COP 26: classi dirigenti e crisi climatica

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1. Per valutare i risultati della Conferenza COP 26 non credo si debbano utilizzare criteri quali ‘successo’ e ‘fallimento’, in quanto segno di subalternità culturale prima ancora che politica, perché questo sottintenderebbe l’auspicio e la speranza che essa prendesse decisioni atte a contrastare i cambiamenti climatici. Lo svolgimento e i risultati della COP 26, come quelli delle altre conferenze internazionali, vanno piuttosto utilizzati per decifrare intenzioni e piani delle classi dirigenti delle potenze capitalistiche, e i loro conflitti.

Le potenze capitalisti- che – dagli USA alla Cina al Giappone, all’India e Unione Europea – diversificate per sistemi politico-istituzionali, sono tutte guidate da logiche di difesa e supremazia delle rispettive imprese, poste oggi di fronte alle sfide dell’innovazione tecnologica e della riorganizzazione delle filiere produttive per conquistare posizioni dominanti nella nuova divisione mondiale del lavoro. Ancora una volta nella storia dei capitalismi, economia e geopolitica vanno a braccetto per mantenere la sicurezza dei e nei propri confini, proteggere le proprie ‘imprese-campioni’, instaurare il controllo delle più vaste possibili aree geografiche in modo da dare stabilità alle filiere produttive e garantire i flussi di materie prime e mercati di sbocco per le proprie merci. COP 26 è un buon osservatorio per decifrare le dinamiche delle classi dirigenti, in una fase storica che le vede impegnate in processi di ‘distruzione creatrice’ (J. Schumpeter), vale a dire in un cambiamento di paradigma produttivo indotto dalla crisi ambientale, a partire da quella climatica che espone le società capitalistiche a rischi catastrofici. Voglio ribadire – l’ho scritto sul numero 1 di “Quistioni” – che le forze capitalistiche, imprenditoriali e politiche, nella ormai lunga crisi indotta dalle alterazioni climatiche, e in questo frangente storico dalla pandemia da COVID 19, si ergono ancora una volta a guida per trasformare il paradigma produttivo, per costruire nuovi equilibri tra le classi e per contenere la crisi ambientale. Affermare che le classi dirigenti non vanno oltre il ‘bla bla bla’, significa sottovalutare la loro capacità egemonica anche in questo drammatico tornante della storia dell’umanità; semmai sono le forze dell’alternativa al capitalismo in preda al “bla bla bla”.

Innanzitutto le classi dirigenti continuano a imporre la centralità dell’impresa e del mercato, in quanto è loro tramite che intendono rispondere alla crisi climatica, così come il Big Pharma è stato eretto ad attore protagonista per contrastare il COVID 19.

Le classi dirigenti, non potendo più negare che i sistemi di produzione e riproduzione capitalistici hanno determinato la crisi climatica, l’attribuiscono genericamente al ‘sistema industriale’ e alle diverse ‘rivoluzioni industriali’, non dunque a questo modo di produzione specificamente capitalistico; per questo esse si sentono legittimate a decidere tempi e modi dell’innovazione produttiva e del salto di paradigma energetico, necessari per non innalzare il riscaldamento del Pianeta oltre 1,5 gradi rispetto ai tempi precedenti la prima rivoluzione industriale. A mobilitarsi è innanzitutto la finanza, il ‘quartier generale’ del capitalismo (J. Schumpeter), chiamata a fornire le risorse per salvaguardare e mettere in sicurezza i sistemi capitalistici, e con essi, ma dopo di essi, le società umane, vale a dire otto miliardi di persone, e questa che è l’unica Terra.

2. Parlare di ‘distruzione creatrice’ non è uno slogan, sintetizza invece intenti e azioni delle classi dirigenti. Per gli intenti basta richiamare il Rapporto Reviving and Restructuring the Corporate Sector Post-Covid del G30 del dicembre 2020, che pur finalizzato a proporre una strategia per superare la crisi pandemica, può ben essere assunto come la ‘strategia generale’ per affrontare anche quella climatica. Scrivono Mario Draghi e Raghuram Rajan, nella premessa, che l’intervento dei governi deve essere indirizzato verso i fallimenti del mercato e la gestione del “ritmo della necessaria distruzione creativa”, indispensabile quest’ultima per selezionare le imprese da assistere e quelle da lasciare fallire.

