CASSAZIONE: INFARTO DA SUPERLAVORO? IL DATORE E’ SEMPRE “COLPEVOLE”
Lavorava senza tregua, portandosi anche il lavoro a casa, pur di raggiungere gli obiettivi che il suo datore, una grossa società di telecomunicazioni, gli aveva assegnato. Stefano S., funzionario della Ericsson, non si era mai lamentato per questo stress continuo. Ma un carico di undici ore di lavoro al giorno alla fine lo ha portato all’infarto. Ora la Cassazione ha stabilito che una morte del genere deve essere risarcita dal datore che non può ignorare “le modalità attraverso le quali ciascun dipendente svolge il proprio lavoro”.
Alla moglie e alla figlia del dipendente morto per infarto dovuto ai “ritmi insostenibili” dell’attività lavorativa, la società deve corrispondere, rispettivamente, 434.000 euro e 425.000 euro, oltre agli oneri accessori.
Senza successo, la Ericsson è ricorsa in Cassazione contro la decisione della Corte di Appello di Roma che, nel 2011, aveva accolto la richiesta di risarcimento danni patrimoniali e materiali avanzati dalla vedova di Stefano S. anche in nome della loro unica figlia, ancora minorenne. In primo grado, invece, il Tribunale aveva negato la responsabilità del datore.
Ad avviso della Suprema Corte, “con motivazione logicamente argomentata e giuridicamente corretta”, il verdetto di appello ha ritenuto che “la responsabilità del modello organizzativo e della distribuzione del lavoro fa carico alla società, la quale non può sottrarsi agli addebiti per gli effetti lesivi della integrità fisica e morale dei lavoratori che possano derivare dalla inadeguatezza del modello adducendo l’assenza di doglianze mosse dai dipendenti”.
Inoltre, secondo gli “ermellini” il datore non può sostenere “di ignorare le particolari condizioni di lavoro in cui le mansioni affidate ai lavoratori vengano in concreto svolte”.
Per la Cassazione, “deve infatti presumersi, salvo prova contraria, la conoscenza, in capo all’azienda, delle modalità attraverso le quali ciascun dipendente svolge il proprio lavoro, in quanto espressione ed attuazione concreta dell’assetto organizzativo adottato dall’imprenditore con le proprie direttive e disposizioni interne”.
Nel caso in questione era emerso che Stefano S. “per evadere il proprio lavoro, era costretto, ancorché non per sollecitazione diretta, a conformare i propri ritmi di lavoro all’esigenza di realizzare lo smaltimento nei tempi richiesti dalla natura e molteplicità degli incarichi affidatigli dalla Ericsson”.
In base alla Consulenza Tecnica di Ufficio, l’infarto che lo colpì, un martedì mattina al lavoro, “era correlabile, in via concausale, con indice di probabilità di alto grado, alle trascorse vicende lavorative”. Senza successo la società si è difesa dicendo che i “ritmi serratissimi” adottati da Stefano S. “non erano a lei imputabili ma dipendevano dalla attitudine” del dipendente “a sostenere e a lavorare con grande impegno e al suo coinvolgimento intellettuale ed emotivo nella realizzazione degli obiettivi”.
In ordine alla responsabilità del datore di lavoro, precedentemente la Cassazione Sezione Lavoro, con Sentenza n. 2038 del 29 gennaio 2013, ha sostenuto che l’articolo 2087 del Codice Civile non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento.
Ne consegue che incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare l’esistenza di tale danno, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’uno e l’altro, e solo se il lavoratore abbia fornito la prova di tali circostanze sussiste per il datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non è ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi.
La stessa sentenza, peraltro, in una fattispecie di mobbing, ha rilevato che la riconosciuta dipendenza delle malattie da una “causa di servizio” non implica necessariamente, o può far presumere, che gli eventi dannosi siano derivati dalle condizioni di insicurezza dell’ambiente di lavoro, potendo essi dipendere piuttosto dalla qualità intrinsecamente usurante della ordinaria prestazione lavorativa e dal logoramento dell’organismo del dipendente esposto ad un lavoro impegnativo per un lasso di tempo più o meno lungo, restandosi così fuori dall’ambito dell’articolo 2087 del Codice Civile, che riguarda una responsabilità contrattuale ancorata a criteri probabilistici e non solo possibilistici.
