CPR e repressione diritti umani
(Foto di Fabrizio Maffioletti)
Continuiamo la nostra indagine sui CPR. Riteniamo che sia importantissimo parlare di questo problema, così assente dal dibattito pubblico.
Ne parliamo qui con l’Avv. Gianluca Vitale, Presidente di Legal Team
Avv. Vitale, ci può spiegare in parole semplici cos’è un CPR?
«Centri di Permanenza Temporanea (CPT), Centri di Identificazione ed Espulsione (CIE), Centri di Permanenza per il Rimpatrio (CPR): varie sono le denominazioni che, sin dalla loro istituzione (nel 1998 ad opera della Turco Napolitano), hanno assunto questi centri; quella che resta è la loro natura e funzione.
Si tratta di centri di detenzione per migranti finalizzati al loro rimpatrio (assolutamente adeguata mi sembra la definizione inglese di deportation center).
A questa funzione si aggiunge la detenzione di richiedenti asilo (in determinati casi) sino alla decisione sulla loro domanda (se la decisione è negativa la detenzione assume nuovamente la sua finalizzazione al rimpatrio).»
Pare che tecnicamente le persone che vengono rinchiuse (non ne possono uscire) nei CPR non debbano essere definite come detenuti, cosa ne pensa in proposito?
«Il linguaggio burocratico definisce i migranti i quali si trovano nei CPR degli “ospiti”, e non dei detenuti. Il linguaggio normativo parla invece di “trattenuti”.
Se guardiamo al tradizionale utilizzo del termine “detenuto” (nel dizionario Treccani si fa riferimento alla persona che sconta una pena detentiva) effettivamente non si tratta di detenuti, in quanto chi è “rinchiuso” nei CPR non ha commesso reati (e comunque non è per scontare una pena che è “rinchiuso”). Forse non utilizzare questo termine è dovuto proprio alla difficoltà, all’imbarazzo di parlare di detenzione in assenza di reato; questa detenzione non è una legata ad un procedimento penale o ad una pena, come normalmente accade, ma è solo di carattere amministrativo. La Corte Costituzionale sin dalle rime pronunce sul trattenimento ha riconosciuto trattarsi di privazione della libertà personale, che come tale deve (dovrebbe?) rispettare i rigidi parametri e limiti dell’art. 13 della Costituzione. Si tratta dunque di una vera e propria detenzione, pur in assenza di reato; che però non ha (come la pena) una finalità rieducativa (questa dovrebbe essere secondo la Costituzione la finalità della sanzione penale), e non dovrebbe (non potrebbe) avere una finalità preventiva o punitiva (cioè quelle che di fatto sono ritenute le funzioni della pena). Tutto ciò significa anche che qui non abbiamo un regolamento carcerario e non abbiamo le regole che, comunque, organizzano la vita in un carcere e determinano anche i diritti dei detenuti. Oltre al fatto che chi si allontana non commette il reato di evasione (ma può essere riportato al CPR con la forza), questa è l’unica differenza rispetto alla detenzione propriamente detta.»
Essendo i CPR strutture private: esiste una normativa che definisce standard minimi di trattamento per gli “ospiti”?
«I CPR sono strutture pubbliche gestite da soggetti che hanno partecipato ad una gara; potremmo dire che è pubblico gestito direttamente dal privato. Responsabile è la prefettura locale, ma la gestione è dell’ente gestore, che sia, ad esempio, Gepsa come a Torino o Edeco a Gradisca.
Gli standard di trattamento sono quelli definiti nello schema di capitolato predisposto dal Ministero dell’Interno, che stabilisce il livello dei servizi. Il governo gialloverde ha ridotto enormemente i servizi, in alcuni casi di fatto eliminandoli. In più, mancando un vero e proprio regolamento, spesso il tutto è lasciato alla “buona volontà” degli operatori (dell’ente gestore e della polizia); per fare un esempio, non è regolata la possibilità di nominare il difensore (cosa che in carcere è regolamentata rigidamente per consentire l’esercizio del diritto di difesa), con la conseguenza che nei vari centri la possibilità di fare la nomina e di avere i colloqui funziona diversamente.»
Come giudica, secondo la sua esperienza, il trattamento che ricevono gliospiti dei CPR?
«Ovviamente la situazione che conosco meglio è quella di Torino. Recentemente ne abbiamo chiesto (Legal Team Italia, LaciateCIEntrare, ADIF, Ambasciata dei diritti di Ancona, Progetto MeltingPot) la chiusura perché crediamo non sia garantito il rispetto della dignità delle persone. Credo che già questo risponda alla domanda. Moduli bruciati nei quali i trattenuti vengono comunque costretti a dormire, infiltrazioni d’acqua, riscaldamento non funzionante, pasti precotti consegnati a distanze di ore dal confezionamento, assenza di adeguata assistenza sanitaria, sono alcune delle emergenze che in questo momento ci sono nel CPR di Torino.