Che queste indicazioni non siano un ‘bla bla bla’, ma la base delle scelte delle politiche pubbliche lo si può verificare leggendo, per esempio, l’intervento di Fabrizio Balassone della Banca d’Italia che ha invitato proprio Mario Draghi, ora alla presidenza del governo italiano, a non “disperdere risorse su imprese che non sono in grado di realizzare i cambiamenti necessari ad affrontare la difficile fase di transizione che stiamo attraversando” (Audizione del 23 novembre 2021, V Commissioni riunite Camera-Senato sulla legge di bilancio). Infatti la legge di bilancio italiano 2022 funge da supporto al PNRR che concentra le risorse nella transizione energetica, nella digitalizzazione, e nelle infrastrutture. E scelte simili sono state adottate dalla maggior parte dei governi, come si può verificare leggendo i Draft Budgetary Plans per il 2022 dei ventisette Stati membri dell’UE, che sono analoghe a quelle compiute dall’Amministrazione Biden con il piano Building Back Better e con The Infrastructure Investment and Jobs Act, varato il 15 novembre 2021.
Il ruolo della finanza nella “transizione verde” è chiaramente descritto da Mark Carney in un discorso del 27 febbraio 2020, quando, nella veste di Governor of the Bank of England, chiamò la finanza privata a concentrarsi sui rischi e le opportunità della transizione climatica, la quale richiedeva che ogni azienda, banca, e investitore aggiustasse il suo modello di business.

Durante i lavori di COP 26 Mark Carney, attualmente UN Special Envoy for Climate Action and Finance, ha riunito nella Glasgow Financial Alliance for Net Zero le banche, le assicurazioni e altre istituzioni finanziarie impegnate a spostare il centro delle loro attività nelle imprese che si prefiggono l’obiettivo di ‘produzioni sostenibili’. Al Climate Finance Event Mark Carney ha messo in risalto “il cuore del messaggio”, consistente nel fatto che oggi “la moneta c’è, è là per la transizione, e non è un bla bla bla”.

La community business ha risposto per bocca di Günther Thallinger, di Allianz, esprimendo l’adesione alla Glasgow Financial Alliance e sottolineando che l’impatto climatico deve essere integrato nel processo decisionale delle istituzioni finanziarie; Audrey Choi, di Morgan Stanley, a sua volta, vede in atto una vera svolta poiché “noi stiamo creando letteralmente una nuova industria dando priorità all’azione climatica”.

3. Tutto fila liscio nelle file delle classi dirigenti? Così non è, non solo perché fino a poco tempo fa a menar le danze era Trump, cieco di fronte ai cambiamenti climatici tanto da ritirarsi dall’Accordo di Parigi; tuttavia anche senza Trump la via per la transizione verso economie capitalistiche a zero emissioni è lastricata da ostacoli. Infatti a Glasgow è emersa un’aspra conflittualità sui tempi e sui costi della transizione, che si è riflessa nella stesura del punto 20 della Dichiarazione finale. Non a caso le espressioni divenute simbolo della COP 26 sono due verbi: to phase out to phase down. Cina e India hanno imposto che la produzione energetica da fonti fossili, specificamente il carbone, fosse ridotta (phased down), ma non eliminata (phased out). Dunque tra potenze capitalistiche è aperto un conflitto su tempi e costi della transizione (i famosi cento miliardi annui che chiedono i Paesi del Sud del mondo, o addirittura i mille miliardi chiesti dalla sola India), e rimane duro lo scontro sulle stesse fonti energetiche, che continueranno a essere di origine fossile anche nella fase di transizione visto che accanto al carbone, utilizzato dalle centrali cinesi e indiane, si farà ricorso massiccio al gas da parte di tutti i paesi.

La “Dichiarazione Cina-USA”, rilasciata durante la COP 26 il 10 novembre, con le sue generiche enunciazioni non riesce a nascondere lo scontro per l’egemonia geopolitica, a partire dal Pacifico, e l’aspra competizione economica nel campo dell’innovazione tecnologica, delle risorse minerarie a questa necessarie, della riorganizzazione delle filiere produttive e dei mercati di sbocco. Conflitto e cooperazione si alterneranno nelle relazioni tra Cina e USA.

