Contro lo smart working. Per una vera comunità del lavoro
È intuitivo comprendere come dopo un’esperienza così totalizzante, come sono stati questi 15 mesi di pandemia, almeno negli ambienti più accorti, si senta la necessità di discutere del nostro futuro. In una recente lezione intitolata La grande migrazione online: costi e opportunità, tenuta da Juan Carlos De Martin, professore ordinario di ingegneria informatica al Politecnico di Torino ed uno degli studiosi più attenti alle trasformazioni prodotte dalle tecnologie sulla nostra società e sulla nostra democrazia, sottolineava come sia arrivato il momento di iniziare una seria riflessione collettiva sul post-pandemia e su quale futuro vogliamo costruire per la nostra comunità nazionale. Un futuro che, ci avvertiva, verrà comunque costruito, ma senza un franco dibattito democratico lo sarà in modo più opaco e, probabilmente, prescinderà dagli interessi della maggioranza della popolazione italiana.
Contro lo smart working di Savino Balzano, appena edito da Laterza (2021), rientra pienamente all’interno di questo spirito. L’autore dichiara fin dalle prime pagine del saggio di avere come primo obiettivo innanzitutto quello di tentare di aprire un dibattito franco (e dal suo punto di vista critico) sul lavoro agile o, riprendendo la vulgata mediatica, sullo smart working. Un dibattito che oggi – come lo stesso autore non manca di sottolineare variamente – sembra essersi raccolto attorno a questioni marginali, concentrandosi spesso, se non prevalentemente, sui potenziali effetti positivi che il lavoro agile produce su una serie di questioni problematiche presenti nel nostro Paese (e non solo nel nostro Paese), piuttosto che essere centrato, come dovrebbe essere, innanzitutto sugli effetti di questo nuovo strumento di flessibilizzazione del lavoro sui lavoratori e sui loro diritti.
L’importanza di affrontare questo tema la possiamo ricavare dai numeri. Durante la pandemia l’utilizzo del lavoro agile – o di una declinazione emergenziale di lavoro agile, parzialmente diversa rispetto alle norme che ne prevedono l’utilizzo[1] – ha permesso la grande migrazione online dei lavoratori italiani: prima della pandemia il 94,3% degli occupati italiani non ha mai lavorato da casa, mentre con la pandemia coloro che hanno lavorato da casa sono stati 6,6 milioni. Un numero enorme, circa un terzo dei lavoratori italiani, che si avvicina moltissimo al numero massimo dei lavoratori che potenzialmente potevano lavorare da casa individuato dall’Istat nel suo rapporto del 2020: parliamo, per comprendere la portata del fenomeno, di 8,2 milioni di persone, appunto il 36% del totale degli occupati[2].
Un tema, dunque, che coinvolge milioni di lavoratori e che deve essere dibattuto con serietà, con franchezza e con spirito democratico. Il lavoro agile, soprattutto, deve essere valutato per i vantaggi e per i costi che esso produce sulla condizione dei lavoratori e delle lavoratrici italiane. Di certo non possiamo permetterci di valutare questo strumento di flessibilità del lavoro pensando a quanto possa essere utile alla transizione ecologica, all’abbattimento del livello dell’anidride carbonica nell’aria, alle carenze dello Stato sociale italiano o al rilancio economico e intellettuale del meridione o delle aree interne dell’Italia: per queste cose – ha perfettamente ragione l’autore – ci sono politiche pubbliche ad hoc che, francamente, sarebbero infinitamente più efficaci per risolvere questi problemi, che pure esistono e sono importantissimi. Così come non possiamo permetterci di valutare il lavoro agile o il lavoro a distanza ragionando su scenari da sogno, in cui si lavora perennemente chissà da quali posti fantastici e chissà con quali comodità che la routine lavorativa ci nega. Perché nasometricamente se pensate che queste siano le coordinate più corrette del dibattito sul lavoro agile due sono le opzioni: o state sognando (e in aggiunta non avete letto i primi accordi sindacali in merito) o siete dei privilegiati (buon per voi, sia chiaro, ma siete una minoranza fortunata e, dunque, vi invito ad uscire dalla vostra bolla e a fare uno sforzo di pensiero solidale).
Contro lo smart working ha proprio questo primo grande merito: di fare emergere, forse per la prima volta in modo così organico e sistematico, i possibili (e numerosi) punti critici del lavoro agile e i loro effetti negativi sulla condizione (già devastata) della comunità del lavoro e dei lavoratori e delle lavoratrici italiane, che fino ad oggi raramente sono emersi nel dibattito pubblico. Con il suo saggio Savino Balzano segnala tutti i nodi problematici che verrebbero fuori se il lavoro agile venisse adottato come paradigma generalizzato di lavoro – quindi unilaterale, obbligatorio e prevalente per tutti i lavoratori subordinati (ovviamente per coloro che svolgono mansioni eseguibili a distanza). Uno scenario, ci dice l’autore, molto più concreto di quello che si possa credere, che aleggia nella mente di molti, in cui non sembra esserci molto spazio per gli interessi “deboli” di questa vicenda, cioè gli interessi e i bisogni della maggioranza dei lavoratori e delle lavoratrici italiane e per le loro effettive condizioni di vita.
