“Così le misure di prevenzione sono diventate strumenti incostituzionali di controllo sociale”
Intervista a Cesare Antetomaso di Giuristi democratici
“Misure di prevenzione personali: strumenti incostituzionali di controllo sociale”. E’ il tema al centro dell’assemblea pubblica (che si terrà lunedì 13 febbraio a Roma (ore 17, viale delle Province 198) nei giorni in cui la Corte d’appello è chiamata a decidere sui ricorsi presentati da due esponenti dei movimenti di lotta per il diritto all’abitare, Paolo Di Vetta e Luca Fagiano, colpiti dadecreti che dispongono nei loro confronti la misura della sorveglianza speciale.“
Today.it ha intervistato l’avvocato Cesare Antetomaso di Giuristi Democratici che, dopo un intervento introduttivo del professor Luigi Ferraioli, presiederà l’assemblea dove si analizzerà in maniera critica il moltiplicarsi di disposizioni amministrative e misure di sicurezza e prevenzione, dai fogli di via agli obblighi di dimora, dagli avvisi orali come primo passo verso la sorveglianza speciale fino alla sperimentazione del daspo di piazza, “dentro una trasformazione del diritto penale” spiega “che punta a criminalizzare chi dissente e a neutralizzare i conflitti sociali”.
Nel mirino della “giustizia preventiva”, negli ultimi anni, sono finite le lotte per la casa e contro il Tav e le grandi opere, i migranti e gli studenti, i lavoratori e i tifosi. Eppure misure come la sorveglianza speciale sono nate per contrastare la criminalità organizzata e chi era ritenuto “in odor di mafia”. La stortura democratica è apparsa all’improvviso, nascondendo dietro l’obiettivo di limitare le libertà dei “soggetti pericolosi” la volontà “di comprimere e di fatto negare diritti civili e sociali fondamentali”.
Avvocato Antetomaso, come Giuristi Democratici parlate chiaramente di incostituzionalità dell’intero sistema delle misure di prevenzione. La situazione, in Italia, è sfuggita di mano?
Da tempo la dottrina penalistica più avanzata vede nel diritto alla prevenzione il rischio di un “diritto punitivo del sospetto”, con l’elusione delle garanzie sostanziali e processuali. In pochi anni la “prevenzione” si è trasformata in uno strumento pregiudiziale di controllo e di limitazione delle libertà di movimento nei confronti di soggetti arbitrariamente bollati come socialmente pericolosi, giudicati pertanto non per un presunto reato ma per il loro stile e comportamento di vita, e per contenere e silenziare al contempo il disagio e il dissenso sociale.
Partiamo dai due casi che vi hanno portato a decidere di indire un’assemblea pubblica sul tema delle misure di prevenzione personali, quelli di Paolo Di Vetta e Luca Fagiano: quali sono le anomalie che avete riscontrato nelle sentenze che dispongono l’applicazione della sorveglianza speciale a carico dei due attivisti del movimento per il diritto all’abitare?
Come in molti altri casi di “sorveglianza speciale”, si è fondata una pretesa punitiva sul semplice sospetto di pericolosità, visto che i due dispositivi sono stati applicati sulla base di denunce per le quali, a parte pochi casi relativi a Paolo Di Vetta, non c’è poi stato alcun procedimento penale. Eppure si è deciso di limitare la loro libertà di movimento, di riunione e di manifestazione del proprio pensiero con una leggerezza, o una malizia, intollerabile dal punto di vista strettamente giuridico. Solo un regolare processo può stabilire, costituzionalmente, tali limitazioni: ma nel loro caso sono bastate delle denunce o delle segnalazioni per arrivare a limitare libertà garantite dalla Carta. Un esempio di stortura è quello che vede i due attivisti “sorvegliati” a seguito del non rispetto degli avvisi orali: ma l’avviso orale era nato come un avvertimento limitato nel tempo, di durata massima di tre anni. Ora, invece, è a vita. Si può essere puniti, oggi, per non aver rispettato un avviso orale anche di venti anni prima, facendo così, di fatto, dell’avviso orale uno strumento prodromico all’irrogazione di misure di prevenzione personali.
C’è stata una eccessiva passività da parte di dottrina e giurisprudenza nel valutare la portata di questi strumenti?
