Ci salviamo solo se stiamo uniti
Lavoro da due anni come operaio in una fabbrica metalmeccanica in provincia di Varese.
Le varie ristrutturazioni aziendali che si sono susseguite negli anni hanno permesso al padrone di liberarsi della “vecchia guardia” e di tutto il patrimonio politico, sindacale e umano che questa si portava dietro: la memoria storica sul “fare conflitto” e sul “come farlo” è stata via-via polverizzata nel corso degli anni.
Il risultato è stato quello di un progressivo svuotamento del ruolo conflittuale e di parte delle RSU, che col tempo si sono trasformate da strumenti in mano ai lavoratori, a ridicoli intermediari e passacarte tra la Direzione e i lavoratori per far accettare a questi le decisioni padronali.
Questa situazione ovviamente non esclude i lavoratori dalle loro responsabilità: l’ abbandono di qualunque tipo di conflitto e l’ accettazione supina di una gestione aziendale unilaterale senza che gli operaio possano (o vogliano) dire la loro, è stata possibile creando all’ interno dei reparti quella che Lenin nel “Che fare?” chiamava “aristocrazia operaia” attraverso premi e cospicui aumenti individuali che di fatto hanno diviso e messo sempre più in concorrenza i lavoratori tra di loro.
Questo asservimento lo si è visto anche nel modo in cui è stata gestita l’emergenza sanitaria in fabbrica.
Nelle prime settimane, quando era lo stesso Governo a dire che il coronavirus era una semplice influenza, non è stata presa la minima precauzione all’ interno dei reparti e, addirittura, alcuni trasfertisti sono stati mandati a installare delle macchine proprio nella zona del lodigiano senza la benché minima protezione individuale.
I contagi però aumentavano progressivamente soprattutto proprio nelle fabbriche e negli altri posti di lavoro, costringendo i lavoratori per primi a rendersi conto che la situazione non era così semplice come veniva rappresentata.
Nel reparto in cui lavoro (dove per fortuna non c’è lo stesso servilismo presente negli altri reparti) abbiamo interrogato la RSU su quale fosse la posizione del sindacato e chiesto di indire un’ assemblea per discutere la questione e decidere collettivamente quale azione mettere in campo, perché siamo noi operai per primi a sapere quali sono le reali condizioni in cui lavoriamo e di conseguenza cosa è meglio per la nostra salute.
Ma, nonostante le nostre insistenze, a tutto questo non è seguita alcuna risposta, e la RSU ha fatto da “filtro” per impedire che all’ interno arrivassero le direttive sindacali.
E, cosa ben più grave la, RSU scarica volontariamente nelle mani della Direzione aziendale l’intera gestione dell’emergenza, dandole così carta bianca su come applicare in fabbrica il DPCM senza rendersi conto di quali siano le reali condizioni di lavoro nei reparti.
La logica avrebbe suggerito di studiare un piano specifico per ogni reparto e tipo di lavorazione, in modo da applicare in maniera sensata e mirata le norme di prevenzione; e questo tipo di intervento alcuni lavoratori lo chiedevano ancor prima che venisse reso noto il primo DPCM, perché per primi ci si era già resi conto della gravità della situazione e delle azioni da intraprendere per arginare il problema.
Ma così non è stato e gestendo invece l’emergenza in modo unilaterale senza il diretto coinvolgimento dei lavoratori, le normative di sicurezza sono state applicate un po’ come “andava” alla Direzione.
Il risultato è stato che, per esempio, nel reparto macchine utensili, dove c’è un operatore per macchina e la distanza tra una macchina e l’ altra è più di tre metri, ogni lavoratore aveva la mascherina; nei reparti di montaggio e collaudo invece, dove è impossibile mantenere la distanza di sicurezza di un metro, non è stato consegnato nessun dispositivo di protezione; per non parlare dei trasferisti che continuavano a girare per l’ Italia senza la benché minima protezione individuale.
