Cattivi maestri e sprovveduti “dilettanti allo sbaraglio”
In qualità d’italiano e cittadino-medio vorrei poter essere sempre fiero del mio Paese e orgoglioso della sua classe dirigente; del presente ma, ancora più, di quella futura. Auspico, quindi, che – tra i giovani presenti, alla LUISS di Roma, alla recente “performance” di Francesco Starace – sia stata, al massimo, solo un’insignificante minoranza a cedere ai bassi istinti primordiali sollecitati dalle gravissime dichiarazioni dell’AD Enel.
Tale da garantire che gran parte della nuova classe dirigente del Paese sia impegnata affinché, in futuro, il livello dell’imprenditore-medio italiano si allinei, almeno, a quello minimo dell’UE.
Sarebbe veramente preoccupante, a medio-lungo termine, che si realizzassero, invece, le condizioni di assoluta (in)vivibilità che lo Starace considera opportuno adottare al fine di “normalizzare” l’organizzazione aziendale.
Per intendere fino in fondo, però, i motivi di dissenso, e seguire la riflessione che ne scaturisce, è indispensabile tornare alla LUISS. Il tutto ebbe origine da una domanda posta da uno degli studenti presenti.
“Qual è la ricetta di successo del cambiamento in un’organizzazione come l’Enel?”.
Forse perché coinvolto dalla predisposizione del giovane pubblico alla semplificazione dei concetti, dal ritrovarsi dinanzi un uditorio che pareva prendere molto sul serio le sue considerazioni, o, più semplicemente, perché, comunque, oppresso da cotanto cognome e ingombranti parentele – che sembrano obbligarlo a essere perennemente teso all’affermazione della propria personalità e indurlo a esprimersi sempre “sopra le righe” – l’Ad dell’azienda elettrica si produsse in un’articolata risposta; tale da non lasciare alcun margine di dubbio circa il senso delle sue parole.
Naturalmente, affinché ai lettori non permangano dubbi e per evitare la solita pantomima delle precisazioni postume, è opportuno evitare di operare un commento sulla scorta di uno stralcio delle dichiarazioni.
Si offrirebbe, troppo facilmente, il fianco alle classiche recriminazioni e accuse: aver riportato solo alcune, frasi estrapolandole dal “contesto” e, per questo, alterandone il significato reale. Al riguardo, la storia politica degli ultimi anni abbonda di casi del genere. Basti ricordare, per esempio, le insulse barzellette e le stupide battute, spesso fuori luogo, gli apprezzamenti volgari e gli sguardi indecorosi, rivolti ad alcune affascinanti signore – uno per tutti, quello, semplicemente indecente, rivolto a Michelle Obama – di Silvio Berlusconi. Ebbene, erano tutte, sistematicamente, seguite – a cura dei suoi agguerriti sgherri – da smentite e precisazioni che, di norma, finivano con le ricostruzioni più fantasiose possibili; come la “bufala” di Ruby, la escort egiziana contrabbandata quale nipote di Mubarak!
“Per cambiare un’organizzazione, basta un manipolo (gergo di natura marcatamente fascista. NdR) di cambiatori. Poi vanno individuati i gangli di controllo dell’organizzazione che si vuole cambiare e distruggere fisicamente questi centri di potere. I cambiatori vanno infilati là dentro e, dandogli una visibilità sproporzionata, rispetto al loro status aziendale (come i kapò, che restavano, pur sempre ebrei asserviti. NdR), creare malessere all’interno dell’organizzazione dei gangli che si vuole distruggere. Appena questo malessere diventa sufficientemente manifesto, si colpiscono le persone opposte al cambiamento, e la cosa va fatta nella maniera più plateale e manifesta possibile, sicché da ispirare paura o esempi positivi nel resto dell’organizzazione (i nazifascisti usavano appendere un cartello al collo degli impiccati: “partigiano”, “ebreo”, “collaborazionista” o “spia”; secondo quello che ritenevano più adeguato al momento NdR). Questa cosa va fatta in fretta, con decision e senza nessuna requie, e dopo pochi mesi l’organizzazione capisce perché alla gente non piace soffrire. Quando capiscono che la strada è un’altra, tutto sommato si convincono miracolosamente e vanno tutti li”.
