Colf e badanti: lavoratrici di serie B
I dati
Secondo l’indagine Censis del 2022, il 58% delle famiglie italiane che esprimono la necessità di usufruire di lavoro di cura per assistenza a persone fragili ricorre all’assunzione di badanti piuttosto che rivolgersi a residenze assistenziali sanitarie. Questo sia per motivazioni di carattere sociale, data la volontà di evitare soluzioni che potrebbero essere percepite dall’anziano o dall’anziana come di isolamento o allontanamento dalla famiglia, sia di carattere economico, data l’esosità del servizio offerto dalle rsa (secondo la commissione LEA del Ministero della Sanità mediamente dai 112 ai 127 euro al giorno).
Secondo i dati forniti dall’Inps le badanti regolarmente assunte sono passate sul territorio nazionale dalle 300.000 del 2012 alle 450.000 del 2022. Un incremento notevole che dimostra plasticamente quanto si stia trasformando e professionalizzando il lavoro di cura in Italia, ma anche quanto le politiche pubbliche di welfare siano sempre più inadeguate.
Un discorso non troppo diverso può riguardare le colf, ovvero le lavoratrici che si occupano dell’assistenza alla gestione domestica, che sono formalmente diminuite: da 600.000 unità nel 2011 a 500.000 nel 2021. Premettendo che tale decrescita può avere diverse chiavi di lettura, dalla crisi economica all’assenza di politiche di immigrazione adeguate (su cui torneremo più avanti), resta il dato incontrovertibile che il comparto lavorativo di cura sia divenuto uno dei più nutriti. Complessivamente colf e badanti formalmente assunte raggiungono oggi le 961.358 unità. Un dato impressionante se consideriamo che i lavoratori e le lavoratrici del trasporto pubblico locale raggiungono le 124.000 unità (dati ASSTRA), mentre i e le docenti della scuola dell’obbligo sono 684.317 (dati del Ministero dell’Istruzione).
Un dato molto interessante è rappresentato dal boom di contrattualizzazioni avvenuto a seguito della pandemia. Da marzo 2020 alla fine del 2021 si è registrato un incremento dell’1,9%. Anche in questo caso è logico pensare che la evidente insufficienza delle misure sociali e sanitarie contrapposte dal governo italiano all’emergenza abbia inciso nella decisione da parte di molte famiglie di affidare il lavoro di cura a colf e badanti. Mentre i leit motiv istituzionali erano “andrà tutto bene” e “restate a casa”, queste lavoratrici hanno messo a rischio la propria incolumità e si sono fatte carico del peso di tenere al sicuro le persone fragili che hanno assistito. Sicuramente, data la cronaca, più di quanto abbiano fatto i manager di molte strutture sanitarie private.
Un lavoro di cura, “quindi” femminile
Come si sarà sicuramente notato, abbiamo coniugato al femminile chi è nel comparto di lavoro di cura. Questo perché i dati parlano piuttosto chiaro: secondo l’Osservatorio Domina sul lavoro domestico, il settore è composto per l’84% da donne; le badanti sono 410.476 e le colf 405.628.
Ovviamente è il riflesso di un principio alla base del costrutto patriarcale della nostra società: le donne si fanno carico del lavoro di cura partendo dalla propria famiglia. I dati Istat fotografano in maniera cruda la situazione: il 70% del lavoro famigliare è svolto dalle donne, che si confrontano con un tasso occupazionale bassissimo (solo il 50% ha un lavoro full-time, a fronte di retribuzioni tra le più basse d’Europa).
Il dossier “Time to care” redatto da Oxfam nel 2020 approfondisce le conseguenze di questo fenomeno nella cristallizzazione della profonda diseguaglianza tra generi (e conseguentemente tra classi): il lavoro di cura gratuito svolto dalle donne è traducibile in un valore annuo di 10800 miliardi. Ciò contribuisce in maniera considerevole ad una disparità incolmabile che vede gli uomini detenere il 50% delle ricchezze in più delle donne, fossilizzandone la squilibrata relazione di potere.
Con tali impietose premesse il passaggio “logico” all’interno di una società profondamente patriarcale è che le stesse donne soggette ad un lavoro e ad un carico mentale non retribuiti nella famiglia, siano la manodopera da impiegare anche nel lavoro di cura formale.
