C’era una volta la bella sanità Toscana
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La Toscana per molto tempo ha avuto “fama” di una sanità di eccellenza ed è indubbio che così fosse, e continuerà a essere, in alcuni branche che riguardano la fase acuta della malattia, avendo scelto di investire molto in edilizia ospedaliera e nelle nuove tecnologie sanitarie, cosa di per sé buona, se non fosse avvenuto a grande scapito del territorio.
La descrizione di una sanità toscana come fiore all’occhiello si è, però, fortemente incrinata negli anni, se non nel racconto mainstreaming rimasto tale sino a inizio pandemia, certamente nella realtà concreta, che racconta un’altra storia, e nelle difficoltà sempre più frequenti incontrate dai cittadini toscani per accedere alle cure. Ne sono un esempio lampante le lunghe liste di attesa per le prestazioni ambulatoriali e le visite specialistiche che costringono una grande fetta della popolazione a rivolgersi al privato e pagare di tasca propria per avere una risposta in tempi brevi, utili e farlo con prossimità.
Naturalmente, il processo è stato lungo ma se vogliamo individuare una data, uno spartiacque, che ha definitivamente cambiato volto al servizio sanitario toscano, dobbiamo individuarla nell’inizio della scorsa legislatura.
Eravamo a fine 2015. La Regione Toscana varò una “controriforma” sanitaria che modificava radicalmente l’architettura organizzativa del suo servizio sanitario regionale attraverso l’accorpamento in tre aziende sanitarie di area vasta delle precedenti 12 aziende sanitarie territoriali. Una controriforma i cui capisaldi generali si sostanziavano a vicenda.
Creare, attraverso l’accentramento della programmazione nelle mani di pochi manager, una catena di comando corta che risolveva, in senso fortemente regressivo, una discussione che pure si era affacciata anni prima e che puntava su una riforma strategica, di lunga lena, il cui obiettivo principale era rafforzare la Sanità pubblica. Si è deciso, al contrario, di gestire acriticamente lo status quo assumendolo quale status ineludibile, in un’ottica di puro efficientismo economico-finanziario. Il primo caposaldo concludeva, dunque, un disegno tutt’interno ad una visione accentratrice della filiera del governo della sanità toscana.
Una scelta che ha, come ulteriore conseguenza, determinato un allontanamento dei livelli decisionali locali da quello centrale e avuto come ricaduta tagli di risorse e di servizi e prestazioni, tagli al personale, svuotamento dei presidi ospedalieri territoriali ma anche all’insieme dei servizi sanitari e sociosanitari zonali.
Il secondo si consumava con l’attacco al cuore del servizio sanitario, al lavoro pubblico e ai suoi professionisti, mandando a casa, per esubero, oltre 2500 tra medici, tecnici, infermieri, che si andavano ad assommare alle altre migliaia persi per via del mancato turn over. Ma, da tempo, il lavoro pubblico in Toscana aveva già subito un continuo impoverimento attraverso le tante forme di esternalizzazione e privatizzazione.
Un delitto perfetto, che ne seguiva un altro, attuato tempo addietro con il cosiddetto universalismo selettivo che, con le solite ragioni delle risorse mancanti, della coperta stretta, ha sancito, nella nostra Regione, la fine della sanità come diritto universale e garantito selezionando le fasce di popolazione tenute a compartecipare, pagando di tasca propria, al costo dei servizi e delle prestazioni. Cosa che ha portato, nel tempo, queste fasce fuori dal sistema pubblico alimentando i processi di privatizzazione della sanità toscana.
All’universalismo selettivo hanno corrisposto anche le sue forme di organizzazione dei servizi, nel cosiddetto modello del welfare-mix, con l’avvento di un attore particolarmente forte quello del privato sociale che ha, nel tempo, acquistato legittimazione non più solo nell’attuazione e gestione di misure specifiche ma nella definizione del disegno istituzionale, attraverso la coprogettazione e la coprogrammazione delle stesse politiche sanitarie. Terzo settore non più solo un alleato per la costruzione e il funzionamento del welfare-mix ma, con una sua curvatura sempre più accentuata a proporsi come impresa, il naturale sostituto per pezzi di livelli essenziali di assistenza e alimentatore per una quota significativa del mercato dei servizi.
