Contro l’apartheid dei vaccini
Sembrano lontanissimi gli anni Novanta quando l’epidemia di Aids consumava l’intero continente africano senza che nessun Paese riuscisse a farvi fronte. Nemmeno il ricco (per i parametri africani) Sudafrica guidato allora da Nelson Mandela. Qui nel 1997 si contavano circa 3 milioni di persone infettate da Hiv e almeno 100mila morti l’anno. Altrove, dove pure l’Aids da un decennio colpiva duramente, la situazione cominciava invece a migliorare grazie all’entrata in commercio, nel 1996, di farmaci antiretrovirali. Questi farmaci si stavano dimostrando altamente efficaci ma avevano una contro indicazione insormontabile per i bilanci di Paesi poveri e in via di sviluppo: erano infatti estremamente costosi e protetti da brevetti. Stiamo parlando di terapie che potevano costare fino a 10mila dollari e di Paesi nei quali la spesa sanitaria annua pro capite si aggirava attorno ai 10 dollari. Per far fronte a questa situazione – che era aggravata, è bene non dimenticarlo mai, anche dall’anatema lanciato dal papa Giovanni Paolo II contro l’uso del profilattico – il presidente Mandela nel 1997 promulgò una legge, il Medical Act, che bypassando i brevetti autorizzava la produzione locale di farmaci generici a basso costo e/o l’importazione degli stessi da altri Paesi. Si stima che in soli tre anni quella legge – che permetteva ai malati di Aids l’accesso alle medicine ad un decimo del costo di mercato – avrebbe potuto salvare la vita a oltre 400mila cittadini africani.
Ma durò solo fino al febbraio 1998 perché venne bloccata da un’azione legale di 39 case farmaceutiche le quali contestavano la violazione delle regole del commercio mondiale in tema di proprietà intellettuale. In particolare quelle che fissano in 20 anni il monopolio per i brevetti sui medicinali, inclusi quelli necessari alla tri-terapia antiAids. Per farsi un’idea, nel 2000, dopo quattro anni dalla scoperta di questa tri-terapia, il numero dei decessi negli Stati Uniti era dimezzato (da 19 a 10mila vittime/anno nel 2000), mentre in Africa – dove viveva il 70% del totale mondiale delle persone sieropositive (25 milioni) – era quasi raddoppiato (da 1.5 a 2.4 milioni di persone). Quando il 5 marzo 2001 si aprì il processo contro il Medical Act di Mandela il mondo occidentale si divise in due. Da un lato c’erano i sostenitori di Big pharma, a partire dagli Stati Uniti, che intendevano in tutti i modi far cadere la legge per impedire la licenza obbligatoria e l’importazione parallela dei farmaci (ovvero le uniche due modalità per ridurre i costi delle spese sanitarie formulate dell’Organizzazione mondiale del commercio e incluse nei Trips, gli accordi commerciali sulla proprietà intellettuale). Dall’altro c’era l’opinione pubblica internazionale sensibilizzata dal mondo dell’associazionismo (qui in Italia si spesero moltissimo Legambiente, Lila e Medici senza frontiere).
E come finì? Finì che il Medical Act non è entrato mai in vigore anche a causa della minaccia di ritorsioni commerciali contro il Sudafrica qualora la legge fosse definitivamente passata. Ma al tempo stesso grazie alle pressioni internazionali le 39 farmaceutiche di Big pharma si convinsero ad abbandonare il processo. Si trattò della prima storica vittoria contro gli interessi commerciali nel campo della salute. Come ci ricorda Salute internazionale nei 15 anni successivi la situazione è andata lentamente migliorando e la mortalità si è ridotta parallelamente al crescere della copertura della terapia antiretrovirale. Ma ancora nel 2016 37 milioni di persone nel mondo erano affette da Hiv/Aids e di queste oltre il 50% non aveva accesso al trattamento. Dal canto suo Nelson Mandela continuò la battaglia fino a convincere le Nazioni unite a dedicare una sessione speciale dell’Assemblea generale al tema della lotta contro l’Hiv/Aids che si concluse con una risoluzione che impegnava la comunità internazionale a sostenere i Paesi più colpiti dall’epidemia, per rendere più diffusi e accessibili gli interventi di prevenzione e di cura.
Sembrano lontanissimi gli anni Novanta eppure oggi di fronte alla pandemia da Covid-19 rischiamo di vivere una situazione simile a quella dell’Hiv-Aids. Con Paesi di serie A che stando alle ultime notizie entro la fine del 2021 potranno vaccinare gran parte delle rispettive popolazioni, e Paesi di serie B che non avendo le risorse finanziarie per poter acquistare le dosi vaccinali necessarie a determinare l’immunità di gregge dovranno fare i conti con il coronavirus chissà ancora per quanto tempo. Già nel giugno scorso uno studio dell’Accademia nazionale dei Lincei aveva evidenziato, nel caso specifico della pandemia, il significato anche politico che il vaccino avrebbe teso ad assumere: «Lo Stato che lo produce per primo può utilizzarlo per affermare così la sua eccellenza scientifica e tecnologica e dimostrare la sua capacità di proteggere per primi gli abitanti della sua nazione e poi gli abitanti dei Paesi amici. La competizione economica diviene così anche competizione politica e misura di potere».
