Così Eni ed Enel puntano al Recovery Fund

A chi chiedere consigli «sull’individuazione delle priorità nell’utilizzo del Recovery Fund», così come recita il titolo dell’incontro svoltosi a Montecitorio? A Eni ed Enel, ovviamente, sentite nell’audizione informale che si è tenuta lo scorso 8 settembre presso la nuova aula dei gruppi parlamentari. «In questi tempi così sciagurati e cupi è una boccata d’ossigeno ascoltare due eccellenze italiane che prospettano un futuro di qualità», balbetta un po’ pure il deputato Stefano Fassina, eletto con Sinistra Italiana e poi fondatore del movimento politico Patria e Costituzione, per cui è del tutto legittimo che la commissione bilancio della camera si rivolga a Carlo Tamburi, amministratore delegato di Enel Italia, e Lapo Pistelli, direttore degli affari pubblici di Eni, per immaginare un efficiente utilizzo dei 209 miliardi di euro che l’Europa, tra sussidi e prestiti, mette sul piatto per favorire la ripresa economica dell’Italia. 

Altro che discontinuità, già la scelta degli ospiti – a essere ascoltate sono le grandi aziende partecipate dallo stato, compresa Cassa depositi e prestiti che tra l’altro è il maggior azionista di Eni – fa intuire che si mira a  quella valanga di soldi per qualche inevitabile aggiustata al presente e nulla più. Un rafforzamento del sistema, insomma, all’insegna di slogan come «transizione ecologica» e «rivoluzione digitale»; parole che, mutuate dai movimenti sociali e ambientali, sono i mantra del nuovo greenwashing da parte di chi dà un prezzo a tutto, anche all’inquinamento. Un incontro che avviene mentre il premier Giuseppe Conte alla festa dell’Unità riceve applausi quando, a domanda precisa sul Recovery Fund, dichiara che «non sono qui per ascoltare qualche lobby, mi sentirò appagato solo quando li avremo spesi tutti». 

E intanto, sempre l’8 settembre, Legambiente stigmatizza una serie di emendamenti presentati dal senatore del Partito democratico Stefano Faenza che intendono ridurre al 3% i canoni a carico delle società estrattive di idrocarburi per lo sfruttamento delle concessioni e semplificazioni procedurali per la cattura e lo stoccaggio dell’anidride carbonica (ci torneremo): due regali mica male al cane a sei zampe. 

La cornice generale, insomma, è un po’ più complessa rispetto all’entusiasmo manifestato da Fassina, intento ad affermare che «il settore pubblico non è un carrozzone ma può essere fonte di innovazione». Quali sono stati questi messaggi così portentosi espressi, in una decina di minuti a testa, dalle due più grandi multinazionali energetiche italiane? 

Partiamo da Enel. Tamburi, che guarda caso negli anni Novanta all’Istituto di Ricostruzione Industriale (Iri) figurava come «responsabile dei processi di privatizzazione delle grandi aziende pubbliche», punta sui dati, consapevole che l’Ente Nazionale per l’Energia elettrica è molto più avanti, rispetto all’Ente Nazionale Idrocarburi, nel processo di transizione energetica. «Al 2019 siamo il più grande operatore delle rinnovabili» dichiara soddisfatto l’ad, per poi aggiungere che sempre l’anno scorso «Enel ha prodotto poco più della metà della propria energia dalle rinnovabili (il 52%) rispetto alla generazione termica». Più in generale, sulla crisi climatica in atto Tamburi ribadisce la stella polare degli obiettivi sanciti dal Pniec, il Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima che il ministero dell’Ambiente ha pubblicato lo scorso gennaio e che non è per nulla esente da critiche. La più grave pandemia degli ultimi cento anni, in ogni caso, non fa gettare il cuore oltre l’ostacolo a Enel, che sostanzialmente si limita a ribadire il proprio percorso, senza indicare nuove finalità né tantomeno suggerire altre produzioni ecosostenibili o, più radicalmente, modificare modello di sviluppo. Come al solito, la crisi per le aziende è un altro modo per perpetuare sé stesse o, meglio, «un’opportunità», come definisce il manager il decreto legge Semplificazioni in discussione alla Camera. In Italia Enel ha infatti una serie di partite aperte: a Fusina (Venezia) si attende la riconversione a gas della centrale a carbone, idem a Brindisi e La Spezia. Si mira cioè a dismettere tutti i vecchi e più inquinanti impianti entro il 2025, in un’ottica di «mix tra rinnovabili e gas» ma, sottolinea ancora Tamburi, «se le autorizzazioni non arriveranno subito gli obiettivi non saranno raggiungibili». Nessuno però in quell’aula ha fatto notare che il passaggio dal carbone al gas significa comunque una riconversione da una fonte fossile a un’altra. Se è vero che il carbone è più inquinante del gas, è ancor più innegabile che il paradigma di produzione resta uguale. Furba, questa transizione energetica, e ben poco ecologica. 

