Coronavirus: è una crisi, non un’emergenza

Lo stato di emergenza provocato dal Covid-19 si appresta a diventare normalità. Passata la paura, come si dice, o perlomeno il panico, è tempo di analizzare la risposta politica alla nuova ondata epidemica.

C’è chi sostiene che stiamo assistendo al ripetersi di un paradigma già noto, buono per ogni stato d’eccezione che la contemporaneità mette in essere, non giustificato sul versante sanitario e dunque arbitrario. C’è chi invece pensa che gli elementi di preoccupazione siano ancora concreti e il ritorno alla quotidianità prematuro, ma sia stato imposto da una politica ostaggio del capitalismo neoliberista per fame di profitto. E c’è chi, come Donatella Di Cesare, analizza il cortocircuito tra stato d’eccezione e paura del contagio – altro elemento della governance moderna, come Di Cesare ci ricorda nel numero di Jacobin Italia in uscita il 5 marzo – in un mondo in cui le «democrazie immunitarie», sempre pronte a osteggiare presunti agenti esterni portatori di disordine, sono oggi scosse da un’epidemia non più immaginaria, ma reale, e dunque imprevedibile.

Capire il presente guardando al passato

Le epidemie, però, sono fenomeni estremamente complessi, e il rischio, a lanciarsi in giudizi affrettati, a dire «è bene, è male» con assoluta convinzione, è che si faccia peccato, ma senza azzeccarci. Per chi osserva le cose da un punto di vista storico, l’andirivieni frenetico tra allarmismo apocalittico e successiva minimizzazione non sorprende, così come non sorprendono la schizofrenia politica di questi giorni e l’affastellarsi di misure e contromisure spesso contraddittorie. Quando si parla di gestione politica delle epidemie, infatti, cambiano le epoche, cambiano le malattie, ma i problemi che la società deve affrontare sembrano sempre gli stessi.

O per lo meno, questo è quello che emerge dalla lettura delle ordinanze, dei decreti, delle corrispondenze tra le Magistrature di Sanità del nord Italia, nate quando le epidemie ad alto tasso di mortalità diventarono il pane quotidiano dell’Europa moderna: un pezzo di quella costruzione dello statuto politico della medicina di cui Michel Foucault ha tanto parlato, e a ragione,ma anche della costruzione del sistema sanitario nazionale di cui oggi andiamo così fieri e di cui rivendichiamo, giustamente, la necessità.

Studiando gli archivi emergono alcune analogie interessanti con la situazione odierna; e non sto parlando di psicologia di massa, che pure ha un suo peso, ma della gestione amministrativa di territori e risorse. In caso di epidemia, ad esempio, ieri come oggi il sistema sanitario entra in sovraccarico e l’assistenza ordinaria ai malati viene fortemente compromessa. La severità delle misure profilattiche induce la popolazione a una disobbedienza disperata e controproducente, con fuggiaschi dalle quarantene che diffondono il contagio senza controllo; le stesse misure, per quanto necessarie, risultano quasi sempre troppo dure sul medio periodo, finendo col peggiorare la situazione. I danni economici sono di norma un assillo pressante, perché indeboliscono la capacità di risposta dei singoli e delle collettività, debilitandole ulteriormente ed esponendole ancora di più al contagio. In questo senso, la diplomazia internazionale necessaria a preservare i flussi commerciali spicca come elemento ricorrente, accanto all’altro grande problema extra-sanitario legato allo scoppio di un’epidemia: la gestione dell’ordine pubblico. L’aumento dei crimini, in particolare truffe e sciacallaggi, si accompagna all’inasprimento della repressione per chi non rispetta le indicazioni sanitarie, e fra le voci di spesa in tempo di peste la forza pubblica conquista il podio a fianco di viveri e personale.

Anche i singoli provvedimenti, oggi come ieri, possono dare esiti disparati a seconda di fattori non sempre prevedibili, e misure identiche risultano utili in un caso e dannose in un altro: basti pensare all’odissea della Diamond Princess, esempio lampante di come le quarantene possano agevolare anziché ostacolare il diffondersi della malattia.