Al di là dell’emergenza, comunque, è il sistema CPR in sé a non garantire il rispetto dei diritti fondamentali, della dignità, dei trattenuti: un luogo in cui non vi sono regolamenti che disciplinino la vita quotidiana, in cui non ci sono autorità di controllo avanti ai quali impugnare eventuali provvedimenti (come in carcere), in cui il costo pro capite è ridottissimo, in cui sono normativamente ristretti cittadini stranieri molti dei quali alloglotti*, ma in cui non è garantita un effettivo servizio di interpretariato e mediazione (ci sono mediatori in alcune delle lingue veicolari** ma non in tutte le lingue), non può garantire il rispetto dei diritti fondamentali. Un esempio: non esiste una procedura per presentare la richiesta di asilo politico; chi avesse questa intenzione non può fare altro che segnalare a voce che ha questa intenzione ai dipendenti dell’ente gestore (chiamandoli dalle sbarre della gabbia nella quale sono rinchiusi), i quali provvederanno poi a comunicare all’ufficio di polizia del campo (ufficio immigrazione) che il trattenuto “chiede un colloquio” (non che vuole chiedere asilo… per non violare la sua privacy); quando ci sarà tempo il trattenuto verrà condotto all’ufficio (per uscire dalle varie aree – vere e proprie gabbie con dentro le camere – ed andare all’ufficio immigrazione del campo, o in infermeria, o dal barbiere, i migranti sono scortati) e potrà chiedere asilo; anche eventuali comunicazioni via pec dei difensori non vengono prese in considerazione. E intanto ogni giorno il migrante – che non ha ancora chiesto asilo – rischia di essere espulso e rimpatriato. Un altro esempio: se un migrante lamenta di stare male non può chiamare lui il 118; deve anche in questo caso segnalarlo all’ente gestore, che lo segnalerà all’infermeria, che deciderà se farselo portare per vedere cos’ha. Non essendoci più la presenza di un medico h24 la prima decisione sarà dell’infermiere, che deciderà se se c’è un problema, se valga la pena di avvisare il medico reperibile, se sia necessario un ricovero. Così la scorsa estate a Torino un trattenuto ha denunciato di avere molto dolore ad un braccio dopo una caduta, che all’infermeria non gli era stata data nessuna cura, di essere stato alla fine portato al pronto soccorso dopo un paio di giorni, e solo allora di essere stato sottoposto a radiografia (che ha evidenziato una frattura al braccio, subito ingessato).»
Chi si occupa di sicurezza all’interno dei CPR?
«La sorveglianza all’interno del CPR è affidata alle forze di polizia (polizia di Stato, carabinieri, guardia di finanza) e all’esercito. All’interno dei CPR si vede, infatti, un gran dispiego di divise e di armamenti, del tutto sproporzionati a mio parere rispetto alla finalità di controllo. Murat Cinar (firma di Pressanza, n.d.r.) ha definito questa condizione quella di una “frontiera”: anche simbolicamente si vuole dire al trattenuto che in quel posto si è già in frontiera, non si è già più in Italia, si è in una sorta di terra di mezzo. Una terra, evidentemente, nella quale anche i diritti sono indefiniti.
Una recente circolare del Ministero dell’Interno, che riguarda tutti i centri in cui si trovano migranti (quindi CAS, CARA, SIPROIMI-ex SPRAR, Hot Spot, ed anche CPR), stabilisce che quando se ne ravvisi la necessità la funzione di sorveglianza può essere affidata ad “operatori economici” diversi dal gestore. Se così verrà fatto anche nei CPR significherà fare un altro passo verso una gestione interamente private di queste che sono state definite “galere etniche”.»
Chi è l’autorità di zona dello stato preposta al controllo e alla gestione del CPR?
«L’autorità statale competente per i singoli CPR è il Prefetto. Ad esempio è il Prefetto che autorizza eventuali visite nel CPR (e sempre più spesso le nega; recentemente sono state sistematicamente negate le autorizzazioni a visite richieste per vari CPR da associazioni della società civile, tra cui ASGI e LasciateCIEntrare).»
A livello ministeriale possono venire promulgate circolari per la gestione dei CPR?
«La gestione generale dei CPR è affidata al Ministero dell’Interno, che può anche emanare circolari per dare indicazioni per tentare di omogenizzare i trattamenti; così, ad esempio, nella recente circolare sulle gare di appalto, nella quale sono indicati servizi minimi e possibili deroghe. Per quanto viene riferito, la recente decisione di privare dei telefoni mobili i reclusi è stata una decisione presa a livello ministeriale.»
Come viene gestita la sanità all’inteno dei CPR?
«Purtroppo, come ho anticipato, l’assistenza sanitaria all’interno dei centri ha subito una drastica riduzione negli ultimi anni. Non è più prevista la presenza h24 di un medico, ma una sua presenza per alcune ore al giorno; unica presenza stabile è quindi quella di un infermiere. Le infermerie sono assolutamente inadeguate, essendo dotate solamente di pochi farmaci (e di molti psicofarmaci). Recentemente nel corso di un procedimento penale un responsabile di una infermeria di un CPR ha dichiarato che alcuni farmaci vengono distribuiti diffusamente (“non si negano a nessuno”). A Torino è presente una struttura (denominata “ospedaletto”) nella quale i migranti sono collocati in cellette/gabbie per due persone, sia per motivi di isolamento sanitario che per motivi di ordine pubblico (e quindi sembrerebbe per motivi punitivi, senza che ciò sia previsto); quella struttura è lontana dall’infermeria, è sprovvista di controllo di videosorveglianza, e non è dotata di sistemi per chiamare eventuali soccorsi; se qualcuno dovesse avere bisogni di soccorso in questi “ospedaletti” (un nome che evoca assistenza sanitaria) non può fare altro che attaccarsi alle sbarre e sperare di attirare l’attenzione di un militare di stanza in una garitta vicina e che questi comprenda quello che il migrante vuole (si rammenta, in quel caso spesso senza che vi sia il mediatore) e decida di chiedere l’intervento dell’infermiere.»
*alloglotti: Di lingua diversa da quella prevalente nel resto di una nazione.
** lingua veicolare: quella usata come mezzo di comunicazione tra parlanti che appartengono a comunità linguistiche diverse
Fabrizio Maffioletti
12/2/2020 www.pressenza.com
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