Nel medesimo senso, la Cassazione Sezione Lavoro, con Sentenza n. 18626 del 05 agosto 2013, ha affermato il principio generale in materia secondo il quale la responsabilità dell’imprenditore ex articolo 2087 Codice Civile non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, ma non è circoscritta alla violazione di regole d’esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, essendo sanzionata dalla norma l’omessa predisposizione di tutte le misure e cautele atte a preservare l’integrità psicofisica del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto della concreta realtà aziendale e della maggiore o minore possibilità di indagare sull’esistenza di fattori di rischio in un determinato momento storico.
Pertanto, qualora sia accertato che il danno è stato causato dalla nocività dell’attività lavorativa per esposizione all’amianto, è onere del datore di lavoro provare di avere adottato, pur in difetto di una specifica disposizione preventiva, le misure generiche di prudenza necessarie alla tutela della salute dal rischio espositivo secondo le conoscenze del tempo di insorgenza della malattia.
In ordine alla rilevanza dell’infarto sul piano infortunistico sul lavoro, la Cassazione Sezione Lavoro, con Sentenza n. 12685 del 29 agosto 2003, ha precisato che, nell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro, la causa violenta consiste in un evento che con forza concentrata e straordinaria agisca, in occasione di lavoro, dall’esterno verso l’interno dell’organismo del lavoratore, dando luogo ad alterazioni lesive. Con riguardo a un infarto cardiaco, che di per sé non integra la causa violenta, va accertato se la rottura dell’equilibrio nell’organismo del lavoratore sia da collegare causalmente a specifiche condizioni ambientali e di lavoro improvvisamente eccedenti la normale adattabilità e tollerabilità, sì da poter essere considerate, sia pure in termini di mera probabilità, fattori concorrenti e da far escludere che si sia trattato del semplice effetto logorante esercitato sull’organismo da gravose condizioni di lavoro.
Nel medesimo senso, la Cassazione Sezione Lavoro, con Sentenza n. 19682 del 23 dicembre 2003, ha affermato che, in tema di infortuni sul lavoro, lo sforzo fisico, al quale possono essere equiparati stress emotivi e ambientali, costituisce la causa violenta, ex articolo 2 del D.P.R. del 30 giugno 1965, n. 1124, che determina con azione rapida e intensa la lesione. La predisposizione morbosa del lavoratore non esclude il nesso causale tra lo stress emotivo e ambientale e l’evento infortunistico, in relazione anche al principio della equivalenza causale di cui all’articolo 41 del Codice Penale, che trova applicazione nella materia degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali, dovendosi riconoscere un ruolo di concausa anche ad una minima accelerazione di una pregressa malattia (nella specie, la sentenza impugnata, confermata dalla Suprema Corte, ha ritenuto sussistente l’occasione di lavoro in relazione al decesso del responsabile di uno stabilimento, già affetto da patologia cardiaca, avvenuto a causa di un infarto determinato da stress emotivo, conseguente all’attivazione dell’allarme antincendio dello stabilimento e alla necessità di un suo intervento, e da stress ambientale, riconducibile alla rigida temperatura esistente all’esterno).
In precedenza, la Cassazione Sezione Lavoro, con Sentenza n. 13982 del 24 ottobre 2000 aveva affermato che, nell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro, al fine di determinare se a un infarto cardiaco (che di per sé rappresenta una rottura dell’equilibrio nell’organismo del lavoratore concentrata in una minima misura temporale e quindi integra una “causa violenta”) è riconoscibile un’eziologia lavorativa, va accertato se gli atti lavorativi compiuti, ancorché non caratterizzati da particolari sforzi e non esulanti dalla normale attività lavorativa esercitata dall’assicurato, abbiano avuto l’efficienza di un contributo causale nella verificazione dell’infarto.
La sentenza n. 9945 dell’8 maggio 2014 della Corte di Cassazione Civile è consultabile all’indirizzo:
Andrea Rosana
Da: LavoroFisco www.lavorofisco.it
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