Un lavoro duro, “quindi” migrante
Il lavoro di cura è, come sappiamo, molto impegnativo. Sia dal punto di vista del tempo che del carico mentale. Per questo il lavoro di cura famigliare (non retribuito) è difficilmente assimilabile a quello formale (retribuito). Come in altri ambiti, quindi, ci si rivolge a lavoratrici straniere, che nella grande maggioranza dei casi lasciano le proprie famiglie nei Paesi di origine, dedicandosi a tempo pieno alle proprie mansioni lavorative con la speranza di ottenere dopo anni il ricongiungimento famigliare (opzione resa molto complessa dalle politiche sull’immigrazione).
Anche in questo caso i dati sono piuttosto esplicativi; sempre secondo l’Osservatorio Domina il lavoro domestico è il settore con la maggiore incidenza di lavoro migrante: Il 77% delle badanti ed il 69% delle colf.
Più nello specifico, il 73% delle badanti di origine straniera proviene dall’Est Europa, mentre tra le colf il 47% proviene dall’Est Europa, il 18% dalle Filippine, l’11% dall’Asia Orientale, il 10% dal Sud America.
Ciò segna anche un cambio di passo e conformazione rispetto alle comunità migranti che vivono in Europa e ne sostengono la tenuta economica. Se comunemente questo fenomeno riguarda nell’immaginario collettivo il lavoro maschile (basti pensare alla nascita e al processo di integrazione delle comunità italiane in Belgio o in Germania), da tempo invece sono spesso le donne a guidare questi processi. Se guardiamo all’Italia è per esempio il caso delle comunità romene e ucraine. La Romania è infatti la comunità più presente in Italia, rappresentando quasi un quarto della presenza straniera nel Paese. Ebbene, le donne lavoratrici sono il 53% della comunità. Numeri ancora più schiaccianti per quel che riguarda la comunità Ucraina (dati ovviamente precedenti alla guerra): su 230.000 presenze il 78% è composto da donne. Stesso trend riguarda molte altre comunità.
Per questo non si può scindere lo sviluppo del lavoro di cura in Italia dalle politiche sull’immigrazione, che da un lato ne regolamentano l’offerta, e dall’altro per l’impianto razzista e padronale su cui poggiano, ne peggiorano le condizioni.
A questo proposito è illuminante il lavoro di Sara Farris, professoressa in Sociologia presso la Goldsmiths University di Londra. In “Femonazionalismo” (Ed. Alegre, 2019) approfondisce i diversi elementi della propaganda razzista delle destre in Europa che poggiano sulla strumentalizzazione del corpo delle donne. Particolarmente preziosa è la riflessione posta proprio sul ruolo delle donne migranti, percepite e rappresentate esclusivamente come “vittime” di culture e tradizioni “retrograde”, oppressive e violente (senza però che vengano messe in discussione l’arretratezza e la violenza proprie del patriarcato anche nell’evoluto Occidente), e che possono pervenire alla “liberazione” ed emanciparsi (o all’assimilazione nella società) solo accettando di essere relegate ad un lavoro duro e sottopagato come quello di cura. Si crea così un doppio livello di subalternità: le donne migranti liberano dal lavoro di cura quelle donne occidentali che subiscono disparità e sfruttamento lavorando nella sfera pubblica.
Secondo Censis e le istanze di Assindatcolf (l’associazione dei datori di lavoro), i dati sulla reale fruizione del lavoro di cura formale (citati sopra) sarebbero più che fuorvianti, come dichiarato in un comunicato del maggio 2022. Infatti l’assenza di politiche sull’immigrazione a tutela di colf e badanti comporterebbe che quasi il 60% del lavoro di cura in Italia sia irregolare. In buona sostanza le lavoratrici del settore della cura sarebbero oltre 2 milioni.
Questo principalmente perché manca una sanatoria che permetta di far emergere dal nero persone non in regola con i documenti, o con permessi di soggiorno non funzionali e che comunque lavorano incidendo positivamente sul benessere collettivo, o un Decreto Flussi che faciliti l’ingresso o il rientro legali e in sicurezza di nuove o meno lavoratrici.
Il Decreto Flussi 2022, lamenta sempre Assindatcolf, interviene quasi esclusivamente appannaggio di settori altri. Infatti su una quota massima di 69.700 unità, ben 42.000 sono rivolte al lavoro stagionale, 20.000 al lavoro subordinato nei settori dell’autotrasporto, dell’edilizia, del turismo. Il lavoro di cura, insomma, è praticamente escluso.
Chiariamoci, pur essendo il Decreto Flussi una misura non a tutela delle persone, ma al servizio dei datori di lavoro che possono acquisire manodopera come fosse merce, porterebbe ad un miglioramento almeno contingente delle condizioni di vita di milioni di lavoratrici.