Il ricambio di personale medico e chirurgico, il più esposto e il più colpito in caso di epidemia, si accompagna all’assenza di strutture sanitarie adeguate a gestire il flusso crescente di malati, come sta avvenendo adesso nella pur ricca Lombardia. Questo genera, nella maggioranza dei casi, conflitti tra autorità politica e autorità sanitaria, o conflitti interni alle autorità sanitarie stesse e tra autorità politiche centrali e locali: nei documenti dei secoli scorsi si trovano frequenti tracce di astiosi rimpalli di accuse tra Magistrature diverse che tentano di scaricare l’una addosso all’altra l’onere di corrispondere alle necessità dei neonati Ospedali, sulla falsariga della polemica tra stato e regioni, tra Giuseppe Conte e Attilio Fontana, che ha brevemente occupato le cronache degli ultimi giorni.

A scorrere questo elenco la faccenda appare a dir poco mutevole e ingarbugliata; e malgrado i secoli a disposizione, sembrerebbe che non abbiamo imparato poi molto in ambito di gestione delle conseguenze politiche e sociali di un’epidemia. Ma c’è anche un altro fattore che di solito interviene a complicare ulteriormente il quadro. Per emanare provvedimenti corretti, che tengano conto di tutti gli elementi sopra citati, oggi come ieri le autorità pubbliche si affidano al giudizio medico. Un giudizio, tuttavia, che può essere esso stesso parziale, passibile di precisazioni e correzioni in corso d’opera o, più semplicemente, sbagliato. La medicina è un’arte più che una scienza, e anche se i dati che ha a disposizione sono insoddisfacenti, lacunosi e incerti, è costretta comunque a fare qualcosa per curare il paziente. La cura migliore è sempre quella che funziona, il perché ci sarà tempo di capirlo a paziente guarito: questa è la sua inevitabile logica.

Dibattiti, errori e progressi

I dibattiti tra specialisti sono dunque un altro dato ricorrente e quasi inevitabile: è peste sì, è peste no, sono solo febbri, non c’è nulla da temere, quarantena per tutti. In molti casi la prudenza è risultata, fortunatamente, eccessiva. Ma esistono anche esempi opposti.

Un errore famoso, ad esempio, per restare nei pressi del nord Italia, fu quello commesso dal romagnolo Girolamo Mercuriale, medico illustre e star del settore, nel diagnosticare l’epidemia di peste nella Venezia del 1575. In un periodo in cui la peste era endemica (cioè latente e pronta a esplodere ancora), Mercuriale e altri esimi colleghi vennero invitati dalle autorità veneziane a valutare alcuni casi sospetti apparsi nel territorio cittadino. Il Doge e i suoi sodali sapevano bene che emanare dazi e quarantene avrebbe gettato nel panico una popolazione relativamente sana, e avrebbe rappresentato un disastro economico per una repubblica marittima e commerciale come la Serenissima. Per questo, un po’ come fa oggi Luca Zaia tirando in ballo Roberto Burioni, chiamarono i luminari più in voga per chiedere un parere scientifico sul da farsi, delegando a loro una decisione scomoda e impopolare. Tra i medici c’erano opinioni discordanti; ma Mercuriale, il più famoso di tutti, negò fermamente si trattasse di peste, e venne creduto.

Si sbagliava. La peste arrivò e, senza forme di contenimento in atto, invase Venezia sterminando un terzo della popolazione: fu l’epidemia più pesante della storia della città. Mercuriale perse le faccia e fu costretto ad ammettere il suo errore, sebbene controvoglia e mai del tutto.

Le liason tra medici famosi ed esponenti politici sono dunque storia antica, con esiti alterni a seconda della stoffa dei protagonisti. Ma non tutti gli abbagli vengono per nuocere; a volte persino le idee più bislacche e i conclamati errori si possono rivelare utili. Il famigerato costume da medico della peste, oggi buono soltanto per il Carnevale, aiutava davvero i medici a proteggersi dal morbo, ma non per i motivi ipotizzati: non erano infatti i profumi e le erbe contenute nel becco a scacciare i vapori pestiferi, ma la lunga tunica a tenere lontane le pulci, vere responsabili della diffusione del contagio, che non potevano infestare la tela cerata di cui era fatta, scivolando via. Il costume funzionava, dunque, anche se per motivi insospettabili e sconosciuti.

