Covid e crisi economica
L’ultimo cinquantennio ha conosciuto diverse crisi economiche. Nessuna di esse ha tuttavia evocato il paragone con la situazione post-bellica che sentiamo oggi spesso formulare a proposito della crisi succeduta alla pandemia di Covid-19. Si tratta di un paragone utile? Alcuni lo negano, rimarcando le differenze fra allora e oggi in termini di distribuzione dei costi: le guerre colpiscono tutti ciecamente, mentre la crisi economica odierna ha colpito in modo disuguale, penalizzando alcuni settori e alcune imprese e, con essi, alcuni lavoratori più di altri. Molti lo sostengono. Lo stesso Draghi nel discorso all’ultimo meeting di Comunione e liberazione a Rimini ha affermato che oggi “ci deve essere d’ispirazione l’esempio di coloro che ricostruirono il mondo, l’Europa e l’Italia, dopo la seconda guerra mondiale.”
In queste note, vorrei sostenere che il paragone è utile ma per una ragione trascurata sia da chi lo mette in discussione sia da chi lo sostiene. La ragione è che la situazione post-bellica rappresenta un esempio importante di impegno nel contrasto alle disuguaglianze economiche. Quell’impegno era cruciale allora e lo è anche adesso.
Gli oppositori del paragone chiaramente trascurano quella ragione perché assumono la sostanziale assenza del problema delle disuguaglianze nel mondo post-bellico. Ma nello stesso errore cadono coloro che sostengono quel paragone perché si concentrano soltanto sulla necessità, ora come allora, di una politica di investimenti pubblici; ma gli investimenti pubblici sono una parte, per quanto importante, delle politiche post-belliche. L’altra parte sono le politiche di contrasto diretto delle disuguaglianze economiche.
L’ultimo libro di Thomas Piketty, Capitale e Ideologia (La nave di Teseo, 2020) offre un aiuto prezioso per la ricostruzione dell’impegno post-bellico nella lotta alle disuguaglianze economiche. L’attenzione è concentrata su due politiche.
La prima politica, la più corposa, concerne la progressività delle imposte. All’inizio del ‘900, le aliquote sui redditi e patrimoni più alti erano ovunque a tasso proporzionale e tale tasso non superava, in media, il 10%. Nel dopoguerra, negli Stati Uniti, l’aliquota massima sui redditi delle persone fisiche salì all’82% e restò a quel livello per tutti gli anni ‘70. L’aliquota massima dell’imposta sulle successioni, anch’essa progressiva, era pari al 75%. Similmente, nel Regno Unito, l’aliquota massima dell’imposta sui redditi delle persone fisiche superò l’80%, mentre quella sulle successioni raggiunse il 72%. Nei termini di Piketty, il risultato fu, “una situazione che il Regno Unito non conosceva più dai tempi della conquista normanna del 1066 o della dissoluzione dei monasteri del 1530”
Negli altri paesi europei, le aliquote furono inferiori, ma certamente più elevate di quelle attuali. Sempre seguendo Piketty, negli Stati Uniti e nel Regno Unito, dagli anni ‘30 agli anni ’60 del Novecento, il totale delle imposte (dirette e indirette) versate dal gruppo dello 0,1% più ricco era compreso tra il 50% e l’80% dei redditi (al lordo delle imposte), mentre per la media della popolazione il totale era compreso tra il 15% e il 30%, e per il gruppo del 50% dei più poveri, tra il 10% e il 20%. Interessante, fra l’altro, è notare come proprio i paesi anglosassoni, oggi i più disuguali, siano stati i campioni delle politiche tributarie più redistributive.
La seconda politica concerne la partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese. In Germania, la Legge fondamentale del 1949, in sintonia con la costituzione di Weimar, radica la legittimità del diritto di proprietà nella capacità di contribuire al benessere generale della comunità; la legge del 1951 sancisce, per la prima volta l’obbligo, per le grandi società dell’acciaio e del carbone, di riservare metà dei seggi e dei diritti di voto nei consigli di amministrazione ai rappresentanti dei dipendenti (generalmente eletti nelle liste sindacali) e la legge del 1952 estende a tutte le altre grandi aziende tale obbligo, pur limitando la rappresentanza dei lavoratori a un terzo dei posti. Norme simili furono introdotte anche in Danimarca, Norvegia e Austria.
Queste politiche non erano dettate soltanto da esigenze tecniche – finanziare le spese belliche e per la ricostruzione e favorire la pace sociale –; esse riflettevano il profondo cambiamento nelle norme sociali che era venuto a realizzarsi dalla fine dell’800, di fronte alla crescita delle disuguaglianze, nelle risorse economiche (fossero esse reddito o ricchezza) e nel potere decisionale, che venne sempre più ritenuta incompatibile con il credo democratico. Il che, di converso, giustificava la moralità della progressività dell’imposta, potente strumento di contrasto alla concentrazione del reddito e della ricchezza, e il tentativo di dare più voce ai lavoratori.