A Glasgow si sono riproposti trasversalmente, oltre ai conflitti tra grandi potenze e/o aree economiche, anche quelli tra imprese. Caso esemplare di quest’ultimo conflitto è la transizione verso la mobilità elettrica. Il 10 novembre è stata emessa una Declaration on Accelerating the Transition to 100% Zero Emission Cars and Vans, per mettere fine alla produzione di auto con motore termico entro il 2035, tuttavia grandi costruttori quali Volkswagen, Toyota, Stellantis, BMW, Renault, Nissan, Honda e Hyundai/Kia, e paesi quali USA, Cina, Germania, Francia, Italia non l’hanno firmata. Chi non l’ha firmata, pur condividendo l’obiettivo della neutralità carbonica, vuole un approccio basato sulla neutralità tecnologica, perché, insieme all’ e-mobility, lo afferma Matthias Wissmann (della banca d’investimento Houlihan Lokey), esistono altre soluzioni come il motore a combustione con benzina sintetica (“Il Sole 24 Ore”, 18 novembre 2021). In questa posizione traspare inoltre il timore che un’accelerazione della transizione a zero emissioni sia pregiudizievole per la tenuta dell’intero comparto dell’automotive. Analoghe preoccupazioni sono state avanzate da Claudio Descalzi, CEO dell’ENI, un altro convinto sostenitore della neutralità tecnologica, perché a suo avviso occorre servirsi di tutti i mezzi utili per giungere alla produzione energetica a zero emissioni, non ricorrendo solo alle fonti rinnovabili. Vanno lasciate alle imprese le decisioni sulle tecnologie, che nel campo energetico Descalzi individua anche nella cattura di CO2 con il sequestro nei giacimenti esausti, nelle bioraffinerie e nella fusione nucleare (“Corriere della Sera”, 14 novembre 2021).

Come si evince da queste dichiarazioni, le imprese vogliono essere i “decisori” di come attuare, e di quando giungere alla neutralità carbonica dell’economia; i capitalisti non vogliono vedere intaccate le loro prerogative di comando sull’uso delle risorse, fondamentale per la realizzazione di profitti. A ulteriore testimonianza di questa linea, si può ricordare la Dichiarazione di Confindustria, MEDEF e BDI del 10 novembre 2021, che “in primo luogo” chiede di “promuovere processi di decarbonizzazione che salvaguardino la competitività delle nostre aziende”, con una “implementazione e tempistiche adeguate del pacchetto Fit-for-55”. A questo fine spetta alle istituzioni europee varare ‘un quadro normativo che fornisca certezza giuridica, promuova la competitività, sfrutti il potenziale di innovazione e sostenga il progresso tecnologico’.

Le imprese si rifanno alla vecchia massima “primum vivere deinde philosophari”: prima occorre perseguire la profittabilità, e in funzione di questa compiere le scelte per la decarbonizzazione; al primo posto deve esserci la competitività e in funzione di questa vanno realizzate azioni per la salvaguardia della vita della Terra. Ricorrendo alla terminologia di K. Marx si può sostenere che nei sistemi capitalistici la riproduzione sociale, comprensiva del ricambio organico natura-esseri umani, è in funzione della produzione delle merci; usando la terminologia di ambientalisti quali N. Georgescu-Roegen e G. Nebbia si può affermare che i cicli vitali naturali, incluso quello degli esseri viventi, è infunzione dell’accumulazione del capitale. (pubblicato sul numero 3 di “Quistioni”)


Franco Russo ha partecipato al movimento ita- liano del 1968. Nel 1976 ha partecipato alla costruzione di Democrazia Proletaria. Ha contribuito a costruire percorsi rossoverdi. Come membro di Rifondazione Comunista, ha partecipato al Forum Sociale Europeo e alla Carta dei principi dell’altra Europa. È stato deputato al Parlamento italiano. Ora è attivo in associazioni che si occupano di democrazia costituzionale, diritto del lavoro e Unione Europea.

https://www.sulatesta.net

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