Savino Balzano costruisce la sua tesi facendoci riflettere su come moltissimi diritti si fondano sui tre elementi principali che il lavoro agile metterebbe in discussione: la materialità dello spostarsi dalla/verso la sede di lavoro; la fisicità del luogo di lavoro; lo scandirsi dell’orario di lavoro. Un legame importante ma che nell’immaginario collettivo, forse anche degli stessi lavoratori, non è sempre evidente.
Brevemente, rimandando al saggio di Savino Balzano per una loro trattazione più precisa, pensate a tutti i diritti e le tutele che gravitano attorno alla sede di lavoro: i trattamenti di missione e le indennità economiche collaterali, oppure i c.d. “buoni pasto”, oramai diventati, di fatto, un elemento fondamentale della retribuzione dei lavoratori e delle lavoratrici (l’autore sottolinea come stiamo parlando di 150-200 euro al mese). Pensate a tutti gli i diritti legati alla postazione di lavoro, il luogo fisico dove si materializza il diritto alla sicurezza e alla salute del lavoratore, il quale deve potere lavorare in modo sereno e in un ambiente adeguato in termini di spazi e di attrezzature. La salute psicofisica del lavoratore, la sua sicurezza sul luogo di lavoro oggi, vale la pena ricordarlo, gravano completamente in capo ai datori di lavoro. Pensate al legame profondo tra orario di lavoro e vita privata oppure tra orario di lavoro e intensità e produttività lavorativa. Un orario di lavoro definito e perimetrato ha permesso a milioni di lavoratori e di lavoratrici di organizzare meglio la propria vita privata; ha contribuito ad impedire la totale e disumana massimizzazione della produttività individuale nelle ore lavorate; ha contribuito a costituire un argine al dilagare esplicito degli straordinari non retribuiti a tutte le ore del giorno e durante tutti i giorni della settimana o quantomeno a costringerlo alla clandestinità. Pensate, infine, al profondo legame tra diritti sindacali e luogo fisico di lavoro. La presenza fisica dei lavoratori e delle lavoratrici nella sede in cui passano gran parte delle ore di lavoro garantisce il confronto sui problemi collettivi, il proselitismo sindacale e una maggiore efficacia delle azioni sindacali. Gli scioperi all’interno delle sedi di lavoro, ad esempio, l’atto di non recarsi a lavorare il giorno dello sciopero sono più efficaci perché garantiscono l’infungibilità dei lavoratori scioperanti.
Tutti e tre questi elementi (la materialità dello spostarsi dalla o verso sede di lavoro; la fisicità del posto e della postazione di lavoro; un orario di lavoro predeterminato) e, inevitabilmente, i diritti ad essi legati vengono messi in discussione con il lavoro agile, specialmente se questo dovesse essere assunto come paradigma generalizzato. Savino Balzano, infatti, afferma nel suo libro che non è assolutamente scontato che le indennità di missione e i “buoni pasto” vengano ancora garantiti o convertiti in altro modo; che la postazione lavorativa venga resa sicura e salubre dal datore di lavoro, come oggi impone la legge, e che i costi generali per il suo funzionamento non ricadano completamente sui lavoratori e sulle lavoratrici; che lavorare per obiettivi, al di fuori dell’orario predefinito di lavoro, significhi lavorare meno e senza particolari stress. In sintesi non è scontato (e forse è più probabile il contrario) che i diritti e le tutele che abbiamo richiamato troveranno cittadinanza in questo nuovo paradigma di lavoro ed è, invece, certo che il lavoro agile sarà una grande occasione di risparmio per le aziende e di maggiore controllo (a distanza) sull’attività lavorativa dipendente.
L’atto di denuncia che guida tutto Contro lo smart working è proprio quello di non sottovalutare le insidie del lavoro agile, che si nascondono dietro gli elementi di positività. L’autore invita, dunque, tutti coloro che si battono a favore della causa del lavoro di vigilare e agire per evitare che questo cambio di paradigma venga imposto, in sordina e senza un preliminare dibattito democratico, mentre ci culliamo sugli scenari da sogno da cui potremmo un giorno lavorare.
Segnali che vanno in questa direzione, d’altronde, sono già presenti. Basta guardare il dato normativo vigente, cioè la legge 22 maggio 2017, n. 81, che oggi disciplina il lavoro agile nei rapporti di lavoro subordinato. Questa legge affronta vagamente molti dei diritti che abbiamo prima esplicitato e quando lo fa assume una posizione non proprio favorevole al lavoratore, in particolare se pensiamo alle norme sulla sicurezza sul posto di lavoro e a quelle relative al controllo a distanza. Savino Balzano diffusamente denuncia questo aspetto, in particolare attraverso una utilissima e costante comparazione tra la legge 22 maggio 2017, n. 81 sul lavoro agile e la legge 16 giugno 1998, n. 191 che disciplina il telelavoro nel settore pubblico (ed estesa con un accordo sindacale al settore privato nel 2004). Quest’ultima, a differenza della prima, garantisce non solo maggiori tutele per il lavoratore e la lavoratrice, ma in qualche modo proietta al di fuori del posto di lavoro, dunque dentro le dinamiche di un possibile lavoro a distanza, le classiche tutele garantite al lavoratore e alla lavoratrice dallo Statuto dei lavoratori.