Ed è proprio quello che sta accadendo ora con la Cina e la Russia che hanno approvato vaccini prodotti “in casa” senza aspettare i risultati di fase 3 dei trials. Per non dire di Donald Trump che a ottobre in piena campagna elettorale per le presidenziali Usa si è giocato la carta dell’annuncio di un vaccino pronto entro breve, salvo poi essere smentito dal Ceo della multinazionale da lui chiamata in causa. A Trump è andata male ma a testimoniare quanto anche in Occidente sia sentita la competizione planetaria ci sono i quasi 8 miliardi di dollari di finanziamento per la ricerca e lo sviluppo ricevuti da Stati Uniti, Paesi Ue e Gran Bretagna da sei multinazionali farmaceutiche che oggi si trovano in fase 2 o 3 di sperimentazione di vaccini su cui i Paesi che hanno investito hanno ovviamente una prelazione. E non è un caso se – come abbiamo raccontato su Left del 27 novembre – i Paesi appena nominati, più l’Australia e qualche altro si sarebbero già garantiti 6 miliardi di dosi per un miliardo di cittadini. Così ad altri 92 Paesi poveri rimarrebbero solo 500 milioni di dosi per 4 miliardi di persone. Il quadro già così è abbastanza chiaro e di fronte a queste grandi manovre c’è chi da tempo ha lanciato l’allarme paventando gli squilibri e le discriminazioni che con un vaccino per soli ricchi si verrebbero a determinare. Tuttavia anche grazie a quella antica battaglia di Nelson Mandela siamo ancora in tempo per evitare il peggio.
In che modo? Tutto ruota intorno ai
brevetti o meglio alle regole di produzione dei vaccini. Come i nostri
lettori sanno è partita da alcuni giorni una raccolta firme europea per
spingere la Commissione europea a rendere un bene pubblico mondiale i
vaccini anti-Covid19 (e anche i futuri farmaci) che saranno autorizzati
al commercio dalle autorità regolatorie internazionali. La richiesta
avanzata a Bruxelles è che si dia la possibilità ai Paesi Ue di
applicare le clausole contenute negli accordi sui brevetti (gli stessi
accordi Trips di cui abbiamo parlato a proposito del farmaci anti-Hiv) e
produrre i farmaci generici togliendo o sospendendo per un certo
periodo i brevetti, e che tutti i farmaci e i vaccini, che vengono
prodotti con contributi pubblici, siano messi a disposizione della
popolazione. Attualmente in questa direzione vi è il programma globale
Covax per la distribuzione dei vaccini futuri con criteri di equità,
guidato dall’Organizzazione mondiale della sanità, dalla Cepi (Coalition
for epidemic preparedness innovations) e dall’alleanza Gavi (Gavi the
vaccine alliance). Al progetto hanno aderito oltre 180 Paesi fra cui la
Cina ma non gli Stati Uniti che con Trump sono anche usciti dall’Oms.
Tra questi ci sono 94 Paesi ad alto reddito, ciascuno dei quali ha preso
impegni vincolanti. Avranno tutti accesso ai vaccini nella lista Covax e
ognuno pagherà le proprie dosi. I restanti Paesi a basso reddito invece
lo riceveranno gratuitamente. Il programma Covax lancia un messaggio
importante ma non basta a garantire che sia sdoganata definitivamente
l’idea che il vaccino è un “bene comune”.
In proposito nei giorni scorsi si è espresso anche il Comitato nazionale per la bioetica ricordando che già a giugno l’Ue raccomandava «una strategia sui vaccini con la doppia finalità di un contenimento dei costi e di un’equa distribuzione». Secondo il Cnb, inoltre, togliere i brevetti sul vaccino è la strada che l’Oms ha più volte caldeggiato, anche se l’eliminazione del brevetto rischia di rallentare significativamente la ricerca e di diminuire il numero dei competitori». Qualora, comunque, sia ammesso il brevetto, prosegue il Cnb «almeno nelle fasi più drammatiche della pandemia, se ne dovrebbe prevedere la sospensione e al contempo si dovrebbe prevedere la concessione di licenze obbligatorie, regolate tramite accordi internazionali». Questa delle licenze obbligatorie potrebbe essere una soluzione per far sì che tutti abbiano la stessa possibilità di difendersi dalla pandemia e al tempo stesso non venga tolta la proprietà intellettuale a chi ha prodotto il vaccino ma come abbiamo visto nel 1997 fu pesantemente ostacolata da Big pharma con il sostegno degli Stati Uniti e nulla lascia pensare che oggi sarebbe diverso con il rischio che si perda troppo tempo appresso a eventuali cause legali. Fatto sta che gli strumenti per arrivare a ottenere un vaccino “bene comune” ci sono. Ora tocca alla politica intervenire per far sì che la produzione e la distribuzione dello strumento chiave per la lotta contro la pandemia non siano regolate dalle leggi di mercato. Facciamo quindi nostre le parole del Cnb: «Questo è un obbligo a cui deve far fronte la politica internazionale degli Stati. L’Europa ha l’opportunità di fare qualcosa di unico, se vuole che tutti i suoi Paesi e tutti i Paesi del mondo abbiano il vaccino».
Federico Tulli
10/12/2020 https://left.it
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