Con gli occhi della gru

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La mezza rotazione della gru a torre apre il sipario, come se fosse un braccio di una maschera che invita a entrare. Lo spettacolo inizia.
Schiene piegate, odore di ferro e legno. I colpi di martello per fissare le casseforme sono il metronomo che detta il ritmo dei rumori e del silenzio. Alzano timidi gli occhi verso di noi gli sguardi nordafricani e il vociare mediterraneo fatto di risa, diventa ad un tratto silenzio. Fuori da qui la città si muove, due dimensioni attigue e diverse. Lontano, cumuli di terra accantonati attendono di essere rigettati per riempire gli scavi dove sta sorgendo l’ennesimo quartiere residenziale da 6.000 euro al metro quadro. Un altro paradiso artificiale confinato, zona commerciale e parco, un modo per lasciare fuori la realtà dalle vite di alcune persone.

Subito un particolare fa entrare dentro al cantiere il mondo fuori, la tendenza che si percepisce durante ogni dialogo o ascolto di dialoghi altrui in strada, al bar, in coda, in tv. Gli spogliatoi privi di bagni e armadietti sono rigidamente divisi: una baracca per gli italiani e una per gli stranieri. I poveri non odiano i ricchi, ma gli altri poveri. La realtà non è ciò che vorremmo, ma ciò che va raccontato, nulla di pronto, molto da trasformare. Lo sporco dove immergersi per unire e superare queste contraddizioni è questa pista di cantiere.

Ciò che appare evidente e automatico è ancora pieno di ostacoli in una società complessa. Si fa avanti Marcello, palermitano, 20 anni di esperienza come gruista, catapultato in Veneto dopo che la ditta presso cui lavorava da un giorno all’altro ha dichiarato fallimento, fine del rapporto di lavoro, emigrazione. Precisa che ogni attrezzatura è piena di insidie e riconoscendo il suo ruolo delicato si lascia andare, nonostante la presenza del superiore, nel raccontare quanto sia importante verificare ogni cosa ogni giorno, prima che l’animale meccanico entri in funzione. Qualcuno ogni tanto ha coraggio e sensibilità, ma sembra sempre un essere strano, troppo solo per incidere, troppo solo perché pensa. L’occhio poi cade su altri operai che indossano cappellini con sopra loghi sindacali. Buon segnale, ma subito dopo la mente torna al particolare. Perché, nonostante la sindacalizzazione, gli spogliatoi sono divisi per nazionalità? E perché sono in quelle condizioni? Ci sono dei soldi stanziati per la sicurezza e in un’opera dall’importo da 6 zeri, perché non avere di più e meglio?

La trasparenza in edilizia non è un principio, nonostante modifiche di codici e goffi tentativi legislativi. L’inverno presto sarà vicino e non c’è acqua corrente, per non parlare di quella calda e del riscaldamento. L’unico punto acqua è all’esterno, con una pompa provvisoria a servire da lavabo.

Sembra di chiedere la luna, ma qualcuno già negli anni’50 aveva chiaro cosa fossero le condizioni degne per chi lavora. Qualche domanda ed è subito chiaro, il meccanismo del saccheggio è rodato, il ricatto però, può essere rotto se riconosciuto. Emerge il bisogno di questi locali, di calore per l’inverno e armadietti per tenere pulite e in ordine le proprie cose. In minimo di sollievo per lavoratori distanti da casa, arrangiati in alloggi affittati dalla ditta (nulla è scontato!).

Tra il rumore dei lavori che continuano il pensiero si immerge nella consapevolezza che i lavoratori possiedono silenziosamente. Le cure, i vaccini, il sapere come tutelarsi, sono bisogni sganciati dal livello di istruzione. La cultura è legata al bisogno e il bisogno è il suo motore.

Il braccio dell’animale d’acciaio riprende la sua traiettoria, le statistiche e i dibattiti restano lontani, e il tempo è ancora dettato da LORO.

Renato Turturro

Tecnico della prevenzione. Collaboratore redazionale del mensile Lavoro e Salute

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