Che relazione c’è tra i dazi di Donald Trump e la guerra senza fine in Ucraina

Le scelte dell’amministrazione statunitense stanno facendo scoppiare la bolla che ha tenuto insieme negli ultimi anni l’economia Usa e il capitalismo finanziario. Evitare a tutti i costi il cessate il fuoco in Ucraina consente di tenere alto il livello dei prezzi dell’energia, che per Stati Uniti e Russia sono una delle principali fonti di introiti in termini di esportazioni. L’Europa tenta di uscire dall’angolo annunciando il riarmo. Ma è un bluff. L’analisi di Alessandro Volpi

I dazi di Donald Trump stanno facendo scoppiare la bolla finanziaria che ha tenuto insieme negli ultimi anni l’economia americana e quindi il capitalismo finanziario. Non a caso i titoli maggiormente travolti sono stati quelli delle Big tech, da Apple ad Amazon fino a Invidia.  

Non si tratta di una caduta spinta solo dal fatto che una parte delle produzioni di tali società passano per zone colpite dai dazi, ma della più generale, e profonda, sfiducia che gli Stati Uniti, dominati dai monopoli finanziari, siano in grado di tenere in vita il capitalismo. Il paradosso è che la fine del dollaro è vaticinata dall’amministratore delegato di BlackRock, Larry Fink, il signore dei grandi fondi, impegnati ora nel non rimanere schiacciati dallo scoppio della bolla, cercando rifugio nell’Europa del riarmo e negli immaterialissimi Bitcoin, e determinata dal presidente Trump che vorrebbe reindustrializzare gli Stati Uniti per ridurre proprio l’eccessiva dipendenza dall’estero, e dalla sola finanza.  

Le Big Three (i fondi BlackRock, Vanguard e State Street) e Trump stanno costruendo, in modo diametralmente diverso, la fine della centralità americana, aprendo una fase storica per molti versi ignota perché privata, assai probabilmente, della forma economica che ha dominato per qualche secolo l’Occidente.  

In questo contesto risulta evidente che non ci sia davvero alcun interesse a porre fine alla guerra in Ucraina. In un mondo dominato da una finanza ora in affanno questa guerra, senza ulteriori coinvolgimenti, rappresenta una formidabile opportunità. Per la Russia, così come per gli Stati Uniti, il mantenimento in vita di questo conflitto consente di tenere alto il livello dei prezzi dell’energia che per i due Paesi sono una delle fonti principali di introiti in termini di esportazioni. È probabile, anzi, che una delle ragioni dell’avvicinamento tra Putin e Trump, al di là di fondamentali considerazioni di natura ideologica e geopolitica, sia proprio il monopolio nelle definizione dei prezzi del gas: la guerra in Ucraina tiene forzatamente alto il prezzo finanziario del gas, oggetto di costanti speculazioni rialziste, e dunque giova ai due grandi detentori di gas, Usa e Russia, che ottengono da questi prezzi forti entrate e la subordinazione dell’Europa, alle prese con costi energetici difficilmente sostenibili.  

Per l’Unione europea la scelta di puntare tutto sul riarmo ha un obiettivo immediatamente finanziario, che è quello di far salire il prezzo dei titoli delle società legate al settore degli armamenti, drenando così capitali dalle Borse statunitensi e stabilendo una sorta di accordo anti-trumpiano con i grandi fondi, magari inseriti ancor di più nelle strutture finanziarie e bancarie europee, favorite da un’eventuale creazione di un mercato unico dei capitali.  

Agli occhi di Cina e di parte dei Brics è molto chiara la natura pressoché interamente finanziaria del riarmo europeo, e dunque la sostanziale inconsistenza del progetto industriale che dovrebbe sostenere tale bolla: cinesi e indiani, alla luce di ciò, non hanno molto da preoccuparsi. Del resto, gli europei, persino i “volenterosi”, sanno bene che un’ulteriore escalation del conflitto ucraino, con l’invio di truppe, rischierebbe di provocare, prima ancora di una vera guerra, la dimostrazione del bluff produttivo della corsa al riarmo, con conseguente esplosione della bolla.

Dunque, in nome dell’esigenza di salvare la finanziarizzazione, della duplice bolla di Wall Street e delle Borse europee, la guerra in Ucraina difficilmente finirà e a farne le spese saranno in primis proprio gli ucraini. Non pare credibile poi che ad accelerare la fine del conflitto possa contribuire la prospettiva di una spartizione delle risorse, attraverso accordi più o meno reali, proprio perché la finanziarizzazione ne sta già consentendo un aumento dei prezzi, di cui beneficiano le società americane, e anche russe, che già le detengono altrove. 

Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento. Il suo ultimo libro è “Nelle mani dei fondi” (Altreconomia, 2024)

4/4/2025 https://altreconomia.it/

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