Sembra banale sottolinearlo, ma le lavoratrici irregolari che i dati di Assindatcolf individuano come oltre un milione subiscono un danno non indifferente sotto molteplici punti di vista. In primis una condizione di ricattabilità estrema sul luogo di lavoro. In secondo luogo il mancato versamento di contributi pensionistici e quindi l’impossibilità ad accedere a tutte le misure previdenziali cui avrebbero diritto a cominciare dall’indennità di disoccupazione, e soprattutto la precarizzazione totale delle proprie vite, entrando in un loop che non lascia intravedere un orizzonte di vita dignitosa, e allontana la possibilità di un ricongiungimento famigliare in ottica pur remota nel tempo.
Del resto, vale la pena ricordare quanto i criteri per accedere al ricongiungimento famigliare siano rigidi e difficilmente soddisfabili finanche per una lavoratrice in regola.
Per far entrare in Italia due famigliari da un Paese Extra-UE è necessario un reddito da lavoro annuo di 12.158 euro. Nel caso in cui siano 3, la soglia minima sale a 15.198 euro. Le colf e le badanti inquadrate con i livelli più bassi, come vedremo più avanti, sono praticamente escluse, a meno di un secondo lavoro subordinato regolare oppure potendo contare su un famigliare (o un partner) convivente e già quindi presente sul territorio nazionale il cui reddito si integra con quello della richiedente (art. 29/bis T.U. immigrazione, 2007).
Altro criterio per l’accesso al ricongiungimento famigliare è disporre della certificazione di idoneità alloggiativa concessa dagli Enti Locali. Il D.M. 05/07/1975 del Ministero della Sanità recita che per ogni abitante debbano essere garantiti 14 metri quadri sino al quarto, e dal quinto in poi 10 metri quadri. Quindi, per esempio, per far entrare in Italia due famigliari, sarà necessaria una certificazione che attesti la disponibilità di un immobile abitativo con superficie di almeno 42 metri quadri. A questo ovviamente si aggiungono altri indispensabili criteri, come l’areazione degli spazi e l’impianto di riscaldamento.
Ora, le suddette norme che sicuramente possono essere intese come di buon senso dal punto di vista igienico-sanitario e di dignità delle persone, cozzano con la grave emergenza abitativa che colpisce il Paese, e il non rispetto da parte delle Istituzioni del diritto all’abitare: valore dei salari in caduta libera, speculazione edilizia, gentrificazione, crescita dei prezzi degli affitti, carenza di nuova edilizia popolare.
Nel caso di colf e badanti una soluzione “autorganizzata” dettata dalle condizioni di cui sopra è il co-housing (volendo utilizzare un termine fascinoso per una certa borghesia) forzato tra lavoratrici, generalmente provenienti dallo stesso Paese, che prendono casa assieme nelle periferie (spesso estreme).
Chiaramente questa opzione viene meno in caso di richiesta di ricongiungimento famigliare.
Un contratto al ribasso
La riconosciuta professionalizzazione del lavoro di cura ha portato nel 2007 alla stesura del primo Contratto Collettivo Nazionale. Sottoscritto dai sindacati confederali, è frutto a tutti gli effetti di una mediazione al ribasso. Lo rimane ancora oggi, nonostante piccoli interventi migliorativi apportati nel corso degli anni.
Il CCNL “Colf e badanti” (che include anche qualifiche quali baby-sitter e addetto agli animali domestici) prevede tabelle salariali tra le più basse in Italia.
Il livello A, il più basso, che comunque include mansioni diffuse, come “addetto alla pulizia di casa”, “aiuto di cucina” o “pulizia aree verdi” prevede una retribuzione oraria di appena 4,83 euro.
Il livello AS, che aggiunge al livello A la mansione di “addetto alla compagnia di persone adulte autosufficienti”, una retribuzione oraria di 5,69 euro.
Il livello BS, che include l’assistenza a persone autosufficienti con l’integrazione di mansioni di cucina e pulizia 6,40 euro.
Il livello CS, che annovera l’assistenza a persone non autosufficienti con tutte le altre mansioni annesse, 7,10 euro.
Se consideriamo che la retribuzione oraria del livello più basso del CCNL Terziario, il più diffuso, è di circa 6,56 euro, comprendiamo al meglio quanto la tabella salariale del CCNL Colf e Badanti sia inadeguata.
Aggiungiamo che il confine tra semplice “compagnia” e “assistenza” all’anziano sia piuttosto labile alla prova dei fatti, con il rischio, consapevole o meno, che le lavoratrici si trovino a svolgere mansioni di un livello superiore.
Il CCNL Colf e Badanti suddivide il trattamento di queste ultime secondo due tipologie: conviventi e non conviventi.