Quando le RSU e l’RLS vengono interrogati sul perché alla maggioranza dei lavoratori non venissero forniti i necessari dispositivi di protezione, la risposta servile che
ne segue è sempre la stessa: “la Direzione ha fatto il necessario e se non riuscite a mantenere la distanza di sicurezza tra di voi, la responsabilità è vostra!”.
Nel frattempo in tutta Italia e soprattutto nelle grandi fabbriche, iniziano gli scioperi spontanei per pretendere la chiusura delle attività produttive non essenziali e la salvaguardia della salute dei lavoratori e delle loro famiglie.
Sulla scia di quanto succede fuori e consci del fatto che se le cose cambieranno a nostro favore sarà grazie alla lotta degli operai in sciopero, il nostro reparto blocca la RSU con la quale ha un diverbio molto violento per costringerla a far avere a tutti i lavoratori le mascherine e, seguendo l’esempio degli altri lavoratori, indire uno sciopero per forzare la chiusura della fabbrica.
La risposta che ne è seguita ha mostrato quanto fossero inutili questi parassiti: la RSU oltre a consegnare il nostro reparto letteralmente nelle mani della Direzione, denunciandoci come un “reparto a cui piace fare polemica” e dei “provocatori che mettono i bastoni nelle ruote dell’azienda” , ha rassegnato le dimissioni giustificandosi che era “stanca di sentire polemiche sul suo operato e su quello dell’ azienda”.
Tutto ciò è successo nel completo menefreghismo degli altri lavoratori che invece di esprimere solidarietà a chi cercava di salvaguardare anche la loro salute e quella delle loro famiglie, ci sono venuti contro, difendendo senza riserve la condotta della Direzione e della ex RSU.
Ma il fatto di mobilitarci come reparto, almeno ha portato al risultato sperato: dopo tre giorni c’erano mascherine, guanti e occhiali per tutti i lavoratori e da lì a pochi giorni sarebbe partita la cassa integrazione.
Che fare?
Ora, se siamo consapevoli che dopo “nulla sarà più come prima”, vuol dire che anche il nostro modo di fare conflitto dovrà esserlo, a prescindere dall’ avere o meno una nuova RSU; in fabbrica, nei luoghi di lavoro, sul territorio, nei quartieri, le lotte che nasceranno in ognuno questi settori se vorranno davvero dare una risposta generalizzata alla crisi economica e sociale, dovranno necessariamente saldarsi tra di loro e politicizzarsi.
La discriminante politica per ogni RSU, per ogni avanguardia di lotta, sarà il costruire un legame diretto, stabile e militante con le realtà conflittuali e antagoniste che si stanno muovendo sul territorio o che sono nate proprio per far fronte ai problemi sociali legati all’ emergenza sanitaria.
E questo per un motivo semplice: la crisi economica e sociale che già sta iniziando a mordere ma che nei mesi a venire affonderà dei colpi profondi e decisivi ai proletari, ai disoccupati, ai precari, alle fasce più deboli della popolazione, ha un’unica causa: il capitalismo.
A differenza del Covid, non possiamo aspettare che scienziati e immunologi ci preparino il vaccino contro questo “virus” distruttivo perché il vaccino dobbiamo crearlo noi, con l’organizzazione e la consapevolezza che questo sistema va abbattuto e non riformato.
Il vaccino contro il capitalismo sta nella presa di coscienza che ormai questo sistema è diventato incompatibile con tutto ciò che ha creato, che sfrutta, che periodicamente distrugge per poi ricostruire: questo sistema è diventato incompatibile con l’umanità.
Lo è sempre stato, ma la gestione criminale dell’emergenza causata da tagli miliardari al sistema sanitario nazionale fatti da destra e da sinistra per favorire le varie cliniche private, ha svelato a tutti l’inumanità del meccanismo capitalista che sacrifica le vite di migliaia di persone (e tra queste di quelle più deboli), nel nome del profitto di pochi.