Assai istruttiva, come antesignana del cambiamento etico radicatosi nel periodo post-bellico, è la prolusione che Irving Fisher fece, nel 1919, nella sua qualità di presidente della American Economic Association. Fisher non era certo un radicale. Ad esempio, è netto, in quella prolusione il rifiuto che oppone ad una visione del ruolo dell’economista come difensore di interessi di parte. Nelle parole di Fisher “gli economisti possono e devono prendere posizione, ma solo come fa un giudice giusto, dopo avere soppesato con cura le evidenze disponibili”. Eppure, l’attacco al carattere non democratico della distribuzione delle risorse economiche è al cuore della sua prolusione. Una bella differenza rispetto a tanti economisti odierni che reputano la distribuzione delle risorse al di fuori dei confini dell’economia!
Vale la pena soffermarsi in particolare sui passaggi riguardanti le successioni, i profitti e il lavoro. Rispetto alle successioni, scrive Fisher (trad. mia), “il tipico capitalista milionario vicino a abbandonare per sempre questo mondo si preoccupa di ciò che lascia dietro di sé assai meno di quanto siamo abituati a assumere. Contrariamente all’opinione corrente, non ha accumulato risorse, almeno oltre un dato livello, per desiderio di lasciarle agli altri. Le sue motivazioni erano soprattutto di potere, di realizzazione di sé, di caccia grossa. Ritengo sia una politica molto negativa permettere a chi muore di esercitare un’influenza così grande e priva di regole su chi resta in vita. Anche sotto il profilo della legge, non vi è alcun diritto naturale a lasciare eredità, diversamente da quanto erroneamente si assume. “Il diritto di eredità”, afferma il Chief Justice Coleridge in Inghilterra, “è un diritto puramente artificiale, che è stato trattato in modi molto diversi in tempi e paesi diversi…” o nei termini del giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti McKenna, è una “creatura della legge e non un privilegio naturale….
Inoltre, rispetto ai profitti (sempre trad. mia) “nel sistema vigente di proprietà privata, le opportunità di profitto e i rischi di perdite sono interamente nelle mani di una sola delle classi interessate nel successo dell’impresa. Le altre due classi, i lavoratori e il pubblico, normalmente partecipano assai poco o addirittura per nulla. L’imprenditore… in questo sistema, è venuto a pensare e a parlare della sua impresa come del “suo business” e, addirittura, a volte è citato per dire “il pubblico sia dannato”. Fondamentalmente, la questione è invece quella di fornire rappresentanza a tutte le parti coinvolte. Se l’impresa pubblica ha difetti evidenti, lo stesso vale per il sistema attuale di proprietà privata…. In questo grande gioco d’azzardo, la vincita trasforma chi era già milionario in multimilionario, il che è incoerente rispetto agli ideali democratici e al progresso della democrazia”.
Infine, rispetto al lavoro, è interessante l’osservazione secondo cui gli economisti dell’800 “scrivevano assumendo inconsciamente il punto di vista del datore di lavoro anziché del lavoratore, come dimostrato dal riferimento al lavoro come spesa di produzione”. Il che vuol dire che non si prende sul serio il punto di vista dei lavoratori.
Certo, i risultati del periodo post-bellico in termini di contrasto effettivo alle disuguaglianze economiche non vanno sopravalutati. Ad esempio, come documenta Piketty, se la quota di reddito detenuta dal decile più ricco, dal dopoguerra all’inizio degli anni ‘80, scende in media dal 47% al 35%, la quota di reddito del 50% più povero rimane attorno al 20%. Inoltre, anche in presenza di cogestione, i datori di lavoro hanno spesso detenuto l’ultima parola. E, aggiungo, i maschi bianchi hanno sempre detenuto più risorse economiche delle donne e di chi bianco non è.
Il mondo odierno è poi profondamente cambiato: la competizione del “mondo libero” con il comunismo, che ha sicuramente giocato un ruolo importante nell’impegno a contrastare le disuguaglianze, è scomparsa. E globalizzazione e finanza hanno oltremodo rafforzato il potere del capitale.
Ancora, progressività e democrazia economica, per quanto centrali, sono solo alcune delle politiche, possibili e desiderabili, contro le disuguaglianze e, comunque, stabilire quale sia la progressività desiderabile non è univoco. Molti potrebbero, ad esempio, dissentire dalla proposta di Piketty di fare leva su tre sole grandi imposte progressive (un’imposta annuale sulla proprietà, un’imposta sul reddito e una sulle successioni) con aliquote massime del 90% per patrimoni e redditi superiori di oltre 10.000 volte rispetto ai valori medi.
Nonostante questi rilievi, riandare all’esperienza bellica ci obbliga a rimettere in primo piano la questione del carattere non democratico delle disuguaglianze elevate, continuando e migliorando il compito allora intrapreso. Se manchiamo di farlo non possiamo appellarci alle difficoltà tecnico-politiche. Come con forza ammonisce Piketty, appellarsi a tali difficoltà, e in primis ai rischi di concorrenza fiscale connessi alla globalizzazione, significa accettare un regime di fatto censitario. Tutti possono votare, ma, grazie al potere di minaccia, i ricchi contano più degli altri, con buona pace dell’uguaglianza democratica.
Elena Granaglia
14/9/2020 https://www.eticaeconomia.it
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