CONTRATTI A TERMINE: CHI MENTE SAPENDO DI MENTIRE

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Dopo l’approvazione, da parte del CdM, del testo definitivo di quello che, pomposamente, è stato definito Decreto dignità, si è innescata una vera e propria “reazione a catena”.

Da “addetto ai lavori”, ho trovato particolarmente interessanti due articoli: il primo, di Claudio Negro, pubblicato sul sito della Fondazione Anna Kuliscioff e il secondo a firma di Pietro Ichino, l’ex Senatore Pd.

Personalmente, ho già sostenuto, in altre sedi, di riconoscere al suddetto decreto un solo merito, se di merito si può parlare.

Infatti, dopo circa venti anni – dai provvedimenti adottati dal governo Berlusconi (2001), al d. lgs. 81/2015 (Renzi/Paoletti), passando attraverso la legge 92/2012 (Monti/Fornero) – nel corso dei quali la regolamentazione dei contratti a termine era stata fatta oggetto di un vero e proprio “assalto alla diligenza”, fino al punto di realizzarne la sostanziale “liberalizzazione”, ci si trovava, con il decreto Di Maio, di fronte a un testo che, per la prima volta, non apportava alcuna misura peggiorativa e, tentava di dare, addirittura, l’impressione di un’incredibile “inversione di tendenza”.  Un testo, dunque, apparentemente “rivoluzionario”, rispetto alla filosofia di Monti e Renzi!

Naturalmente, i contenuti della bozza di decreto hanno subito chiarito che, per i lavoratori, in sostanza, non era proprio il caso di esultare.

Nel merito del provvedimento governativo, rispetto alla sostanziale “difesa d’ufficio” della previgente normativa, cui (addirittura) si abbandonava Negro, riporto solo di aver rilevato che la riduzione, da 36 a 24 mesi, della durata massima dei contratti – ferma restando ancora la possibilità di aggiungerne altri 12, ricorrendo a un accordo in sede di Direzione Territoriale del Lavoro (art. 19, comma 3, del d. lgs. 15 giugno 2015, nr. 81; non modificato, né abrogato) – e il ripristino di causali general/generiche, quali quelle previste dal decreto dignità, non risolvevano il problema della precarietà.  Ritengo, infatti, che solo il ritorno a precise causali, di fonte legislativa e/o contrattuale, potrà porre, le condizioni affinché il contratto a tempo determinato sia riportato alla sua valenza originaria; al fine, cioè, di impedirne l’utilizzo anche per esigenze aziendali di carattere non temporaneo ed evitarne reiterazioni assolutamente ingiustificate; a danno dello stesso o di più lavoratori.

Nel secondo articolo, come ormai d’abitudine, le motivazioni addotte da Ichino, a sostegno della difesa “a oltranza” della vigente normativa sul lavoro a termine, traggono spunto da una posizione avversa (quella di Di Maio) e ne alterano il significato. Un classico, al quale ci ha, da tempo, abituati, l’ex senatore Pd.

In questo senso, prima di procedere e al fine di evitare possibili equivoci, è opportuno precisare che una cosa dev’essere a tutti ben chiara. Di là di qualsiasi valutazione di merito, espresso sul decreto (e il mio giudizio, per quello che può contare, è stato e resta negativo), quando il capo del M5S – pomposamente, come dicevo in apertura e indipendentemente dall’effetto pratico prodotto – parla di “decreto dignità”, opera la scelta di una parola dietro la quale c’è l’idea secondo la quale combattere e contrastare la dilagante precarietà equivalga a restituire dignità al lavoro.

Cosa, questa, assolutamente vera e incontrovertibile; certamente condivisibile, anche se a sostenerlo fosse Satana, piuttosto che Di Maio!

Ecco, allora, che, attraverso le considerazioni di Ichino, una volta sostituito il termine “precarietà” con “stabilità”, riesce molto più facile ed agevole dare a intendere che l’interlocutore consideri tout court poco dignitoso il rapporto di lavoro a termine!

Da qui ad addebitare a Di Maio una “colossale sciocchezza” – accusandolo di sostenere che il lavoro, in Italia come in Europa, sia tanto più dignitoso quanto più esso si avvicini a un regime di stabilità (vedi ex art. 18 dello Statuto) – il passo è molto breve.

Tra l’altro, in ossequio a un elementare senso di onestà intellettuale, quando – come spesso accade, nel tentativo di rafforzare le proprie affermazioni – si fa riferimento ad altri Paesi europei, sarebbe buona norma essere tanto esaurienti da indicare anche le diverse condizioni esistenti.

Così, quando si afferma, come fa Ichino, che non può essere consentito definire “non dignitose” le condizioni di quei lavoratori tedeschi ed olandesi con rapporti di lavoro a tempo determinato, andrebbe, onestamente, aggiunto che – a differenza di quanto avviene in Italia – in Germania la legge prevede sempre l’indicazione di una causale, mentre in Olanda, trascorsi 24 mesi il rapporto s’intende trasformato in assunzione a tempo indeterminato.

Altro che legislazione italiana!

Renato Fioretti

Esperto Diritti del Lavoro.

Collaboratore redazionale del periodico cartaceo Lavoro e salute

11/7/2018

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