Contro-storia dell’emergenza epidemica
Una motivazione
Da quando ho finito di raccogliere quello che ho chiamato il Diario dell’epidemia, mi è nato il desiderio di provare a trarne delle conclusioni, a unire i puntini che si accumulavano per tracciarne una figura che fosse comprensibile in uno sguardo.
Mi sembrava importante che si potesse avere a disposizione una contro-storia dell’epidemia, fondata su una raccolta ampia e affidabile di materiale, significativa proprio in quanto diretta espressione dai rappresentanti del capitale. Importante per me stesso, in primo luogo, ma spero anche per coloro che abbiano il desiderio di leggere.
Mi sembrava importante sia per sfuggire alla schizofrenia della narrazione mediatica, sia perché, srotolando su una linea la matassa ingarbugliata degli eventi, emergessero nel loro svolgimento temporale le strategie politiche che vengono dispiegate e sperimentate sotto i nostri occhi.
In una seconda puntata, a partire dalla contro-storia, cercherò poi di evidenziare alcuni punti significativi per comprendere il quadro nel quale ci troviamo ad agire e vivere.
una storia vera, cioè una contro-storia
La prima cosa che bisogna dire è che la risposta delle istituzioni all’insorgere dell’epidemia è stata tardiva ed inefficace. In modo tanto più sorprendente, in quanto lo stop a tutte le attività produttive dello Hubei e in molte altre province della Cina faceva pensare ad una situazione critica. Stupisce ancora di più che il governo ne fosse consapevole: a inizio febbraio preparava 300 milioni, poi saliti a 500, per le imprese italiane operanti in Cina, e già il 31 gennaio veniva dichiarato lo stato di allarme pre-pandemico.
Ciononostante il Covid-19 è stato affrontato sempre in ritardo sullo stadio di evoluzione del contagio. Nei venti giorni dalla dichiarazione dell’allerta pre-pandemica alla rilevazione dei primi positivi sul suolo italiano non è stato fatto niente. Al di là delle difficoltà strutturali della sanità italiana, provata da anni di tagli, sicuramente si poteva intervenire per preparare il Paese al contagio, assumendo personale sanitario, acquistando dispositivi di protezione individuale (dpi) e apparecchiature per la terapia intensiva, allestendo nuove strutture e laboratori, acquistando ed effettuando i tamponi. Invece non è stato fatto niente, trovandosi poi a dover inseguire l’epidemia senza poterla prevenire. Due dati esplicativi: 1) dei 90 milioni di mascherine chirurgiche necessarie per gli ospedali, la Protezione Civile è riuscita a reperirne meno di 60 milioni, con conseguenze ovvie sulla sicurezza delle condizioni di lavoro degli operatori sanitari. Non a caso i primi focolai sono partiti negli ospedali. 2) A fine febbraio erano attivi meno di 40 laboratori per l’analisi dei tamponi, vero metà marzo oltre 120. Un mese dunque era più che sufficiente almeno per preparare ed allestire il monitoraggio tempestivo della fase iniziale dell’epidemia. Ancora, subito dopo l’esplosione del contagio, si poteva invitare tutti a stare a casa e ad evitare i contatti al chiuso, bloccando la produzione ad eccezione delle filiere essenziali, e soprattutto fornire informazioni chiare sui rischi e sulle misure di prevenzione individuali e collettive.
Invece non è stato fatto niente.
Questa impreparazione da un lato è sicuramente figlia di una certa incompetenza della classe politica italiana (esemplare il caso del medico che faceva notare l’urgenza della risposta alla regione Lombardia, cui è stato risposto letteralmente “non ci rompere i coglioni”). Dall’altro la lentezza e la titubanza nella risposta all’epidemia è stata simile in tutti i paesi europei, ma anche negli Stati Uniti, in Russia, in Brasile. Questo significa chiaramente che la politica, in tutti i paesi, risponde a delle esigenze incompatibili con un contenimento efficace dell’epidemia, sebbene chiaramente ciascun paese ad un grado diverso e con le proprie specificità.
