CENTRI PER MIGRANTI IN ALBANIA: UNA DISTOPIA ORWELLIANA CHE CANCELLA I DIRITTI UMANI

di Alberto Barbieri

Medico e psicoterapeuta, coordinatore generale di Medici per i Diritti Umani

E’ notizia di queste ore che i giudici del Tribunale di Roma non hanno convalidato il trattenimento delle prime 12 persone deportate nel Centro per migranti di Gjadër in Albania. La nota del tribunale spiega che la decisione presa è dovuta all’impossibilità di riconoscere come “paesi sicuri” gli Stati di provenienza dei migranti trattenuti. Le autorità italiane dovranno quindi riportare in Italia i 12 malcapitati. Una notizia che ci lascia intravedere un piccolo spiraglio di giustizia. Proviamo a spiegare perché.

Il centro di Gjader,, nord-ovest dell’Albania è una grande struttura completamente recintata da grate alte diversi metri che in alcuni spazi fanno anche da soffitto. Un centro isolato tra le montagne. Un’area da 880 posti, circondata da due giri di recinzione metallica, è dedicata ai richiedenti asilo con container come alloggi. Un’altra sezione da 144 posti, cinta da tre giri di recinzione metallica, è destinata a centro per il rimpatrio (CPR) con prefabbricati in muratura. Vi è infine un’area carceraria con 40 posti previsti dove dovrebbe essere detenuto chi commette reati a Gjadër o nel centro di prima accoglienza, l’Hotspot di Shëngjin, a venti chilometri di distanza sulla costa albanese. Sembra una distopia orwelliana ma è purtroppo la realtà del nuovo centro extra-territoriale inaugurato dalle autorità italiane per contenere e scoraggiare i flussi migratori. Qui le persone saranno rinchiuse in regime di detenzione amministrativa. Quello che dovrebbe essere un modello per l’Europa rischia in realtà di diventare il luogo dove non solo vengono sistematicamente calpestati i diritti fondamentali della persona ma dove si sgretola il senso stesso della nostra civiltà europea. I profili di illeggitimità dal punto di vista del diritto interno e internazionale di quello che viene chiamato dal governo italiano “un esperimento” sono probabilmente innumerevoli. Noi ci soffermeremo su ciò che ci riguarda più da vicino, ovvero la tutela della salute e le sue violazioni.

Nel corso degli anni, come Medici per i Diritti Umani (MEDU) abbiamo avuto esperienza diretta di diverse tipologie di centri per migranti approntati dalle autorità italiane. I nostri operatori hanno monitorato a lungo tutti i CPR sparsi per il territorio italiano documentando non solo gravi violazioni dei diritti umani ma anche la sostanziale inutilità di queste strutture nel contrasto dell’immigrazione irregolare (si veda Arcipelago CIE). Team di medici e psicologi di MEDU hanno lavorato all’interno del più grande centro italiano per richiedenti asilo a Mineo e continuano a lavorare negli hotspot situati nella Sicilia orientale. I nostri clinici hanno prestato assistenza a migliaia di migranti e rifugiati provenienti dalle rotte dell’Africa Sub-sahariana e transitati attraverso la Libia e la Tunisia e hanno potuto certificare le gravissime violenze che ha subito la gran parte di loro sia nei paesi di origine sia lungo la rotta migratoria. Secondo i dati raccolti dalla nostra associazione e pubblicati in diversi report (si veda La Fabbrica della Tortura) e riviste scientifiche internazionali (si veda articolo) circa il 90% dei migranti provenienti dalla Libia è stato sottoposto a tortura e ad abusi inauditi. Le conseguenze di esperienze così traumatiche non lasciano i loro segni solo sul corpo dei sopravvissuti ma spesso in modo ancora più devastante nella loro psiche. Dal 2014 i nostri clinici hanno preso in carico migliaia di casi di disturbo da stress posttraumatico severo, di depressione e di altri gravi problemi psicologici correlati al trauma. L’esperienza ci ha insegnato che i sintomi e i segni di questi disturbi, sebbene molto invalidanti, si dimostrano spesso anche subdoli e difficilmente riconoscibili ad una prima valutazione da operatori non formati. Gli studi che abbiamo condotto e pubblicato (si veda articolo), insieme a quelli di molti altri gruppi di ricerca, dimostrano in maniera contundente che le condizioni di accoglienza sono deteminanti quasi come i traumi stessi nel determinare l’insorgenza e l’aggravamento dei disturbi post-traumatici. L’isolamento, la detenzione, l’incertezza circa il proprio futuro, la difficoltà ad accedere ai servizi socio-sanitari, le grandi dimensioni dei centri di accoglienza hanno dimostrato di essere tutti fattori gravemente ritraumatizzanti per persone sopravvissute alle esperienze estreme di cui abbiamo detto. In una lettera al Lancet del 2020 segnalavamo la necessità di ripensare radicalmente i grandi centri per migranti che l’Unione europea intendeva creare nelle sue aree di confine, proprio per tutelare la loro salute psico-fisica e i diritti fondamentali nel loro insieme.

