Come la crisi sta colpendo le migranti
Secondo alcune stime preliminari diffuse nei giorni scorsi dall’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil) la crisi derivante dall’emergenza epidemiologica da Codiv-19 potrebbe comportare una significativa contrazione occupazionale. La crisi, peraltro, parrebbe destinata ad abbattersi con maggior vigore su alcuni gruppi di lavoratori particolarmente svantaggiati, tra cui si collocano i migranti, ancor più se donne.
L’allarme lanciato dall’Oil assume contorni di maggior inquietudine se rapportato all’esperienza italiana che, già in una fase antecedente alla pandemia, mostrava criticità particolarmente delicate proprio nei riguardi delle lavoratrici migranti. Difatti, incrociando i dati di alcuni rapporti emergono elementi per nulla incoraggianti.[1] Basti pensare al fatto che, in linea di massima, la manodopera migrante femminile è più qualificata rispetto a quella maschile ma continua a svolgere mansioni inferiori rispetto al titolo di studio e alle competenze acquisiti. Ancora, si conferma la diffusione dell’impiego a tempo parziale ma il part time è, sempre più frequentemente, involontario ovvero imposto e non frutto di una scelta della lavoratrice. Da ultimo, si rinsalda una relazione patologica tra condizione familiare e condizione occupazionale vale a dire, ad esempio, che le inattive sono prevalentemente madri, così come le disoccupate, seppur in misura leggermente inferiore. In sostanza, si realizza un deprecabile fenomeno di “doppia discriminazione”[2], sicché alla situazione che la lavoratrice vive in quanto migrante si aggiungono, con effetto moltiplicatore, tutte le criticità che accompagnano il lavoro femminile.
In uno scenario di tal tipo non stupisce, allora, quanto segnalato dall’Oil, posto che una situazione di crisi economica e sociale non può che accentuare problematiche già esistenti, a meno che non si assumano, per tempo, misure adeguate ed efficaci.
In questa nuova fase, successiva a quella stringente ed emergenziale di contenimento della pandemia, diviene opportuno verificare se e quali azioni siano state messe in campo al fine di far fronte al grumo di criticità nella vita lavorativa delle migranti.
A ben vedere, alcune delle misure introdotte non paiono sufficientemente rassicuranti per il futuro, seppur per ragioni diverse. Nel rispetto dell’economia di queste riflessioni s’intende focalizzare l’attenzione su un duplice piano, distinto ma per alcuni versi complementare e di certo altamente simbolico: emersione dei rapporti di lavoro e fruizione di (alcune) prestazioni assistenziali. In entrambi i casi, è bene precisare, gli interventi hanno un carattere neutrale rispetto al genere di appartenenza, ma in entrambi i casi gli effetti di tali misure, nel bene e nel male, non sono indifferenti rispetto al genere.
Il cosiddetto “decreto rilancio” (d.l. 19 maggio 2020, n. 34) introduce, tra l’altro, una procedura di emersione del lavoro irregolare nei riguardi di talune categorie di lavoratori e, dunque nel caso degli stranieri, una regolarizzazione della loro permanenza nel territorio italiano (art. 103). Si tratta di una normativa articolata – che peraltro dovrà essere meglio dettagliata dai decreti attuativi – che presenta tratti meritevoli di segnalazione. In primo luogo, la procedura concerne solo alcuni specifici settori di attività: agricoltura (ma anche allevamento e zootecnia, pesca, acquacoltura e attività affini); assistenza alla persona per sé o per familiari non autosufficienti e lavoro domestico di sostegno al bisogno familiare. In secondo luogo, il legislatore distingue sostanzialmente due percorsi: uno ad iniziativa datoriale e un altro, invece, attivato dal migrante medesimo. Nel primo il datore di lavoro può dichiarare la sussistenza di un rapporto di lavoro irregolare con un cittadino straniero (ma si badi anche con un cittadino italiano) oppure presentare un’istanza per stipulare un nuovo contratto di lavoro con uno straniero, in entrambe le ipotesi purché già censiti alla data dell’8 marzo 2020. Il datore deve altresì indicare la durata del contratto di lavoro e la retribuzione pattuita che, comunque, non potrà essere inferiore al contratto collettivo nazionale di riferimento. Nel secondo percorso, invece, gli stranieri con un titolo di soggiorno scaduto o non rinnovato o convertito possono avanzare richiesta di un permesso di soggiorno temporaneo della durata di sei mesi purché già presenti nel territorio nazionale alla data dell’8 marzo 2020 e, soprattutto, risultino aver svolto, entro il 31 ottobre 2019, attività lavorativa in uno dei settori cui è limitata l’applicazione della misura.
L’operazione di regolarizzazione realizzata dal governo non può che essere salutata con favore, come ogni operazione volta a togliere dall’ombra, ovvero dalla clandestinità, donne e uomini che vi sono relegati in ragione di una normativa di gestione della presenza per motivi economici di stranieri sul territorio nazionale, per vari aspetti, irrazionale e assolutamente inefficiente. Ciò nonostante, non si può fare a meno di manifestare qualche perplessità, in ordine a un paio di profili.