La centralizzazione ha anche creato, contrariamente a quanto promesso, una maggiore burocratizzazione della macchina sanitaria con gravi inefficienze che sono state, purtroppo, evidenti anche nel periodo della crisi sanitaria dovuta al Covid19. La pandemia non ha fatto che deflagrare una situazione precedente che e non solo nella prima fase del contagio.
Anche in Toscana, tra la prima emergenza pandemica e questa seconda ondata, molto non è andato per il verso giusto tanto da essere stata zona rossa, oggi arancione. Molto è dovuto al notevole ritardo con cui è stata affrontata questa seconda crisi che ha prodotto una sottovalutazione della stessa.
Si pensi a tutta la partita dei tamponi, del tracciamento e della sorveglianza sanitaria rincorsi, a mano a mano che il contagio si diffondeva, per mancanza principalmente di risorse umane (tracciatori, le stesse USCA) indispensabili, come già detto, per garantire i servizi territoriali. Molte le denunce di persone che oltre ai ritardi nel fare e ottenere risposte ai tamponamenti sono stati sostanzialmente abbandonati loro stessi.
Mancano inoltre figure che pure si erano caldamente spese come gli infermieri del territorio. Siamo in ritardo, per molti territori, anche con le Case della Salute intese, non come poliambulatori cui si appiccica una targhetta, ma come quei presidi strutturati sui territori, parte integrante del servizio sanitario regionale toscano, sedi pubbliche, integrate della programmazione sociosanitaria territoriale. Case della salute che sarebbero servite.
Come era prevedibile sono mancati i professionisti, le risorse umane. A lanciare l’allarme sono oramai gli Ordini. Quello delle professioni infermieristiche della Toscana che, già da tempo, denunciano la carenza di circa tremila infermieri. La stessa dichiarazione è stata fatta dall’ordine regionale dei medici; per non parlare delle testimonianze degli operatori in prima linea costretti a turni massacranti. Mancano operatori e professionisti e molti di loro, visto quanto prima descritto, sono in condizioni precarie con contratti a tempo determinato o lavoro di somministrazione.
Le 5mila assunzioni, anch’esse frutto della rincorsa emergenziale, la maggior parte a tempo indeterminato, sono state per oltre la metà stabilizzazioni di personale già presente o hanno sostituito personale andato in pensione non rappresentando dunque nuove risorse per il servizio sanitario. Alcune figure professionali non si trovano. Chi dovrebbe sostituire ha necessità di formazione.
Nonostante ci fosse stata, durante la prima fase emergenziale, un’implementazione delle terapie intensive, anche attivabili, i numeri della seconda ondata hanno subito fatto intravedere la carenza di posti letto in sub intensiva e intensiva con la corsa a trovarne, rivolgendosi al sistema privato con equi indennizzi, ovvero soldi pubblici. Mancano, soprattutto posti letto ordinari, sempre più riconvertiti in posti Covid, nonostante l’intendimento iniziale di garantire le altre patologie, con le conseguenze immaginabili per questi malati.
La lezione della prima fase dell’epidemia evidentemente non ha insegnato, nonostante le centinaia di morti, e le RSA sono ritornate ad essere focolai del virus con contagi sia degli ospiti sia degli operatori anche in questo caso si corre a trovare soluzioni emergenziali; ma tutto questo poteva essere fatto prima visto che era stata creata un’apposita commissione consiliare proprio per agire in tempo con proposte e l’attivazione di soluzioni operative.
Vale per il tempo del Covid-19 come vale per il futuro in cui il territorio sarà vitale per dare una risposta ai bisogni sanitari e sociosanitari in una popolazione regionale che invecchia. Gli anziani non autosufficienti in Toscana sono circa 114mila di cui 14mila ospitati in RSA. In Toscana (dati dell’Agenzia Regionale di Sanità) sono circa 1 milione e 450mila i cronici, 444,8 ogni 1.000 abitanti d’età 16+ anni. Circa 6 su 10 hanno più di 65 anni e il 54% sono donne. I malati aumentano con l’età, ma anche con il livello di deprivazione sociale e materiale (proxy del livello socioeconomico e culturale della persona).