Questo appare evidente dal fatto che fin da subito le imprese hanno iniziato a ripetere senza sosta il mantra del “sostegno alle imprese, garantire la continuità aziendale”, che la politica ha subito ripreso e i media amplificato. Con i primi casi il 20-21 febbraio, già il 22 il Sole 24 Ore, giornale di Confindustria, non parlava quasi per nulla del contagio ma chiedeva sostegno alle imprese. La politica si è accodata, e si è preoccupata in primo luogo dell’effetto che le misure di contenimento avrebbero potuto causare sulle attività produttive, e solo in secondo luogo delle misure sanitarie. Le conseguenze devastanti, le decine di migliaia di morti, le abbiamo sotto gli occhi.
È stato immediatamente evidente come a tutti i livelli, dai sindaci dei comuni maggiori (Milano e Bergamo su tutti), alle regioni, al governo centrale, la priorità sia stata salvaguardare gli interessi a breve termine degli imprenditori. Solo a Codogno e a Vo’ è stata istituita una zona rossa, il 23 febbraio. Tardi però. I primi positivi sono stati individuati dopo alcuni giorni, il virus era diffuso ormai da giorni e si era già sparso nel resto del nord. Fuori dalle zone rosse, anche al nord, si è tenuto aperto tutto quanto era possibile, anche con incoerenza: in Veneto, Emilia e Lombardia sono stati chiuse le scuole, fermati i bar serali e proibite le manifestazioni di qualsiasi genere, ma non sono stati chiusi i bar diurni, non i ristoranti, non gli uffici, non le fabbriche. La maggioranza delle persone ha continuato ad avere contatti, non per irresponsabilità ma per necessità lavorative. Tutto senza che venissero implementate misure di distanziamento, né che venissero forniti dpi per migliorare la sicurezza delle interazioni sociali.
Al contempo, i toni sensazionalistici dei media generavano una reazione di panico, che passando per gli assembramenti enormi ai supermercati per fare provviste si è esteso fino ai mercati finanziari il 24 febbraio e ha causato il primo crollo della borsa. Improvvisamente il panico diventava fuori luogo, causava un danno di immagine al paese, faceva perdere gli ordini dall’estero alle imprese, la comunicazione si è gestita molto male, dice il Presidente di Confindustria. Bisogna aprire, aprire, aprire tutto! chiedeva Salvini, far ripartire Milano, Bergamo (!), riaprire i bar anche alla sera, #Milanononsiferma, le imprese nemmeno. Per far capire che la situazione è normale, vai al cinema e a fare shopping, non diffondere panico! Sala sostiene, il PD rilancia, il governo approva, Zingaretti si ammala. Ma la produzione non veniva fermata.
Anzi, il 2 marzo è uscito il primo decreto legge con misure di sostegno alle imprese delle zone rosse e delle regioni coinvolte (Emilia, Veneto e Lombardia) mentre veniva programmata addirittura la riapertura delle scuole in Piemonte. Al contrario, le prime assunzioni nella sanità sono state previste il 7 marzo, e sono diventate effettive solo intorno al 15, a causa delle ovvie necessità burocratiche. Nel mentre l’assenza di dispositivi di sicurezza adeguati rendeva proprio gli ospedali i centri di diffusione del COVID, e l’effetto è stato probabilmente peggiorato dalla riconvocazione in servizio dei medici in pensione, cioè proprio delle persone più esposte agli effetti del virus.
Su indicazione di Walter Ricciardi, consigliere del governo, e con esplicita approvazione di Conte, già dal 25-26 febbraio il test del tampone veniva limitato ai pazienti con sintomi gravi, e comunque solo se legati ai focolai iniziali, escludendo dunque a priori la nascita di nuovi focolai, che invece c’erano eccome, in particolare nella bergamasca e nel bresciano. Ma non si dovevano gonfiare i numeri, per non far spaventate i mercati con un’immagine distorta del paese, dicevano il governo e Confindustria in coro. Al contrario medici, epidemiologi e scienziati sostenevano da più parti la necessità di effettuare più test possibili per monitorare il numero di positivi con precisione e prendere le misure conseguenti. Invece il governo chiedeva ai laboratori di non comunicare i dati sui nuovi positivi per sottoporli prima al controllo governativo, ottenendo giustamente una reazione indignata.
