Chiagne e fotte
Chiagne e fotte. L’espressione vernacolare napoletana (che sarà certo un volgarismo, ma possiede un’indubbia potenza di sintesi) mi è venuta in mente a proposito di Carlo Bonomi e della sua “lettera interna” a Confindustria con interviste al seguito, per l’intreccio di vittimismo e di prepotenza (piagnone e predatorie insieme) che quelle “esternazioni” possiedono e che caratterizzano ormai da qualche mese la sua Presidenza. Non sono, purtroppo, solo il tratto della sua individuale personalità, ma l’espressione collettiva di un’imprenditoria degradata, bolsa e arrogante insieme, fragile nelle sue basi economiche e pretenziosa nei suoi atteggiamenti sociali. E più in generale di un “capitalismo straccione”, insofferente a tutto ciò che sa di Stato e di controllo pubblico ma dipendente dalla sua assistenza e protezione, finito ai margini del mercato globale dopo aver fallito il passaggio all’economia post-fordista del nuovo secolo per mancanza di intelligenza progettuale e di energie vitali, di visione e di vocazione.
Nella lettera parla di “tentativi di intimidirci” (???) senza dire da parte di chi (di un Governo che evidentemente non considera sufficientemente “amico” ma che comunque non gli ha negato proprio niente? dei sindacati che fanno semplicemente – e a mio avviso ancor troppo timidamente – il loro mestiere? di una stampa che è stata in grande maggioranza reticente anche sui suoi tentativi di impedire o limitare oltre la decenza il lockdown?). Ripete il suo mantra – inaugurato fin dal giorno della nomina – dei “pregiudizi anti-industriali” coltivati “in ampi settori”, in un Paese nel quale, per chiunque abbia capacità di vedere, l’Impresa e l’Imprenditore sono diventati inopinatamente un surrogato dei santi sociali… E intanto va all’assalto della diligenza, attaccando in primo luogo la contrattazione collettiva – antico e sempre ricorrente obbiettivo della restaurazione padronale, ultimo brandello sopravvissuto di quella che fu la stagione dei diritti del lavoro -; rivendicando il ritorno alla libertà di licenziare, dopo la parentesi dell’emergenza sanitaria, come condizione per il “fisiologico” funzionamento delle Imprese non bastandogli evidentemente il prolungamento della Cassa integrazione come strumento che permetterebbe al lavoratore di mantenere il posto senza gravare sul bilancio aziendale; e naturalmente pretendendo per sé – per la sua categoria – tutto il malloppo promesso dall’Europa, ponendo in competizione investimenti e assistenza, Imprese e Famiglie, perché neanche un euro vada “disperso” nel sostegno alle persone (reddito di cittadinanza in primis) considerato “soldi buttati via…
E’ l’emblema di quella che Luciano Gallino, in un libro profetico del 2005, aveva definito l’”impresa irresponsabile” intendendo con questa espressione “un’impresa che al di là degli elementari obblighi di legge suppone di non dover rispondere ad alcuna autorità pubblica e privata, né all’ opinione pubblica, in merito alle conseguenze in campo economico, sociale e ambientale delle sue attività” (p. VII). E di quale irresponsabilità sia capace questo tipo di impresa è ben dimostrato dall’ azione che lo stesso Bonomi, allora alla guida di Assolombarda e il suo sodale Bonomelli capo della Confindustria bresciana hanno messo in atto per dilazionare o limitare la chiusura delle zone rosse nelle aree più calde (e produttive) della regione più drammaticamente colpita dal virus; e più in generale dall’ atteggiamento tenuto dall’ Associazione degli industriali italiani per tutto il periodo dell’emergenza sanitaria, preoccupati solo dei propri particolari interessi, della possibile rottura delle filiere produttive, della perdita di committenza, senza una sola idea su come mettersi a disposizione per il sostegno della salute pubblica, salvo poi utilizzare tagli fiscali inopinatamente offerti in modo lineare senza distinguere tra chi avesse effettivamente subito perdite e chi (e non sono pochi) nella tragedia aveva guadagnato…
Ora, quando Gallino scrisse quel libro si poteva pensare che quel modello perverso di impresa che così bene descriveva, fosse in qualche modo un’eccezione: un piccolo tumore nato nel corpo ancor sano di un capitalismo industriale serio. Oggi sappiamo che non è così: che l’impresa irresponsabile è l’ideal-tipo dell’impresa postmoderna italiana. La matrice di un modello imprenditoriale tipico di un capitalismo che ha scelto prima (fin dai tardi anni ’80 e dai primi anni ’90), e più di altri in Europa (sicuramente più della Germania, e anche della Francia), la formula prevalentemente anglosassone della finanziarizzazione, cioè del primato delle funzioni finanziarie su quelle produttive nella produzione di valore. Una scelta operata originariamente dalle grandi