L’emergenza sanitaria, sia nella sua prima ondata di inizio anno che nell’attuale seconda ondata, ha dunque amaramente messo in luce le molte fragilità del nostro servizio sanitario, prima fra tutte, come già accennato, quella di un territorio che in questi anni non ha proceduto ad un suo potenziamento e una sua riqualificazione.
Un territorio che, oltre a presentare difformità tra le diverse aree della Toscana e al loro interno tra le diverse zone sociosanitarie, si è molto impoverito. Dato indicativo perché questa difformità, e l’impoverimento, hanno finito con l’incidere, oltre che sulla qualità nell’erogazione degli stessi, sull’uguaglianza ed equità di accesso ai servizi e alle cure; mentre tutti i cittadini dovrebbero avere un servizio sanitario che gli garantisca, in qualsiasi parte della Toscana si trovino, un servizio pubblico di qualità, per tutte e tutti, nel rispetto delle tante specificità.
Nello stesso tempo, l’emergenza sanitaria, pur nella sua grande drammaticità, può offrire un’occasione che non possiamo lasciarci sfuggire. L’occasione di ripensare il territorio non solo attraverso un recupero del ritardo accumulato nell’implementazione dei servizi e delle prestazioni e delle risorse economiche e umane, nell’attenzione al rapporto tra territorio e ospedale, nell’innovazione delle figure professionali, ma per un vero e propriocambio di paradigma anche di livello scientifico e culturale.
Questo vuol dire, in primo luogo, che tutte le risorse pubbliche che saranno erogate, compreso quelle del Recovery fund, dovranno essere investite nel sistema pubblico, senza un euro per i privati, a partire dal rilancio del ruolo della prevenzione (risorse economiche e umane per la prevenzione a tutti i livelli) e della medicina territoriale e di iniziativa.
Si tratta di riqualificare e potenziare il nostro territorio privilegiando la domiciliarità e il contesto sociale delle persone, le cure intermedie, la realizzazione delle Case della Salute, la riqualificazione della rete consultoriale, e dei servizi dell’alta integrazione (salute mentale, dipendenze, disabilità), evitando vecchie e nuove forme di istituzionalizzazione, pensando a soluzioni di residenzialità alternative e mettendo, comunque, in discussione il modello delle Residenze Sanitarie Assistenziali, che si sono rilevate come luoghi di vere e proprie stragi.
Si tratta di abbattere le liste di attesa, rendendo del tutto trasparente la gestione delle prenotazioni, oltre a far funzionare le strutture pubbliche con risorse strumentali e personale pubblico adeguato e congruo. Occorre contrastare lo sviluppo della libera professione intramoenia che non risolve le liste d’attesa ma anzi crea conflitto tra liste di attesa pubbliche e intramoenia a svantaggio delle prime. Sono i tagli alle prestazioni pubbliche che alimentano le liste di attesa.
Si tratta di riqualificare e potenziare di funzioni e servizi i presidi ospedalieri (compreso i posti in terapia intensiva), in particolare i piccoli ospedali delle zone interne e insulari, favorendo il recupero del patrimonio pubblico, specie di qualità, per la nuova edilizia sanitaria.
Si tratta di ripensare il lavoro professionale nella sanità pubblica. Occorre innanzitutto contrastare la precarietà in ambito sanitario, un piano di assunzioni per il lavoro stabile in sanità con tutele e diritti, eliminando il ricorso al lavoro interinale e le altre forme contrattuali precarizzanti, a ogni livello del personale, “internalizzando” le lavoratrici e i lavoratori impiegati con subappalti alle pseudo-cooperative.
Altrimenti, il rischio sarà quello gattopardesco, e non per distrazione ma per dolo, che si fa finta, rimediando a qualche falla più evidente, di cambiare tutto per non cambiare niente. Questo la nostra regione non può più permetterselo.
Danielle Vangieri
PRC Toscana Federazione di Pisa
Pubblicato sul numero di dicembre del mensile Lavoro e Salute
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