne e la scrittura, a cura di Michèle Barret, La Tartaruga, Milano, 2003, pp. 53-59

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