Classi, apparati e governi pericolosi

Riflessioni su governo e polizia a partire dai fatti di Bologna

di Vincenzo Scalia da Studi sulla questione criminale

Louis Chevalier (1977), in un lavoro storico destinato a lasciare il segno nella pubblicistica accademica, distingueva tra classi laboriose e pericolose, definendo le prime quei gruppi sociali che si conformavano alla disciplina, ai valori e agli scopi della società capitalistica in ascesa della Parigi del XIX secolo, mentre le seconde come gli individui e i raggruppamenti che venivano visti come portatori, potenziali o effettivi, di disordini.

L’attuale esecutivo, fin dal suo insediamento, ha mostrato un insolito zelo nell’ampliare il bacino delle classi pericolose. Se da un governo di centrodestra ci si poteva attendere una vocazione a mettersi di traverso a migranti, rifugiati, LGBTQIA+, la compagine governativa presieduta da Giorgia Meloni si è spinta oltre. Pochi giorni dopo il suo insediamento, per esempio, ha varato il decreto anti-rave, un provvedimento che non ha alcuna attinenza con la realtà (di rave non è mai morto nessuno), ma che si distingue per definire come “pericolosi” gli assembramenti di persone superiori a 20.

Un’agorafobia alquanto singolare, che si spiega soltanto con la preoccupazione, da parte del governo in carica e della maggioranza che lo esprime, per i raggruppamenti di persone che si fanno portatori di stili di vita, valori e progetti alternativi a quelli di chi si schiera col Family Day e promuove un nazionalismo posticcio, ancorché anacronistico. È  seguito quindi il decreto Caivano, che ha chiuso il cerchio del panico morale nei confronti dei minori alimentato dai media a partire dal caso di Bibbiano, dalla comparsa sui giornali delle cronache sulle “baby-gang”. Per culminare nella serie televisiva Mare Fuori. In modo surrettizio, introducendo la condanna penale per i reati gravi, si è svuotato l’istituto della Messa alla Prova, producendo l’aumento dei detenuti negli IPM da 360 a 600 nel giro di sei mesi.

Il 23 febbraio, finalmente, un governo forte del consenso dei sondaggi e avvantaggiato da un’opposizione pressoché sterile, ha mostrato i muscoli, manganellando un gruppo di giovani manifestanti inermi a Pisa e, il giorno dopo, a Firenze. Si tratta della criminalizzazione del dissenso politico,  che ha conosciuto, la sera del 4 aprile a Bologna, una preoccupante escalation. GG è un ragazzo di 18 anni, iscritto al liceo. Nel corso delle proteste contro il taglio di 42 alberi (https://www.bolognatoday.it/cronaca/Scuole-Besta-incontro-sindaco.html), che il comune ritiene necessario effettuare per realizzare una nuova scuola al posto dell’attuale parco “Don Bosco”, in zona Fiera, viene coinvolto in un confronto coi Carabinieri. Tenta di scappare, viene inseguito e bloccato con due colpi di Taser. Una volta immobilizzato, viene stordito con lo spray al peperoncino e sottoposto a ripetuti pestaggi a colpi di manganello, prima di essere caricato su di un’automobile dell’Arma e portato in prigione, per essere sottoposto a processo per direttissima il giorno dopo.

Il caso di GG suscita più di una preoccupazione, sia rispetto all’agire delle forze di polizia impegnate nel caso, sia nel caso della pericolosa china autoritaria che l’attuale esecutivo sembra avere intrapreso. Sul primo versante, ci preoccupa constatare che, malgrado i casi Cucchi e Magherini, la presa di coscienza dell’opinione pubblica, le conseguenti mobilitazioni, le forze dell’ordine, in questo caso i CC, non abbiano compiuto un solo passo avanti nella gestione dell’ordine pubblico.

Una sentenza emessa Corte di Cassazione l’anno scorso, definisce la Taser come un’arma da utilizzare soltanto in casi di estremo pericolo da parte delle forze dell’ordine. Alla luce della dinamica dei fatti, e delle accuse mosse al giovane (lesioni, resistenza e un non precisato “furto”), ci chiediamo quale fosse la sua pericolosità. Soprattutto, per quale ragione siano stati necessari altri atti di violenza come le percosse coi manganelli e l’utilizzo dello spray al peperoncino. . Da notare che GG è asmatico, ed è stato solo per un (fortunato) caso che non si sia approdati ad un esito tragico, del tipo di quelli delineatisi nei casi già menzionati. Il caso, per fortuna, non ha voluto un’altra morte.

Il problema della formazione delle forze dell’ordine, in particolare di un addestramento che introietti in loro la convinzione che i cittadini non sono belve pericolose da domare a tutti i costi, bensì cittadini da tutelare, che li renda consapevoli del fatto che operano nella cornice di una Costituzione democratica, rimane ancora oggi di allarmante attualità. Così come quello del loro porsi all’altezza della complessità odierna e della capacità di gestire le contraddizioni contemporanee. In particolare, sotto un governo la cui  leader dichiara, come è successo dopo i fatti di Pisa, che “mettere in discussione i poliziotti è pericoloso”, ignorando il fatto che l’accountability, ovvero l’essere sottoposti al vaglio formale e informale dell’opinione pubblica costituisce la cifra di ogni democrazia, le forze dell’ordine sembrano essere incoraggiate ad usare le maniere forti. Tanto più che, per evitare il “pericolo” della messa in discussione, è stato già presentato in Parlamento un disegno di legge che si prefigge lo scopo di modificare, ovvero di abolire in modo surrettizio, il reato di tortura, una legge che ha destato molte perplessità ma che ha per la prima volta posto un argine agli abusi commessi dalle forze dell’ordine (https://agenparl.eu/2023/04/26/disegno-di-legge-661/).

La posta in gioco è chiara a tutti. Di fronte al decadimento economico dell’Italia, alle guerre che incombono, alla crisi sociale post-pandemia, un governo privo di progettualità, a sovranità limitata in politica estera, eletto da solo un quarto degli elettori, attraversato da litigiosità interne, trova nell’autoritarismo e nel securitarismo il suo collante e il suo principale veicolo di legittimazione esterna. Tanto più che, in un contesto sociopolitico sempre più allarmante, la repressione del dissenso risolve, a breve termine molti problemi alla coalizione attuale. Se poi la si mette in atto attraverso l’utilizzo di apparati dello stato in evidente deficit di formazione democratica, il cerchio fa presto a chiudersi.

I fatti di Bologna ci fanno pensare che la definizione di Chevalier vada allargata e rovesciata. Non ci troviamo davanti a classi pericolose, bensì davanti ad apparati di Stato e ad esecutivi pericolosi. Portatori di un pericolo ben più grave, che è quello dell’obliterazione delle libertà civili e politiche. Bisogna liberarsi in fretta di questo pericolo. Mobilitandoci e agendo conseguentemente. Prima della prossima Pisa, o del prossimo GG.


Bibliografia

Chevalier L., 1977, Classi lavoratrici e classi pericolose. Parigi nella rivoluzione industriale. Bari: Laterza.

12/4/2024 https://www.osservatoriorepressione.info

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