Come logica conseguenza di questa gestione, e nonostante il numero limitato di tamponi, il contagio ha continuato a crescere a ritmo esponenziale: circa 300 casi il 25 febbraio, 1600 il 1 marzo, 6000 il 7, spingendo finalmente il governo a decisioni più drastiche. Prima, il 7 marzo è stata diffusa, con la complicità della regione Lombardia, la bozza di un decreto che prevedeva l’istituzione di zone di contenimento per la Lombardia e 14 province in Emilia, Veneto, Piemonte e Marche, a partire dal giorno dopo. Poi, il 9 marzo, il premier Conte ha annunciato in diretta Facebook il lockdown dell’Italia. Non senza causare effetti indesiderati: l’uscita improvvisa della prima bozza e l’estensione immediata delle misure a tutto il paese hanno diffuso un’altra ondata di panico, con rientri di massa al sud (molti dei quali autodenunciati) e nuove code gigantesche per procurarsi beni di prima necessità. Con l’istituzione delle nuove misure il governo predisponeva il divieto di uscire di casa, eccetto che per comprovate necessità, da testimoniare con un modulo di autocertificazione: la spesa, motivi di salute propri o di parenti, e ovviamente andare al lavoro. Per far rispettare le misure sono state istituite ammende da oltre 200 euro e in più hanno valore penale, e la polizia è stata schierata estensivamente per le strade, col supporto dell’esercito.
Tra le varie misure, una ha spiccato per violenza e brutalità: con la scusa di porre un freno alla diffusione dell’epidemia nelle carceri, il 5 marzo il Ministero della Giustizia ha proibito le visite in presenza ai detenuti da parte dei familiari. In realtà, le carceri non sono luoghi isolati, il loro contatto con il mondo esterno non sono i parenti dei detenuti, ma le guardie carcerarie. Come è stato dimostrato subito, il vettore del virus nelle carceri erano proprio le guardie: già il 6 marzo è stato trovato un positivo tra i secondini. La situazione di sovraffollamento delle prigioni, con moltissime persone ammassate in spazi piccolissimi e chiusi per definizione, le rende ambienti ideali per la proliferazione del coronavirus. In questa condizione di rischio per la propria vita, nel giro di pochi giorni i detenuti si sono rivoltati in decine e decine di carceri, chiedendo l’indulto, per non rischiare di morire in prigione senza nemmeno poter vedere i propri parenti, e delle condizioni di vita meno soggette all’arbitrio delle guardie. La reazione della polizia è stata durissima. Nei giorni successivi 14 detenuti sono morti in circostanze quantomeno sospette, e le battiture di rappresaglia sono durate fino ad aprile inoltrato.
Nel frattempo il numero di positivi al Covid-19 continuava a crescere giorno dopo giorno. Ma, grazie alle reazioni di panico dei giorni precedenti, era già pronto il colpevole: gli irresponsabili che non rispettano le norme e, ça va sans dire, i terroni rientrati al sud. A turno i media hanno additato svariati soggetti colpevoli di spargere il morbo: i runner, i genitori con bambini, i vecchi al parco, i padroni di cani, tutti colpevoli di uscire dalla propria casa per fare due passi, meglio se da soli e senza alcun contatto. Cioè con pericolosità zero. Ad ogni minima segnalazione, chiaramente, veniva invocato l’intervento sempre più massiccio delle forze dell’ordine, con conseguente spettacolarizzazione di inseguimenti e catture.
I numeri invece hanno mostrato una realtà diversa, irriducibile alla narrazione mediatica. Delle persone controllate dalle forze dell’ordine, solo uno su 50 è stato multato, chiaro indicatore del fatto che la stragrande maggioranza delle persone hanno rispettato fedelmente le disposizioni, anche senza considerare l’arbitrarietà di molte delle ammende comminate. Bisogna anche dire che il contagio non si è mai diffuso nel meridione con le proporzioni del nord, a totale discolpa delle persone rientrate al sud. Questo mette in luce anche un altro fatto, puro e semplice: il contagio si è diffuso sul lavoro.