Le badanti conviventi con l’anziano hanno un impiego orario settimanale massimo di 54 ore. Per ovvie ragioni maggiore di quello delle badanti non conviventi che si ferma a 40, spalmabile su 5 o 6 giorni lavorativi.
Va da sé che la paga di una badante convivente risulterà maggiore di quella di una non convivente. Ma se guardiamo il dato crudo della retribuzione oraria, si nota che quello della badante non convivente è più alto di circa il 40%. Questo perché vale il concetto che la badante convivente goda di vitto e alloggio a spese del datore di lavoro.
C’è un principio di natura sociale che però non viene considerato: la convivenza e l’entità di ore lavorative comportano una compressione del tempo libero, della socialità, delle relazioni e della privacy. Elementi che portano ad alienazione, se non a vera e propria sindrome di “burnout”, come testimonia un’indagine delle Acli del 2017.
Una casistica talmente diffusa che ha portato due psichiatri di Kiev a coniare per la prima volta già nel 2005 la formula “Sindrome Italia” a seguito di uno studio scientifico su un campione di lavoratrici rientrate in Ucraina per indicare uno stato di profondo stress comune a tutte.
Oggi il concetto di “Sindrome Italia” è riconosciuto e utilizzato dalla comunità medico-scientifica per indicare un vero e proprio fenomeno medico-sociale.
Il Corriere della Sera pubblica il 9 aprile 2019 un reportage di Francesco Battistini che riporta le storie di sfruttamento e le condizioni di ex-badanti che dall’Italia sono tornate a casa, in Romania. Ma non solo. Racconta della visita presso l’istituto psichiatrico Socola di Iasi, dove gli effetti della “Sindrome Italia” si materializzano in tutta la loro forza: ogni anno vengono ricoverate circa 200 donne rientrate dall’Italia che accusano depressione, inappetenza, insonnia, ma anche schizofrenia e allucinazioni.
Le vittime della sindrome non sono solo le lavoratrici, ma anche i loro bambini e le loro bambine, che spesso accusano la condizione di “abbandono” che percepiscono rimanendo in Romania senza le madri. Battistini intervista Mihaela Hurdurc, direttrice della scuola Caritas e Silvia Dumitrache, presidente dell’Associazione “Donne Romene” che confermano tutti di disagi dei “left behind”: rabbia, ansia, difficoltà di apprendimento.
Tornando allo studio delle Acli, pone sotto i riflettori altri elementi terribili attinenti le condizioni lavorative di colf e badanti. Il questionario sottoposto ad un campione di 867 lavoratrici svela che il 14% ha subito molestie sessuali sul lavoro, il 10% accusa violenza psicologica, il 7% violenza fisica. Sono percentuali molto alte specie se consideriamo che l’indagine è condotta su un campione di lavoratrici con regolare contratto di lavoro, e non tiene conto della ben più larga fetta di lavoratrici a nero, molto più ricattabili.
Le colf e le badanti che subiscono molestie sul luogo di lavoro, peraltro, non si vedono nemmeno davvero tutelate dalla legge, come ricorda il Sole 24 Ore del 16 luglio del 2019, in un articolo firmato da Patrizia Maciocchi che riporta una controversa sentenza della Cassazione che derubrica le avances sessuali di un datore di lavoro, forte della propria posizione di potere, nei confronti di una badante da “molestie sessuali” a “fatto di grottesco squallore non penalmente perseguibile”.
Un altro aspetto del CCNL Colf e Badanti che merita di essere evidenziato per la propria inadeguatezza è l’indennità di malattia. Per motivazioni fiscali cui non viene posto rimedio, è l’unico contratto nazionale che prevede che l’indennità di malattia non sia a carico dell’Inps ma del datore di lavoro. Ciò incide negativamente sui diritti delle lavoratrici.
Mentre per tutti gli altri lavoratori dipendenti l’Inps copre l’indennità di malattia fino a 180 giorni dall’inizio dell’evento, per colf e badanti deve essere lo stesso datore di lavoro a occuparsene, ma per un lasso di tempo di gran lunga minore.
Così una lavoratrice con meno 6 mesi di anzianità ha diritto ad appena 8 giorni di indennità, avendo diritto di conservazione del lavoro per soli 10 giorni.
Una lavoratrice con anzianità fino a due anni ha diritto a 10 giorni di indennità, avendo diritto alla conservazione del lavoro per 45 giorni.
Una lavoratrice con più di due anni di anzianità (quindi con anche 5,10,20 anni) ha diritto a 15 giorni di indennità, potendo conservare il posto di lavoro per 180 giorni.
