Coca Cola e giornalisti scientifici
Quando un alimento o una bevanda sono accusati di essere causa o concausa di malattia, si può star sicuri che sarà messa in atto, da parte del produttore, una strategia di marketing mirante ad associare quella bevanda o quel prodotto a stili di vita salutari e a salute e benessere. I produttori di bevande zuccherate sono da anni nell’occhio del ciclone perché è ormai assodato che il consumo di questi prodotti è associato ad un rischio aumentato di sovrappeso e obesità.[1] Il marketing che arriva al pubblico, facilmente identificabile, consiste nell’associare il marchio ai nomi e alle immagini di campioni e di eventi sportivi, come le olimpiadi, a livello globale, nazionale e locale. A queste due ultime categorie appartengono le sponsorizzazioni di attività sportive, come i tornei giovanili, o di programmi di educazione allo sport e, più in generale, all’attività fisica. Questo è il caso, per esempio, del progetto EUROBIS, realizzato in Umbria con la partecipazione di numerosi partner istituzionali, tra cui l’università di Perugia, e con la sponsorizzazione della Coca Cola.[2] Progetti come questo servono anche a ripulire l’immagine della ditta, oltre che ad associarne il nome ad attività salutari.
Ma le strategie di marketing più insidiose, perché non facilmente identificabili, e probabilmente più efficaci, non sono quelle che arrivano direttamente al pubblico, ma quelle che lo fanno per via indiretta. E quale veicolo migliore per il marketing indiretto che il sistema sanitario con i suoi operatori e ricercatori. Per far passare il messaggio secondo cui si possono bere in abbondanza le sue bibite se si fa anche dell’esercizio fisico, e quindi evitare sovrappeso e obesità, la Coca Cola ha investito negli anni passati milioni di dollari. Ha creato a proposito, come rivelato nell’agosto del 2015 da un’inchiesta del New York Times,[3] un’associazione no profit, chiamata Global Energy Balance Network, con il proposito di
- sgonfiare le proposte, negli USA e in molti altri paesi, di una sovrattassa per diminuire il consumo di bibite zuccherate,
- tentare di far risalire le vendite, diminuite del 25% negli ultimi anni negli USA.
Attraverso quest’associazione, la Coca Cola ha versato oltre 120 milioni di dollari in 5 anni per finanziare centri di ricerca, singoli ricercatori e medici, ma anche il National Institute of Health, perché con ricerche e pubblicazioni spostassero le accuse sulle cause dell’obesità dalle bevande zuccherate alla mancanza di attività fisica. Il messaggio per il pubblico doveva essere: se volete mantenere il peso forma, fate molta attività fisica, e non preoccupatevi molto di ciò che bevete. Marion Nestle, autrice del libro “Le politiche delle bevande gassate” e professore di nutrizione, studi alimentari e salute pubblica alla New York University, intervistata dal New York Times ha detto: “IlGlobal Energy Balance Network non è altro che un gruppo di facciata per la Coca Cola, il cui programma è molto chiaro: fare in modo che questi ricercatori confondano la scienza e distolgano l’attenzione dall’alimentazione”.
L’inchiesta del New York Times era ben documentata, le prove erano inoppugnabili. Tant’è che la Coca Cola non ha potuto far altro che ammettere le sue colpe e promettere trasparenza. Pochi giorni dopo Coca Cola ha pubblicato la lista di tutte le persone e istituzioni che avevano ricevuto soldi per partecipare al programma di “ricerca”: si tratta di centinaia di piccoli e grandi finanziamenti. L’American Academy of Pediatrics, per esempio, aveva ricevuto 3 milioni di dollari. Alcuni dei beneficiari hanno semplicemente ammesso; altri hanno tentato di giustificarsi; pochi hanno deciso di restituire i soldi (l’Università del Colorado ha restituito un milione di dollari, per esempio). Il capo del dipartimento di ricerca della Coca Cola, che aveva orchestrato il programma, si è dimesso, o è stato costretto a dimettersi. Il Global Energy Balance Network è stato smantellato.