Infatti, consigliate ma non obbligate a chiudere, le aziende spessissimo sono rimaste aperte. Anche qualora non potessero garantire le condizioni di sicurezza adeguate, spesso hanno messo a rischio la salute e la vita dei lavoratori, che immediatamente hanno risposto con scioperi spontanei, diffusi su tutta la penisola. A partire dal 12 marzo, un giorno dopo l’inizio del lockdown, e per tutta la settimana successiva, nelle fabbriche le linee sono rimaste vuote fino al 90%, forzando molte aziende a chiudere subito, su tutte gli stabilimenti Fiat, chiusi già il 12 marzo. La forzatura degli operai nelle fabbriche ha scavalcato i sindacati e li ha obbligati a pretendere dal governo la chiusura di tutta la produzione non essenziale e para-essenziale. La definizione di attività para-essenziali nella bozza di accordo del 22 marzo tra governo, imprese e sindacati, comprendeva inizialmente ben più della metà degli occupati ancora attivi, ha portato ad un nuovo sciopero, che nonostante l’appoggio tiepido dei sindacati ha portato ad una ridefinizione dei settori para-essenziali e alla chiusura di alcuni impianti. Tuttavia la produzione non si è davvero mai fermata, come mostrano i tracciamenti di Google: per ogni altra attività gli spostamenti sono calati sempre intorno al 90%, mentre il calo massimo di spostamenti al lavoro ha raggiunto il 75-80% solo in concomitanza con gli scioperi del 22-24 marzo, per risalire al 65% già il 29 marzo, con un trend in risalita ben prima della fine del lockdown.
Infatti il numero di contagiati è rimasto molto alto anche nelle settimane successive al lockdown, con migliaia di nuovi contagi registrati ogni giorno, inspiegabili con i pochissimi incontri irregolari tra cittadini. Ciononostante, la politica ha scelto di colpevolizzare chi esce di casa per una passeggiata solitaria. Ha cominciato Sala a Milano chiudendo i parchi e stigmatizzando i runner, perché “per uno che corre 100 si sentono reclusi”. Ha proseguito il governo, rendendo più stringenti le misure di distanziamento sociale, inasprendo l’ammenda da 200 a 400 euro. All’inizio si poteva fare attività fisica all’aperto liberamente, poi il raggio di movimento è stato ristretto ad 1 km da casa, poi l’attività fisica fuori casa è stata proibita ed è rimasto possibile solo passeggiare, poi anche il raggio delle passeggiate è stato ristretto a 200 metri, infine si è reso obbligatorio indossare la mascherina o almeno una sciarpa per uscire, contrariamente a quanto era stato raccomandato di fare fino ad allora, dato che le mascherine servivano primariamente negli ospedali. Anche il modulo di autocertificazione è stato cambiato più volte, contribuendo alla mancanza di chiarezza dell’informazione.
La repressione delle attività all’aperto è anche in aperto contrasto con le raccomandazioni dei medici. L’Oms stessa ha insistito molto sull’importanza di uscire a fare attività fisica o passeggiare, da un lato per avere cura anche della propria salute mentale, dall’altro perché il virus si diffonde moltissimo in luoghi chiusi e affollati, ma molto poco all’aria aperta. Come ha chiarito Ernesto Burgio, questo si capisce semplicemente pensando che, se il virus circolasse significativamente all’aria aperta, saremmo stati tutti infettati. Come stona tutto questo di fronte all’incentivo di 100 euro garantito a chi sceglieva di recarsi al lavoro nonostante le misure di contenimento.
Oltre al serrato controllo poliziesco delle uscite di casa, il principale sforzo del governo si è concentrato sulle misure per sostenere l’economia nazionale, inaugurate con il decreto Cura-Italia del 17 marzo. Il decreto è stato diviso in 5 titoli, ciascuno per un diverso ambito bisognoso di copertura economica: la sanità, il lavoro, la liquidità alle imprese attraverso le banche, misure fiscali per imprese e famiglie, e ulteriori disposizioni di semplificazione e differimento di termini burocratici.