Quindi anche le lotte parziali devo essere indirizzate verso questo obiettivo: non c’è più alternativa.
Collegare le lotte nei luoghi di lavoro con le lotte del campo metropolitano diventa una cosa fondamentale per poter dare una risposta generale, unitaria e decisa ai licenziamenti, alle chiusure di aziende e di piccole attività commerciali, alla riduzione degli stipendi, alla compressione dei diritti, alla fame che morderà prima di arrivare a metà mese, alla disperazione di intere famiglie che da qui a breve ci farà precipitare in una crisi di portata notevolmente peggiore rispetto a quella iniziata nel 2008.
Peggiore anche perché c’è uno stato di polizia che se già ora, nel completo silenzio istituzionale, si sta dimostrando aggressivo e poco incline al dialogo, figuriamoci che tipo di torsione autoritaria e fascista potrà avere quando nelle strade ci sarà chi non avrà più nulla da perdere perché gli hanno già tolto tutto!
Le mobilitazioni spontanee del 25 Marzo per chiudere le attività non essenziali, hanno dimostrato due cose importanti: 1.se gli operai si organizzano e si mobilitano con determinazione senza aspettare le direttive dall’alto, possono imporre la loro linea al sindacato; un sindacato che ha fatto di tutto per scongiurare lo sciopero ma che alla fine ha dovuto cedere (anche se in ritardo) alla pressione della base per non restare isolato e per riportare la mobilitazione all’ interno dei ranghi istituzionali; 2. gli operai e più in generale i lavoratori, quando si organizzano e si mobilitano non lo fanno soltanto nel loro interesse particolare, di classe, ma lo fanno nell’ interesse e per il bene di tutti: un esempio importante è quello degli operai della Whirpool di Napoli che oltre ad aver scioperato per la chiusura temporanea dello stabilimento, hanno spontaneamente donato il sangue per le trasfusioni a pazienti covid.
I lavoratori hanno dimostrato per l’ennesima volta che oltre ad essere centrali in questo sistema per la valorizzazione del capitale, lo sono anche e soprattutto quando si tratta di lottare per migliorare le loro condizioni di vita e di lavoro e per garantire la salute e i diritti di tutti!
D’ altronde non è un caso se Marx diceva che il proletariato liberando se stesso libera anche l’intera umanità.
Questa spontaneità unita alla rabbia e alla determinazione che hanno dimostrato i proletari, sono un punto di partenza fondamentale su cui e con cui lavorare e misurarsi, per tentare di spingere la lotta al di là dei recinti istituzionali e degli obiettivi immediati.
La classe è tale soltanto nella lotta, e guardando i livelli di mobilitazione che la classe ha avuto in questi anni, la sua stessa frammentazione, l’emergere di nuove soggettività messe al lavoro, la serie infinita di battaglie politiche e sindacali perse con il conseguente svilimento della combattività, e le varie realtà comunque marginali che hanno provato a politicizzare molte lotte per un salto di qualità, non si può essere troppo ottimisti sul livello di radicalità dei prossimi conflitti sociali.
La crisi stessa è un’arma dei padroni e come tale verrà usata contro i lavoratori per indebolirli, per dividerli, per metterli in concorrenza tra di loro se non per eliminarli del tutto dal circuito produttivo.
Detto questo però, per quanto difficile e lunga possa essere la marcia, dobbiamo, abbiamo il dovere di provarci, se veramente vogliamo cambiare la nostra vita.
La situazione è gravida di conflitti e di contraddizioni che si approfondiranno nei mesi a venire; il nostro compitò sarà quello di organizzarci per far scoccare la scintilla che può dar fuoco alla prateria: allora sarà il momento di alimentarla con tutta la benzina che abbiamo.
- Inviata da un lettore il 14/5/2020 –
Pubblicata sul numero di maggio del mensile Lavoro e Salute www.lavoroesalute.org
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