E, concludendo, con evidente enfasi e, plateale, soddisfazione; ”E’ facile!”.
Dico subito che, sono convinto che Starace non intendesse usare alcuna metafora, né perifrasi. Di certo non lo immagino intento a gustarsi la scena di lavoratori sottoposti alla pena corporea di venti o cinquanta frustate; resta, però, estremamente chiaro il suo suggerimento/insegnamento di ispirare paura e colpire “chi non ci sta” nella maniera più plateale e manifesta possibile.
D’altra parte, in qualità di ex dipendente, in quiescenza dopo una decina di anni dall’avvento di Starace e ancora in contatto con molti colleghi, delle più svariate parti d’Italia, sono in condizione di confermare che, già da diversi anni, il “clima” che aleggia nelle aziende che fanno, comunque capo all’Ente nazionale, non è certamente idilliaco, né tanto invidiabile! Tutt’altra cosa rispetto a quella che, pur tra qualche eccesso, da parte delle maestranze, aveva caratterizzato la storia dei rapporti, individuali e collettivi, all’interno dell’Ente Nazionale Energia Elettrica.
Appare, quindi, fondato il timore espresso da qualche attento osservatore, secondo il quale Starace appare portatore di una cultura d’azienda fondamentalmente di “guerra”; come quando – nel corso di una tornata elettorale – Berlusconi e i suoi degni compari, Brunetta in testa, affermavano che non avrebbero fatto prigionieri.
Personalmente, non credo di esagerare, né correre il rischio di poter essere accusato di gridare, impunemente, “al ladro”, “al ladro” – rispetto alle funeste conseguenze che, temo, produrrebbe, sulla condizione di vivibilità degli ambienti di lavoro, l’applicazione di una ricetta del genere – se affermo che siamo di fronte a posizioni di stampo meramente fascista.
In effetti, a pensarci, oggi siamo ridotti, purtroppo, nell’angusta condizione di considerare archeologia industriale – assolutamente e irreversibilmente riproponibile – la visione che aveva Adriano Olivetti del rapporto tra lavoratore/collaboratore e imprenditore e, contemporaneamente, paventare il rischio di tornare ai tempi “bui”; della condizione operaia, in Fiat, ai tempi di Valletta.
La pericolosità della disinvoltura, attraverso la quale Starace diffondeva il suo “verbo” d’imprenditore di successo, l’assoluta certezza, che manifestava nel sostenere le cose a suo parere fondamentali, per operare i cambiamenti in azienda e, non ultima, la particolare natura di “classe” del suo pubblico, vanno, a mio avviso, ben oltre i famigerati “Reparti confino”, di vallettiana memoria.
Sono questi, in definitiva, gli elementi che, me lo sarei aspettato, avrebbero dovuto produrre una vera e propria “levata di scudi”, almeno da parte delle OO.SS. di categoria. Nulla, mi pare sia successo. A ulteriore conferma, se necessaria, che il Sindacato non esiste più!
C’è una Cgil che, tra i lavoratori, paga lo scotto della sua sostanziale accondiscendenza a troppe delle decisioni assunte, in particolare, dal governo Monti e, poi, Letta; oggi langue, nell’assoluta indifferenza riservatole dal governo Renzi.
Ci sono, poi, Cisl e Uil che – giustamente, a mio parere – pagano un’enorme serie di errori. Dalla troppa disponibilità alle numerose controriforme operate da Berlusconi – penso, in particolare, ai contratti a termine, al part-time e alla legge c.d. “Biagi” – al sostegno offerto a Monti e alla Fornero; ma, soprattutto, al loro eccessivo ricorso ai c.d. “accordi separati”, con l’esiziale tentazione di marginalizzare la Cgil e restare, in sostanza, interlocutori privilegiati del governo di turno. Hanno miseramente fallito; su tutta la linea.
Già è difficili immaginare, a breve, quella che definirei la vera e propria “resurrezione” della classe operaia e impiegatizia; se, poi, a questa situazione si aggiungono rigurgiti fascisti, l’obiettivo si allontana nel tempo e l’orizzonte si copre di foschi presagi!
Renato Fioretti
Esperto di diritto del lavoro
Collaboratore redazionale di Lavoro e Salute
28/5/2016
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