Facendo anche un po’ di autocritica, possiamo dire che la portata di queste misure è stata sottovalutata e oggi ne paghiamo le conseguenze. Si è pensato così che misure come la sorveglianza speciale fossero, in fondo, riservate solo a determinate categorie di soggetti, come chi è sospettato di contatti con la criminalità organizzata o a simpatizzanti di formazioni anarco-insurrezionaliste. Allo stesso modo si è pensato che le sperimentazioni messe in atto nei confronti degli ultras fossero, in fondo, limitate a una categoria di persone “socialmente scomoda” e in fondo limitata. In realtà, il campo di applicazione si è via via esteso e questi strumenti di giustizia preventiva, che col senno del poi ci si è resi conto essere incostituzionali anche per quei soggetti “scomodi”, hanno aperto una falla nel sistema giuridico volta a colpire qualsiasi categoria di “indesiderabili”. In tutto questo, si è perso di vista un dato molto semplice: è proprio l’impianto delle misure di prevenzione personali a non “reggere” a una lettura fedele ai principi presenti nella nostra Carta fondamentale. Perché anche laddove, nell’accertamento della pericolosità, si intendano privilegiare elementi fattuali e non meri sospetti, si compirebbe un esercizio astratto e meramente di principio: si acquisirebbero cioè elementi di fatto integranti veri e propri indizi, tali da far scattare il processo penale al posto del procedimento di prevenzione. Con la logica conseguenza della trasformazione delle misure da formalmente preventive a sostanzialmente repressive.
Le tesi difensive dei soggetti colpiti da misure come la sorveglianza speciale spesso denunciano una sorta di “pregiudizio politico” nei loro confronti. Avete, come Giuristi democratici, anche voi questa sensazione?
Questo è un discorso molto delicato, visto che stiamo analizzando, nel corso di un giudizio penal-preventivo, il ritorno a un diritto penale del “tipo di autore”, concetto tipico degli ordinamenti autoritari e quindi forse compatibile con l’attuale codice penale (la cui riforma ancora attendiamo invano) ma che fa a cazzotti con la Costituzione. Un concetto che viene da lontano, dalle leggi ottocentesche contro “oziosi e vagabondi”, prima ancora che dal codice Rocco di mussoliniana memoria. Dobbiamo constatare come nelle richieste recepite nelle sentenze da parte delle Questure troppo spesso venga fatto riferimento alla potenziale pericolosità dell’individuo. E se l’analisi della possibile pericolosità di un soggetto è importante nel corso di un’indagine, non può esserlo per irrogare misure di così drastica limitazione delle garanzie minime del vivere sociale, alla faccia della presunzione di non colpevolezza. Diversamente, si corre il rischio di fondare un giudizio prognostico solo sulla base di meri sospetti di pericolosità, e non sui fatti. C’è poi un altro elemento, che potremmo definire semantico, da analizzare: qui parliamo di persone “sorvegliate” ma, nei fatti, queste persone sono a tutti gli effetti “limitate” nelle loro libertà costituzionali. Ed è costituzionalmente inaccettabile che un cittadino possa essere “limitato” senza aver mai subito un processo. Quello che mi sento di dire è che oggi, in Italia, non è ancora in vigore il principio per cui qualsiasi “antagonista” è considerabile come soggetto pericoloso. Ma il rischio che questo assunto possa prendere sempre più piede, e sono i fatti a dimostrarlo, purtroppo esiste. E’ reale. In fondo abbiamo già sperimentato l’aggravante di “immigrazione clandestina” individuando soggetti intorno ai quali costruire un quadro di pericolosità sociale. Per fortuna poi la Corte costituzionale è intervenuta fermando il rischio di condannare in maniera più o meno pesante un individuo solo in funzione della valutazione che gli veniva affibbiata, in questo caso “immigrato clandestino”. Ora, però, siamo tornati a intraprendere la stessa strada: abbiamo smesso, nei casi della giustizia preventiva, di analizzare il comportamento degli individui, verificando le eventuali accuse in un regolare processo, e abbiamo iniziato a qualificarli e stigmatizzarli giuridicamente. Il risultato è che un “antagonista”, un “immigrato”, un “ultras”, oggi, in Italia, rischia di essere condannato a prescindere dal suo comportamento ma solo in quanto tale.
Daniele Nalbone
4/2/2017 da Today.it
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