imprese il cui top management ha senza esitazioni condiviso – come si legge in un acuto saggio di Angelo Salento e Alessandra Tafuro – “la convinzione che l’obiettivo essenziale dell’impresa non sia la produzione di reddito attraverso la produzione e vendita di beni e servizi, ma l’incremento del valore (patrimoniale) dell’impresa stessa; e che il mercato finanziario sia ‘l’unico misuratore di valore, stabilito dall’equilibrio tra chi compra e chi vende’”, come ebbe ad affermare Sergio Marchionne nel 2008 (è significativo che nel campione di circa 1000 imprese considerate da Salento e Tafuro la proporzione tra investimenti finanziari e tecnico-produttivi sia passata tra gli anni ’70 e l’inizio degli anni 2000 dal 7% al 53%). Questo ha comportato l’”evaporazione” di quanto restava della grande industria italiana (FCA insegna!) dai territori, lasciando l’enorme reticolo di piccole e piccolissime imprese, fino ad allora messe a sistema in una sorta di taylorismo territoriale, slegate tra loro e sole nell’arte di arrangiarsi, nella ricerca darwiniana di condizioni di sopravvivenza. Un capitalismo di imprese polvere, poco capitalizzate, con scarse o nulle risorse per innovare, impegnate spasmodicamente nella produzione per competere e nella competizione per sopravvivere, precarie spesso come i loro dipendenti, che per oltre un quarto di secolo ha cessato di crescere. Un Paese la cui imprenditoria investe quote miserrime delle proprie risorse in Ricerca e Sviluppo (appena 14 miliardi di euro all’anno – la Germania quasi 60, la Francia circa 30…). In cui soprattutto i salari sono rimasti al palo per oltre un ventennio, tra i più bassi tra i 33 Paesi censito dall’OCSE (nell’ultimo decennio si è collocata stabilmente intorno al 27esimo posto), e tra il 2010 e il 2016 sono addirittura diminuiti
Il povero Carlo Bonomi si crede un rivoluzionario, o meglio parla a proposito dei contratti di lavoro di “rivoluzione” che si starebbe compiendo – lo cito – per quanto riguarda “il lavoro e le tecnologie, i mercati e i prodotti, le modalità per produrli e distribuirli”, senza neppure accorgersi che quella svolta rivoluzionaria si è compiuta un quarto di secolo fa. E che da allora i “suoi” – il padronato non solo italiano – si sono ripreso pressoché tutto quello che avevano dovuto concedere nel precedente ciclo fordista – nelle “trenta gloriose” che hanno seguito la seconda guerra mondiale -, togliendo dalle tasche dei lavoratori qualcosa come una quindicina di punti di PIL (che per l’Italia equivalgono a oltre 200 miliardi di euro all’ anno), e cancellando diritti del lavoro e rappresentanza dei sindacati.
Quello che vogliono oggi è il definitivo colpo di grazia a una dignità del mondo del lavoro in ampia misura residuale, riconfigurando l’emergenza sanitaria al cui incrudelimento hanno ampiamente contribuito in emergenza economica accreditata alle sole imprese (straparlando della necessità di porre fine “al vecchio scambio di inizio Novecento tra salari e orari”, che non si capisce cosa voglia dire). In questo il presidente di Confindustria esercita effettivamente una forma tribale di rappresentanza di un ceto imprenditoriale mutato geneticamente, lontano ormai anni luce sia da quello feroce ma composto da veri “produttori” del tempo febbrile della Ricostruzione, sia da quelli che Giorgio Bocca descrisse nel suo I giovani leoni del neocapitalismo, demiurghi del boom di fine anni ’50 con una qualche visione industriale e una sia pur relativa consapevolezza del proprio ruolo storico.
Questi che oggi pretendono di farsi partito politico dopo aver fallito come soggetto produttivo – “Confindustria come partito”, appunto -, sono gli esponenti di un capitalismo di terze e quarte generazioni, involgariti e sazi sul versante dei (non numerosi) vincenti – i super-ricchi clienti del Billionaire da 1000 euro a bottiglia di champagne -; marginali e incerti sul versante (ampio) degli arrancanti nell’ imperfetta internazionalizzazione, attivi negli interstizi di filiere di sub-fornitura, imprese dell’intrattenimento e della ristorazione, qualcosa nella galassia effimera del lusso, produzioni di fascia bassa o tendenzialmente obsolete, di cui non stupisce se, in assenza di solide politiche d’investimento innovativo, affidano le proprie principali carte alla compressione dei salari e alla flessibilità illimitata della propria manodopera.
Con gente così, è abbastanza evidente, non si va molto lontano. A meno che, per un soprassalto di energia, il mondo del lavoro batta un colpo, e con l’apertura di una qualche fase di conflitto sociale, aiuti a sparigliare le carte e a favorire un qualche ricambio di classe dirigente.
Marco Revelli
30/8/2020 https://volerelaluna.it
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