In realtà fin dalle dichiarazioni precedenti appariva come la principale preoccupazione del governo fosse garantire liquidità alle imprese, e che il timore per il destino lavoratori fosse molto meno acuto, come si scopre andando a leggere il decreto nel dettaglio.
Per prima cosa sono stati previsti fino a 350 miliardi di garanzie per i prestiti alle imprese. Il governo ha dunque garantito con prontezza il sostegno alla liquidità e la semplificazione dell’accesso al credito. Per i lavoratori sono state previste l’estensione dell’integrazione salariale, come la Cassa Integrazione, e il Fondo di Integrazione Salariale: il lavoratore percepisce solo una percentuale dello stipendio, e comunque non oltre i 1100 euro. La quota viene garantita dallo Stato invece che dall’azienda, che risparmia almeno parte dei salari. A ben vedere la misura è dunque di sostegno alle imprese. Le altre misure di sostegno al lavoro comprendevano congedo parentale o il bonus baby-sitting per i lavoratori ancora attivi, configurandosi quindi come misure di sostegno alle famiglie, più che al lavoro. Le uniche misure di sostegno ai lavoratori vere e proprie sono state un incremento di 12 giorni di permesso retribuito e l’equiparazione della quarantena alla malattia retribuita. Infine il governo ha disposto maggiori risorse per i sussidi già previsti in regime ordinario, come disoccupazione e reddito di cittadinanza.
La contraddizione tra gli interessi delle imprese e dei lavoratori emerge naturalmente, se si pensa che la politica, dando seguito alle richieste delle imprese, ha danneggiato i lavoratori. Essi sono stati messi prima nella condizione di non poter salvaguardare la propria salute, costretti proprio dagli imprenditori strenuamente difesi dal governo a presentarsi al lavoro in luoghi in cui il virus può proliferare facilmente. Poi sono stati forzati per decreto a rinunciare ad una parte del proprio reddito, per salvare gli interessi di quegli stessi datori di lavoro. Gli scioperi spontanei testimoniano benissimo questo stato di cose, così come le gravi difficoltà economiche spiegano bene i casi di furti nei supermercati.
L’8 aprile è poi seguito il decreto Liquidità per garantire ulteriore liquidità alle imprese, che ha predisposto ulteriori 400 miliardi di garanzie pubbliche, metà per il mercato interno, metà per l’export. Cifre che ridicolizzano i 3.6 miliardi predisposti per la Cassa Integrazione e mostrano molto chiaramente quale sia il referente politico del governo, nonché dell’opposizione, se si considera per esempio il festival delle cifre (prima 20, poi 50, poi 30 miliardi) chieste per le imprese da Salvini a inizio Marzo.
Per l’uscita dall’epidemia si parla in questi giorni di tre fasi: 1) il lockdown, 2) una fase di convivenza con il virus, e 3) il superamento dell’emergenza con l’arrivo del vaccino.
Coi contagi in lento calo, si dibatte molto della fase 2, con la fase 1 prorogata intanto fino a maggio. Si parla di riaperture graduali delle attività produttive e commerciali, per esempio le librerie e i negozi per bambini sono già stati riaperti, pur nell’impossibilità di andarci, dato che l’autocertificazione non si può compilare per andare in libreria.
In realtà moltissime aziende hanno già riaperto le attività, cambiando prontamente il proprio codice Ateco, sulla base quale viene stabilita la loro appartenenza o meno ai servizi essenziali, oppure autocertificando di servire una filiera essenziale. In entrambi i casi senza suscitare quasi nessuna resistenza da parte dei prefetti. In questi giorni, mentre prosegue la colpevolizzazione dei runner, mentre viene spettacolarizzato l’apparato d’ordine che li controlla e li reprime, già molti sono tornati al lavoro e sempre più ci ritorneranno nelle prossime settimane. Fino alla fine ufficiale del lockdown.
22/4/2020 https://quaranteina.wordpress.com
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