Che Comunisti saremo?
Nei momenti di quiete, di disagio, di tregua questa domanda mi perseguita. Forse per scrupolo di coscienza o per timore effettivo, il dubbio rimane intatto.
Ormai è prassi strizzare l’occhio al passato, ritoccare con lo sguardo la storia e sottolineare le grandi vittorie, il sogno sfiorato e mai raggiunto. Ogni tanto qualcuno compra un libro di storia o si informa tramite ‘ndernette, prende spunto dalle grandi citazioni o dal ronzio di chi s’avventura in Marx e per Marx
Qualcuno scambia il Comunismo per una squadra di calcio, anzi per un campionato di calcio e tifa gli eroi di cento anni fa, ricorda perfino le partite vinte fuori casa.
Partiti, partitini, movimenti, nipoti di Stalin, figli di Lenin, compari di Trotski, associazioni, collettivi, i moderatamente estremisti e, se non bastasse, anche il sessantotto e dintorni rifiorito, coltivato da chi giovane non è, ma crede lo sia stato… pardon che lo sia ancora!
Forse andrebbero sfatati i luoghi comuni. Noi possiamo definirci Socialisti e non Comunisti. Il Socialismo sarebbe il primo traguardo da raggiungere per poi ambire al Comunismo, alla dittatura del proletariato, a un popolo maturo, unito dalla condivisione e non sopraffatto dalla competizione.
Mi fermo qui, passare per un altro “saputello”, uno storico o un intellettuale dei giorni nostri stonerebbe a dismisura con il mio disordine mentale. Anche per oggi non si vola, ripeteva Gaber. Già! Non a tutti piace Gaber, eppure si dovrebbe decollare dal basso, le vette ardite hanno già le loro aquile.
Facciamo prima a contarci e dopo, a conti fatti, guardare in faccia la realtà e chiederci “che Comunisti saremo? Che Socialisti saremo?”
Quelli che difendono la Costituzione, le paperelle e l’insalata? O quelli che il mio è più grosso del tuo, quindi spostati? O forse i Keynesisti Keneysiani del 2018, degli ammortizzatori sociali, della dignità sottratta? O quelli che difendono la Cannabis perché si fanno le canne? O i traghettatori del mare avariato pulito?
Tanta confusione vige sotto questo cielo ipocrita, ancor più la sfiducia verso il prossimo che il Capitalismo alimenta dall’alto, evidenziando le minime differenze tra pari quota, pari livello, pari dolore nelle ossa. All’azione preferiamo il turpiloquio. Dal turpiloquio all’intolleranza il passo è breve. L’intolleranza tra pari è la grande opera del Capitalismo, nulla da eccepire!
La lotta unisce, fonde, armonizza, ricongiunge; il turpiloquio disgiunge, stacca, divide allontana.
Che Comunisti saremo? Io non credo che il ricordo sia un diamante adatto per incidere sul futuro, forse saremo i Comunisti delle grandi fiere, animali da collezione, suppellettili da cortile, racconta storie da fine messa.
Forse saremo i Comunisti delusi dal Compagno di banco, equilibristi preparati da opportunisti, rivoluzionari pacifisti, mine vaganti disinnescate al primo contratto di lavoro utile o dal minimo utile garantito.
Che Comunisti saremo? La domanda è scomoda, le risposte molteplici.
Arrossiremo per strada tra una torto scongiurato e uno da raccontare, vagheremo litigando, saremo residui, scorie.
La verità coglierà di sorpresa i morti.
Arrossiremo per strada dopo aver rivisto un film western dopo aver inseguito gli indiani e quel sogno aggrappato al tempo crolla, s’accascia.
Arrossiremo per strada e quando torneremo a badare al sodo, riconquisteremo l’ideale infranto il socialismo potrebbe non essere più follia.
Che Comunisti saremo? Porsi la domanda è un dovere, rispondere è un diritto, specie quando rimane una figura vuota e un punto interrogativo sulla serranda da chiudere. Forse saremo rivoluzionari di facciata, seguaci disperati e malsani adulatori delle streghe da abbattere. Forse saremo schiavi del progresso retroattivo, parleremo l’inglese meglio del dialetto e qualche volta faremo tardi davanti a un buon vino e una bugia da ripescare negli annali.
Che Comunisti saremo? Diventeremo un ammasso di vizi decimato dalle lotte interne e incapaci di reagire alla morte dell’anima esausta, alla lotta esterna.
Questa dura analisi non dovrebbe cogliere di sorpresa, sentirsi sconfitti renderebbe più facile il risveglio di chi prova a riaprire il conflitto, la lotta, nonostante tutto.
Il capitalismo ha vinto, ma noi siamo ancora vivi.
Prima o poi dovremo imparare a correre senz’anima, forse liberati dall’assillo di mostrarsi migliori, solo allora investiremo la carica di discepoli a servizio della collettività. Serve pazienza, onestà, coraggio e imparare a osare nel disagio, nel timore di sentirsi fuori luogo e continuare a guardare il presente e il futuro. Non è tempo delle liti fra i superstiti, bisogna intendersi per quel che rimane del nostro impegno, della nostra volontà al cambiamento, all’apertura su chi ha solo un fanale per illuminare il sentiero.
Ogni lotta va combattuta come fosse l’ultima spiaggia, mirando il trono, il privilegio, l’autorità al servizio del capitale privato; tutto il resto è incoscienza.
Antonio Recanatini
Poeta, scrittore. La sua poesia è atta a risollevare il sentimento della periferia, all’orgoglio di essere proletari e anticonformisti. Collaboratore redazionale di Lavoro e Salute
Riflessione pubblicata nell’inserto CULTURA/E dell’ultimo numero di Lavoro e salute
Leggi tutto di Antonio Recanatini su www.lavoroesalute.org
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