Ci fanno lavorare troppo e male, ecco perchè apatia e depressione sono in aumento, ma non c’indigniamo

sanità spalle

Spinta da tanti articoli di natura introspettiva che da tempo leggo volentieri sulla rivista, vorrei proporre il mio punto di vista sulla crisi della soggettività delle professioni di cura. Il mio punto di osservazione, quello romano, non certo dissimile da tanti altri, anzi credo che il vissuto nel nostro lavoro ci accomuni permettendoci di parlare di noi stessi senza pèrsonalismi sapendo di raccontare, più o meno, il vissuto di tantissimi altri e altre. Certamente sappiamo tutti che le cose vanno sempre peggio, un paese sempre più in mano a maneggioni di governo, trafficanti di diritti, corrotti e corruttori in ogni ambito dentro il quale è possibile delinquere, e siamo milioni che tiriamo avanti senza però averne le capacità di dire basta. Ma basta a cosa? Siamo in reality dentro il quale sempre più persone, e non solo quelli che uno stipendiuccio ce l’hanno ma che quelli che vanno a mangiare alla mensa dei poveri, che nel loro animo sono ammiratori delle delinquenze dei potenti. Abbiamo una intera generazione, di giovani e non più giovani anagraficamente ma adolescenziali per condizione di sbocchi di studio e lavorativi che si ritrovano oltre i 30 anni a vagheggiare di futuro, sempre più depressi e sempre più sudditi culturalmente.

E il nostro 8 marzo pare solo una presa in giro! Un’intera generazione di oggetti viventi ma destinati a forme di patologie nevrotiche e quindi prossimi utenti delle strutture sanitarie e di studi di psicanalisi. Non siamo diversi anche noi che lavoriamo dentro i luoghi di cura e siamo testimoni di una deriva sociale, con pesanti ricadute sulle condizioni di vita, che è talmente veloce che non riusciamo più a leggere compiutamente. Non ci riesce chi ci tenta mentre il resto si arrabatta a lavorare il meno peggio possibile per tentare di soddisfare le prime esigenze di salute e i bisogni di prevenzione, cura e riabilitazione. A Roma, nel Lazio e credo come nel resto d’Italia, siamo di fronte ad una totale assenza di gestione del sistema sanitario, mancano programmazione e obbiettivi e il tutto si riduce a un elenco di tagli.

Da noi, con l’unificazione della ASL RM/B e della ASL RM/C, il peggioramento delle condizioni di lavoro e di vita del personale ( aumento dell’orario notturno; azzeramento di fatto dei passaggi di fascia economici previsti; continui e improvvisi spostamenti di personale nei servizi; personale ausiliario e oss, mancato rispetto delle ore contrattuali e delle norme igienico-sanitarie; )è direttamente proporzionale ai tagli delle prestazioni ai cittadini, con chiusura di reparti (ad esempio la Neurochirurgia e la CH Plastica all’Ospedale Pertini nel 2015) e la prevista chiusura di servizio come la radiologia di via Cartagine. Vergognosa e strafottente la volontà di operare tagli per produrre finto risparmio trattattandoci come merce sulla quale risparmiare, mentre non risparmiano sui propri privilegi e sui veri sprechi come gli inutili e inefficaci appalti. Quando non finti, come denunciato dal sindacato USB. Pensiamo sempre più sconfortati che abbiano messo a capo delle aziende gente incompetente, mentre credo che queste persone siano del tutto competenti a eseguire un programma che non obbliga a costruire ma a distruggere la funzionalità di un sistema comunque funzionante data la cultura pubblica e l’alta professionalità dei propri operatori sanitari in particolare. Lo dico da operatrice e da cittadina utente del servizio sanitario pubblico.

Non sono capace di dare un quadro generale e dettagliato delle singole asl e ospedali di Roma, e tentomeno del Lazio, ma a mia convinzione, confermata dall’attuale momento di apatia generale è che se non c’è informazione e relazione sul quotidiano tra produttori di salute (gli operatori) e fruitori (gli utenti) non c’è capacità di risposta collettiva quando ce ne bisogno. E di questa risposta che oggi c’è un drammatico e vitale bisogno. Quale altra risposta possiamo dare a questo programma di tagli al servizio sanitario pubblico. Quanto ci viene presentato e imposto è un vero e proprio programma per indurre con coercizione la popolazione dei territori a preferire le strutture private, e nel caso non ne esistono in un numero adeguato a chiederne, a furor di popolo, la costruzione data l’inadeguatezza a cui è stata portata la struttura pubblica esistente. E’ quanto consegue alla riduzione dei posti nelle strutture per anziani con costi proibitivi per le famiglie e un chiaro invito, che presto diventerà un obbligo, al ricorso alle assicurazioni. E’ quanto consegue all’accorpamento dei reparti ospedalieri con pesanti ricadute sull’organizzazione del lavoro, senza la quale c’è anarchia para assistenziale e discrezionalità curativa con relativo deperimento della qualità e dell’efficacia nel lavoro per gli altri.

Il lavoro di ogni giorno degli operatori sanitari, oggi è fagocitato da fattori esterni che demotivano e stressano con il pericolo di un crescente stato di depressione professionale propedeutico all’individualismo e al menefreghismo su cosa e come si fa. Questi fattori esterni al proprio ruolo di cura e assistenza vanno dall’espropriazione della professionalità, alla discriminazione derivante da meccanismi clientelari quali sono alcuni istituti stipendiali per nulla riferiti al merito e alle competenze. Vanno dal dover fare pratiche burocratiche che portano via ore, al non trovare riferimenti organizzativi chiari e responsabili. Questi aspetti, come tanti altri, forse non interessano i cittadini ma sono determinanti nell’inficiare la qualità del lavoro e l’aspetto relazionale col paziente, piuttosto che col familiare.

Cito questi aspetti per far cogliere l’insieme del disagio attuale, sul quale i privatizzatori puntano per avere consenso qualunquista. Non entro nel merito dell’inadeguatezza dei sindacati. inadeguatezza che amplifica a dismisura i disagi prima accennati e portano gli operatori ad uno stato di confusione e assuefazione allo stato di cose presenti che spesso affrontano in forme individuale, creando sempre più conflitti nelle loro comunità di lavoro e con pazienti e famigliari. Capite quale indignazione viviamo quando sentiamo affermare che le liste d’attesa sono imputabili alla rigidità dei contratti pubblici e quindi risulterebbe impossibile soddisfare la domanda. Mentono perché le liste d’attesa non sono determinate dagli orari di sportello ma dalla chiusura di servizi e dal basso numero di operatori sanitari.

Dal punto di vista degli operatori e dei cittadini l’unica strada, a mio parere, è la costruzione di comitati territoriali, di paese e di quartiere, per imporre alle gestioni aziendali un rapporto alla pari, in un sistema che vogliono aziendalista i cittadini sono degli azionisti, figurativi e senza potere d’intervento ma, giustamente vogliono risultati di salute perchp pagano profumatamente risultati di salute che vengono sempre meno.

Matilde

Asl Roma B/C 8 marzo 2016

Pubblicata, con risposta della redazione, sul numero di aprile di Lavoro e Salute www.lavoroesalute.org

 

 

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