Durante la pandemia, inoltre, i primissimi dati sulla condizione lavorativa degli italiani e delle italiane inducono a pensare che la tesi portata avanti nel saggio da Savino Balzano sia assolutamente appropriata e lungimirante. Un recente sondaggio del Corriere della sera, di pochi giorni fa e che ha coinvolto 10.000 persone intervistate, ha fatto emergere come alcuni dei problemi segnalati nel saggio di Savino Balzano si siano già verificati durante il lavoro a distanza “pandemico”. Solo per citare alcuni dati interessanti: il 42.5% di coloro che hanno risposto al sondaggio ha lavorato di più e il 23.9% ha lavorato molto di più in smart working rispetto al lavoro in presenza; il 60.9% ha dichiarato che l’azienda non ha fatto nulla e nemmeno ha informato i lavoratori sui propri diritti alla sicurezza e alla salute durante il lavoro a distanza; circa il 40% degli intervistati ha dichiarato di avere perso qualcosa in termini di retribuzione rispetto a prima, tant’è che il 37.1% degli intervistati ha perso il buono pasto; ancora, il 16.8% ha dovuto comperare dotazioni informatiche, il 18.5% ha dovuto comperare nuovi mobili, più del 60% ha dovuto cambiare l’organizzazione della casa e, infine, il 46% degli intervistati ha dovuto allestire la postazione lavorativa di tasca sua[3].
Osservando questi primi dati, dunque, ha forse ragione chi ha affermato, come il prof. De Martin, che ci troviamo di fronte ad un paradigma che per una buona parte dei lavoratori e delle lavoratrici non ha proprio nulla di smart: in molti casi il lavoro a distanza è gravato completamente sulle persone e ha risentito enormemente delle disparità sociali che sono presenti e diffusissime nella nostra società, quasi fotografandole. Durante la pandemia il lavoro a distanza, dunque, ci ha mostrato innegabilmente una flessibilità che, a determinate condizioni, potrebbe essere utile e che potremmo sfruttare per migliorare effettivamente le condizioni del lavoro, ma attenzione a non farci sovrastare dalle promesse della flessibilità, che rischiano di diventare promesse di alienazione individuale e di disgregazione sociale, e dal determinismo tecnologico, secondo cui tutto ciò che si può fare con le nuove tecnologie andrebbe fatto, a prescindere da tutto il resto.
Il lavoro agile a ben vedere non è soltanto una questione che riguarda i lavoratori e le lavoratrici interessate, non è una questione meramente operativa abilitata dalla tecnologia: in realtà è un tema che riguarda tutti noi perché in fondo stiamo parlando del mondo del lavoro che vogliamo costruire, del modo in cui vogliamo stare in società e relazionarci tra noi. Quello che emerge in Contro lo smart working di Savino Balzano, infatti, non è soltanto un punto di vista critico sul lavoro agile – in punta di diritto, si direbbe – ma è, soprattutto, una certa idea di comunità del lavoro, solidale, consapevole e capace di rivendicare dialetticamente migliori condizioni di lavoro. Una comunità, quella del lavoro, che è indispensabile per la realizzazione del progetto sociale e democratico insito nell’art. 1 della Costituzione repubblicana e che il lavoro agile, almeno quello che abbiamo conosciuto in questo periodo, rischia di scardinare e compromettere definitivamente, alimentando tendenze neoliberali e precarizzanti in corso da decenni. D’altronde, concludendo con le parole dell’autore, è proprio vero che «chi vede nello smart working una grande opportunità per sferrare un ulteriore attacco al mondo del lavoro, nel frattempo, è già all’opera, è già seduto attorno a un tavolo a pianificare le prossime mosse» e chi crede che la comunità del lavoro deve essere preservata e rilanciata, con forme moderne e innovative non può «mancare questo grande appuntamento con la storia del lavoro, che la storia del paese».
Note
[1] L’autore lo chiama home working o emergency working. Posizione condivisa anche dallo stesso Juan Carlos De Martin, il quale – rigettando la definizione di smart working – lo definisce lavoro a distanza (LAD).
[2] Questi numeri vengono riportati dal prof. De Martin nella sua lezione riprendendo rapporti Istat e altri studi specifici.
[3] Corriere della sera, Smart working: il 37% ha perso i buoni pasto, il 35% ha comprato mobili o pc, 11 giugno 2021.
Matteo Falcone
Lascia un Commento
Vuoi partecipare alla discussione?Sentitevi liberi di contribuire!