Ma non tutta la verità era stata rivelata. Alla Coca Cola, evidentemente, non bastava il fatto che medici e ricercatori piegassero la scienza agli interessi della ditta. Bisognava che qualcuno usasse i risultati della “ricerca” per inondare di messaggi il pubblico. Chi meglio dei giornalisti? Un articolo del BMJ svela ora come la ditta abbia segretamente finanziato conferenze per giornalisti in alcune sedi universitarie degli Stati Uniti per stimolare la disseminazione di articoli favorevoli alle bibite zuccherate.[4] Un giornalista della CNN, per esempio, ha partecipato nel 2014 ad una conferenza presso l’università del Colorado, finanziata con 37.000 dollari, ed aveva poi preparato un servizio a favore della mancanza di attività fisica come causa di obesità, assolvendo le bibite zuccherate. I primi finanziamenti per queste conferenze sono del 2011 e la prima conferenza si tenne nel 2012, con 20 partecipanti. Il professore universitario che aveva ricevuto questo finanziamento scrisse una mail alla Coca Cola dopo l’evento classificandolo come un “home run” (un punto a baseball; un gol, in termini calcistici). E aggiunse che “i giornalisti ci hanno detto che questa conferenza è favolosa e può ispirare molti articoli e servizi”; “penso che nelle prossime conferenze potremo coinvolgere altri sponsor”. Per le successive conferenze il finanziamento aumentò a 45.000 dollari. Un manager della ditta scrisse allo stesso professore: “ho letto tutto il rapporto sull’evento: eccellente. Conti su di noi per il prossimo”. Una giornalista, dopo aver scoperto che il finanziamento per la conferenza cui aveva partecipato proveniva dalla Coca Cola, si lamentò con la National Press Foundation (NFP). Gli organizzatori della conferenza, interpellati dal presidente della NFP in seguito a questa lamentela, contattarono la giornalista e le dissero che i finanziamenti provenivano dalla fondazione dell’università del Colorado, dalle risorse messe a disposizione per l’educazione, nascondendo il fatto che la fondazione riceveva i soldi dalla Coca Cola. La giornalista accettò la spiegazione, a dimostrazione del fatto che non è facile, nemmeno per un giornalista, distinguere tra informazione scientifica e marketing, quando quest’ultimo è occultato a dovere.
Il lavoro investigativo dell’autore dell’articolo del BMJ è stato possibile grazie all’applicazione del Freedom of Information Act (FOIA), una legge statunitense che permette di avere accesso, su richiesta, a tutti i documenti, compresi quelli di natura confidenziale, relativi al problema oggetto di indagine. Dal maggio 2016, un FOIA è in vigore anche in Italia,[5] anche se obbliga alla totale trasparenza, sempre su richiesta, solo la pubblica amministrazione. Se interrogata, difficilmente la Coca Cola renderebbe pubblica tutta la documentazione riguardante le sponsorizzazioni di ricerche, progetti e attività educative in Italia. Ma si potrebbe chiedere i dati ai riceventi. Perché, per esempio, non chiedere trasparenza totale sui soldi ricevuti e sul modo in cui sono stati usati alle varie istituzioni partecipanti al progetto EUROBIS in Umbria? O, sempre in Umbria, al progetto Beat the Street.[6] E sarebbe anche interessante sapere dalla Federazione Nazionale Stampa Italiana se per caso non siano state organizzate anche nel nostro paese delle conferenze per giornalisti.
Adriano Cattaneo
epidemiologo, Trieste
15/5/2017 www.saluteinternazionale.info
- Singh GM et al. Estimated global, regional, and national disease burdens related to sugar-sweetened beverage consumption in 2010. Circulation 2015;132:639–66
- EUROBIS (Epode Umbria Region Obesity Intervention Study) [PDF: 422 Kb]
- O’Connor A. Coca-Cola Funds Scientists Who Shift Blame for Obesity Away From Bad Diets. New York Times, 09.08.2015.
- Thacker P. Coca-Cola’s secret influence on medical and science journalists. BMJ 2017;357:j1638
- Dlgs sulla Trasparenza. Ministro per la Semplificazione e la Pubblica Amministrazione, 12.02.2016
- Beat The Street – Terni è la prima edizione italiana della gara internazionale Beat the Street volta ad educare bambini ed adulti ad un’attività fisica regolare [PDF: 440 Kb]
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