Il paradosso in quest’ultimo caso è che in caso di una lunga malattia, la lavoratrice non solo non potrà accedere all’indennità di malattia, ma nemmeno a dimissioni per giusta causa (eventuali condizioni di salute avverse e incompatibili con il lavoro non sono una motivazione contemplabile dalla legislazione), e dovrà sperare in un licenziamento per potersi trovare in una condizione di disoccupazione involontaria ed accedere quindi alla Naspi.
Anche l’accesso all’indennità di maternità, per quanto questo erogato dall’Inps ha parametri più rigidi. E’ necessario, a differenza di quanto avviene per le altre lavoratrici dipendenti, aver maturato almeno 52 settimane contributive nei due anni precedenti.
Per badanti e colf non è prevista la possibilità di congedo parentale come invece per tutti gli altri lavoratori dipendenti.
Non male per un Paese in cui, sulla carta, partiti e istituzioni affermano costantemente di voler mettere al centro dell’azione politica i diritti dell’infanzia. Evidentemente se le colf e le badanti sono lavoratrici di serie B, anche i loro figli e le loro figlie sono bambini e bambine di serie B.
INTERMEDIAZIONE E CONDIZIONI PEGGIORATIVE
La difficoltà nell’individuare ed assumere direttamente una lavoratrice porta molte famiglie a rivolgersi a cooperative ed agenzie che si occupano di intermediazione e lavoro in somministrazione. Per il datore di lavoro è un’opzione che potrebbe comportare a prima vista dei vantaggi: affidarsi a un soggetto terzo che assume molte delle incombenze burocratiche ed il pagamento dell’IVA. Ma non è così, come vedremo.
Chi ci perde, e subisce una vera e propria truffa, è la lavoratrice stessa. In primo luogo perché non si vede regolarmente assunta come lavoratrice dipendente, ma figura come lavoratrice autonoma. Questo comporta una perdita di diritti non trascurabile, dalla retribuzione del periodo di malattia (pur minimo) e di ferie, alla tredicesima, il tfr, lo straordinario e la contribuzione previdenziale.
A questo si aggiunge spesso la prassi illegittima della sostituzione della lavoratrice presso lo stesso datore di lavoro in prossimità dei limiti massimi di tempo oltre i quali è obbligatoria la stabilizzazione della dipendente.
Nel gennaio 2018 il settimanale L’Espresso ha dedicato un’inchiesta proprio a questo fenomeno che si traduce in un vero e proprio sfruttamento del lavoro di colf e badanti, costrette a turni di lavoro massacranti a fronte di retribuzioni da fame. Non solo: nessuno spiega loro che lavorando come partite Iva lo stipendio erogato mensilmente da aziende e cooperative non è netto, ma lordo, e quindi devono versare le tasse autonomamente. Ciò porta queste lavoratrici ad essere destinatarie di esose cartelle esattoriali cui non sanno come far fronte.
Anche i datori di lavoro, convinti inizialmente di un risparmio dal punto di vista economico e psicologico, invece spesso si ritrovano a fare i conti con storture che non avevano considerato. Spesso firmano contratti che prevedono rigide esclusive per le agenzie con pesanti penali, ed in caso di controversie lavorative si ritrovano comunque a doverne rispondere in prima persona.
CONCLUSIONI
Le condizioni di sfruttamento del lavoro di colf e badanti poggia sugli stessi principi di altri settori come il lavoro stagionale o la logistica. Uno su tutti, la dinamica di una forza lavoro migrante resa altamente e volutamente ricattabile da leggi razziste. Ma se le lotte dei e delle braccianti, o dei corrieri e delle corriere riescono ad irrompere periodicamente all’attenzione dell’opinione pubblica per molteplici motivi (percorsi di sindacalizzazione e processi di autorganizzazione collettivi che portano all’azione sindacale) ciò non avviene per il lavoro di cura. Questo probabilmente per una parcellizzazione del lavoro, la difficoltà nel confrontarsi tra lavoratrici sul posto di lavoro, ma anche forse per una sottovalutazione da parte di molti soggetti organizzati delle istanze di queste donne e del lavoro di cura quale terreno di lotta importante.
Intervenire in maniera ampia sui gangli dello sfruttamento del lavoro di cura significa non solo riflettere sul processo di femminizzazione del lavoro, ma anche, probabilmente, interrogarsi sui labili confini tra lavoro di cura formale e lavoro di cura famigliare. Significa fare i conti con la matrice sessista e patriarcale su cui poggia la società tutta.
Federico Cuscito
7/3/2023 https://www.intersezionale.com
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