Questo piccolo esempio ci aiuta a capire come funziona il progresso in campo medico. In epoca di scientismo imperante siamo propensi a giudicare la medicina come infallibile, mentre si nutre di sbagli e paradossi. C’è sempre, quando si tratta di fenomeni nuovi, una mistura di errore ed esattezza che solo il tempo può correggere. Il fatto che gran parte del protocollo profilattico messo a punto nel Cinquecento (quarantene, bandi, test su larga scala, cordoni sanitari, e financo levare l’acqua dalle acquasantiere) sia stato diffusamente utilizzato per contrastare l’odierno Covid-19 ci mostra che la scienza medica ha fatto sì passi da gigante, ma quando il nemico è invisibile e sconosciuto e soprattutto estremamente veloce l’allerta è massima perché l’errore è sempre in agguato – nel bene e nel male.

I limiti dell’eccezione

Uno dei princìpi più noti di Ippocrate è che «i rimedi non dovrebbero essere più aspri dei mali», e man mano che la malattia si svela nella sua avanzata riusciremo, si spera, a calibrare meglio anche la cura, cioè a proteggere la salute dei cittadini senza ammazzarli con altri mezzi – per esempio privandoli delle libertà civili o distruggendoli economicamente. Ma le principali critiche mosse alle misure adottate in questi giorni per contrastare il contagio non riguardano tanto la loro efficacia, quanto problemi e disparità vecchie e già presenti, che l’epidemia non sta facendo altro che esacerbare.

Gli attacchi al diritto sindacale, l’invasione della privacy, le diseguaglianze tra lavoratori autonomi e dipendenti, la militarizzazione del territorio e dei centri urbani, le zone rosse e così via. Sono tutte cose che non scopriamo oggi; ed è bizzarro sorprendersi all’idea che non spariranno a emergenza finita. Così come è chiaro, invece, che la biopolitica medicalizzante che si vorrebbe totalitaria sta mostrando in questa occasione dei limiti ben evidenti, nell’incapacità del potentissimo panopticon globale di frenare l’avanzata dell’epidemia – da cui gli inquietanti inviti ad ampliare gli strumenti di sorveglianza per illuminare un cono d’ombra che evidentemente persiste.

L’epidemia è qui per restare: più che a un’emergenza, siamo di fronte a una crisi di medio periodo. E allora, forse, anziché cercare di capire chi ha ragione, chi ha torto, chi ce l’ha avuto prima e chi di più, dovremmo concentrare gli sforzi nell’indirizzare la gestione di questa crisi su binari che ci permettano una convivenza con la malattia se non serena, almeno sensata, tenendo presente che una certa schizofrenia è inevitabile, senza per questo rinunciare alla vigilanza e alla critica. Ma soprattutto dovremmo accompagnare e sostenere i medici e i ricercatori nei loro sforzi per comprendere e contrastare la malattia, esigendo da subito copiosi finanziamenti pubblici per la sanità statale e precettando il settore privato. È anche l’occasione giusta per affinare le risposte pubbliche e comunitarie alle crisi in generale, che risultano ancora inspiegabilmente povere se non punitive sul piano sociale – il terreno su cui le epidemie fanno da sempre i danni peggiori nel medio e nel lungo periodo.

Quando avremo elementi più certi su questa epidemia? Probabilmente fra qualche mese. E se il Covid-19, come alcuni ipotizzano, dovesse diventare endemico, saranno dati importanti per capire le strategie di contrasto al virus negli anni a venire. Su questo versante siamo in mano ai medici. Tutto il resto, come al solito, sta a noi.

Gaia Benzi

Attivista e ricercatrice di letteratura italiana. Ha scritto per Micromega, Dinamopress, CheFare e Nazione Indiana.

3/3/2020 jacobinitalia.it

 

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