Quanto alla limitazione soggettiva ai lavoratori cosiddetti “abc” (ovvero lavoratori agricoli, badanti e colf), al sospiro di sollievo che può esser tirato da tutte quelle lavoratrici che da anni, e oramai in maniera strutturale, hanno assunto il carico del lavoro di cura nel nostro paese non fa da contraltare un’analoga soddisfazione da parte di altre lavoratrici migranti in condizioni pressoché analoghe. Vale a dire che seppur, come noto, una percentuale considerevole di migranti è inserita nel nostro mercato del lavoro come colf e badanti, non è di certo in questi settori che si esaurisce l’esperienza della manodopera straniera. Anzi, a ben vedere, un numero consistente di queste lavoratrici è impiegata in settori produttivi che sono (e saranno anche nell’immediato futuro) colpiti in maniera anche più violenta dall’esperienza pandemica (si pensi ad esempio al settore della ristorazione o a quello alberghiero).
In secondo luogo, introducendo un tema ben più complesso, neanche questo recente provvedimento mette in alcun modo in discussione la terribile equivalenza, codificata oramai da anni nel nostro ordinamento, ovvero contratto di lavoro=regolarità del soggiorno. È noto, infatti, che al fine di poter dimorare in condizioni di regolarità in Italia il migrante deve aver stipulato un contratto di soggiorno per lavoro subordinato, arricchito peraltro da una serie di garanzie che il datore di lavoro deve fornire e sottoposto ad una procedura abbastanza contorta, al punto da farlo presentare, a ragion veduta, come un “contratto impossibile”[3].
Un altro versante su cui pare opportuno riflettere concerne, come premesso, alcune prestazioni assistenziali erogate in questo periodo come ad es. i buoni spesa (introdotti con un’ordinanza dello scorso marzo della protezione civile) o, ancor più di recente, il reddito di emergenza (art. 82, d.l. n. 34/2020). Entrambe le prestazioni, se pur da prospettive diverse, rispondono all’esigenza di assicurare un sostegno – di tipo alimentare i primi, più in generale al reddito il secondo – nei riguardi di soggetti che versano in condizioni di particolare debolezza economica e sociale. Tra questi si collocano senza alcun dubbio gli stranieri e – viene da osservare in considerazione delle elevatissime percentuali di donne migranti tagliate fuori dal mercato del lavoro – ancor più se donne.
Purtroppo la legislazione, nazionale e non solo, dell’ultimo decennio in materia di erogazione di prestazioni assistenziali è caratterizzata dall’introduzione progressiva di requisiti per l’erogazione che di fatto comprimono la possibilità dei migranti di accedervi. In particolare, si assiste al fiorire di criteri di accesso legati al radicamento territoriale, sotto forma di residenza ma non solo. Anche le misure poc’anzi menzionate non paiono sottrarsi a scelte similari (e discutibili). Con riferimento ai buoni spesa diversi comuni, tenuti ad organizzarne la distribuzione, hanno introdotto arbitrariamente requisiti discriminatori (cittadinanza, residenza, permesso di soggiorno ad esempio) volti ad escludere i migranti dalla possibilità di accedere a questo contributo[4]. Per quanto concerne, invece, il reddito di emergenza basta segnalare che il primo requisito fissato dal legislatore è proprio la residenza. Ora, per quanto tale requisito sia usato in maniera meno stringente rispetto a quanto accaduto anche nel passato più recente (si pensi alla residenza cosiddetta qualificata richiesta per accedere al reddito di cittadinanza), permangono le perplessità circa la legittimità di criteri che rischiano di escludere maggiormente, ovvero di discriminare, alcune categorie di persone.
In conclusione, dunque, quanto sino ad ora realizzato non pare fornire garanzie adeguate in ordine alla tutela delle donne migranti, lavoratrici o meno. Al contrario, sembra perdersi un’opportunità che comunque, al pari di ogni situazione difficile, anche questa terribile fase reca in sé. Vale a dire che se, come pare, ogni frangente di crisi, individuale o collettiva che sia, può esser causa di ripiegamento ma anche, al contempo, stimolo per spinte progettuali e strategiche questa possibilità non sembra essere contemplata nell’immediato futuro rispetto al fenomeno migratorio. E ciò, a ben vedere, con enorme spregio nei riguardi di quelle donne (ma anche di quegli uomini) che sono costretti a fuggire dalle loro terre – per fame o per bombe poco importa – ma anche con incuria e miopia da parte di comunità, come la nostra, che potrebbe e dovrebbe accoglierli, poiché “pensare l’immigrazione significa pensare lo stato ed è lo stato che pensa a sé pensando l’immigrazione”[5].
Note
[1] Il riferimento è al IX rapporto annuale. Gli stranieri nel mercato del lavoro in Italia curato dalla Direzione Generale dell’Immigrazione e delle Politiche di integrazione relativo al 2019 (spec. pp. 52 ss.) e al Dossier Statistico Immigrazione 2019, a cura del Centro Studi e Ricerche Idos in partenariato con Centro Studi Confronti.
[2] V. Cardinali, L’immigrazione in Italia: una prospettiva di genere, in Dossier Statistico immigrazione, cit. p. 124.
[3] L. Calafà, Migrazione economica e contratto di lavoro degli stranieri, il Mulino, 2012, p. 120.
[4] Sul punto si rinvia alle segnalazioni e agli interventi dell’ASGI (Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione) reperibili sul sito www.asgi.it
[5] A. Sayad, La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato, Raffaello Cortina, 2002, p. 368.
Maura Ranieri
15/6/2020 http://www.ingenere.it
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