Ancora più esplicita, nella riproposizione dei soliti modelli di produzione con una spruzzata di millantata attenzione al nuovo sentire ambientale, è Eni. Prima però vale la pena soffermarsi un attimo sulla figura del designato da parte del cane a sei zampe: Lapo Pistelli è infatti un ex renziano di ferro che nel 2015 lascia l’incarico di viceministro agli esteri nel governo Gentiloni per diventare un dirigente a sei zampe. Forse proprio in virtù dei suoi trascorsi politici Pistelli è più esplicito del felpato Tamburi. «Il Recovery Fund nasce da una tragedia ma rappresenta un’opportunità pazzesca e incredibile per il nostro Paese» è il suo esordio. L’ex numero due della Farnesina fa fatica a trattenere l’entusiasmo. «Negli ultimi decenni Eni ha vinto insieme all’Italia la sfida della sicurezza energetica, ora puntiamo molto sul gas naturale e sul network di servizio», aggiunge poi, vale a dire ancora fonti fossili e una presenza maggiore sul mercato dell’energia elettrica e delle stazioni di servizio. «Da qui al 2050 c’è da fornire a 9 miliardi e mezzo di persone energia pulita e sostenibile, senza compromettere la temperatura del Pianeta»: così Pistelli sintetizza gli obiettivi futuri, che necessitano evidentemente del Recovery Fund. Così come Enel, anche Eni al parlamento illustra proposte alle quali sta lavorando da tempo, ovvero la cattura e lo stoccaggio del carbonio: il processo mira a separare la CO2 dalle altre emissioni durante il ciclo di combustione, catturare il più noto dei gas serra ed eventualmente riutilizzarlo in altri cicli produttivi, ad esempio con le alghe o la conversione a metanolo per produrre idrogeno – va comunque specificato che in questo caso si è ancora nella fase di ricerca. «Noi abbiamo l’opportunità dei giacimenti esauriti di gas offshore a Ravenna, che può diventare il più grande hub del mondo, dove si potrebbero stoccare anche i gas di Slovenia e Croazia» afferma ancora Pistelli. 

Pare difficile che la Commissione europea, e ancor di più i singoli stati membri, possano approvare un progetto così ambizioso che sostanzialmente non schioda Eni dal core business delle fonti fossili, e si limiterebbe a consegnare un prodotto «decarbonizzato» che però mantiene in vita tutta la filiera Oil&Gas. Il progetto ha in ogni caso avuto già il benestare del premier Conte, e la presentazione alla commissione bilancio è solo un ulteriore passaggio dell’attività di lobbying di Eni, con Pistelli che cita anche l’emendamento a firma Pd nel dl Semplificazioni «grazie al quale il progetto potrà partire» e la contemporanea candidatura al primo bando del Fondo per l’innovazione europeo. Come a dire che l’Europa dovrà metterci i soldi e l’Italia dovrà pensare alle autorizzazioni. Facile fare impresa in questo modo. Infine il cane a sei zampe mira ad altre leggi ad hoc, sempre nell’ottica della transizione energetica, s’intende, come l’ipotesi di un obbligo normativo per i mezzi pesanti (camion e aerei) a utilizzare parte dei biocarburanti prodotti nelle ex raffinerie di Gela e Porto Marghera. Peccato che si tratti di biocarburanti che sono alimentati con olio di palma proveniente dall’Indonesia (Gela) o deriveranno dalle nuove coltivazioni di olio di ricino in Tunisia (ancora Gela) o sono stati già multati, per pubblicità ingannevole nella sua componente biodiesel, dall’Autorità Garante per la Concorrenza e il Mercato. «Siamo qui per presentare progetti immediatamente cantierabili» conclude Pistelli. Forse sta proprio qui il problema. Insieme a una classe politica che per cambiare il sistema intende affidarsi a chi l’ha ridotto così. Se sono queste le opportunità del Recovery Fund possiamo pure farne a meno. 

Andrea Turco

giornalista siciliano, scrive di ambiente e temi sociali.

12/9/2020 https://jacobinitalia.i

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