Il 18 ottobre  con l’inaugurazione del centro di Gjadër e l’arrivo dei primi 16 migranti soccorsi nel canale di Sicilia e trasportati fino in Albania da una nave militare italiana si è materializzato tutto ciò che avevamo paventato. I motivi di grave preoccupazione anche solo dal punto di vista della tutela della salute sono innumerevoli. Innanzi tutto è assai discutibile la pretesa di identificare correttamente le persone vulnerabili e i minori che verrebbero esclusi dal trasferimento in Albania e dalla procedura accelerata di asilo. Dei primi 16 migranti ci si è poi accorti una volta arrivati nell’hotspot di Shëngjin, ed eseguito uno screening più accurato, che due erano in realtà minori e altri due da considerarsi vulnerabili perché vittime di violenza in Libia. Se il criterio di valutazione si è dimostrato così approssimativo su di un numero ridotto di persone, come si pretende di identificare in alto mare vulnerabili e minori quando il sistema funzionerà a regime con un numero molto più alto di deportati? Non si corre il rischio reale di procedere a selezioni sommarie e arbitrarie di “sommersi e salvati”, mandando nel centro albanese persone sopravvissute a torture e violenze di ogni genere oppure minori non tempestivamente identificati? Tra i primi migranti giunti a Gjadër c’erano inoltre delle persone provenienti dall’Egitto, considerato dall’Italia un “paese sicuro”, e per questo inserite nel meccanismo di trasferimento in Albania. La decisione di queste ore del tribunale di Roma ha per fortuna fatto giustizia di questa sconcertante valutazione del governo italiano. Ricordiamo, tra l’altro, che l’articolo 10 della nostra Costituzione stabilisce che “lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica”. Quale ipocrisia può far dire alle autorità italiane che l’Egitto, dove Giulio Regeni è stato torturato e ucciso, sia da considerarsi oggi paese democratico e sicuro e quindi terra da cui è improbabile che arrivi un rifugiato? La struttura, le caratteristiche e la concezione stessa del centro di Gjadër rappresentano infine il prototipo stesso del luogo ritraumatizzante individuato dagli studi sopra menzionati. Si sta creando in altre parole una struttura che è un buco nero per la tutela del diritto alla salute, così come per altri diritti fondamentali, di migliaia di persone che avranno la sventura di caderci. La decisione dei giudici di Roma pone un altolà del diritto a questa deriva. Ci auguriamo che essa possa essere un punto di partenza per rimettere in discussione ciò che corre il rischio di diventare solo il simbolo costoso, inutile e feroce del fallimento delle politiche migratorie dell’Italia e di tutta l’Europa.

UFFICIO STAMPA
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19/10/2024 https://mediciperidirittiumani.org/

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