Cresce il numero dei migranti morti in mare
Alla fine, dopo una settimana di attesa in mare, ostaggio delle politiche europee di appoggio alla Guardia costiera libica, Malta ha accettato di trasbordare su un mezzo della sua marina militare i cinquantotto naufraghi soccorsi una settimana fa dalla nave Aquarius di SOS Mediterraneè a nord delle coste libiche e quindi di concedere il transito nel porto de La Valletta, verso i pochi paesi europei che si sono assunti la responsabilità di accoglierli (Portogallo, Spagna, Francia e Germania). Una soluzione raggiunta su iniziativa del Portogallo e della Spagna, dopo l’iniziale diniego dei francesi. Non si placano invece le intimidazioni del ministro dell’interno italiano contro le ONG che continuano a operare attività di monitoraggio nel Mediterraneo centrale.
Armed Forces of MALTA (AFM) declaration
A total of 58 migrants, who were on board the AQUARIUS, will be brought to Malta by the Armed Forces of Malta, as part of the transfer of migrants on humanitarian basis. The P52 vessel will be entering Hay Wharf Base at noon. Members of the Press will be provided with an area in the Marina di Valletta, Yacht Marina parking for media coverage.
Una soluzione che dal premier maltese viene definita “umanitaria”, ma che si inquadra in una politica disumana che viene adottata da oltre un anno, con il consenso dell’Unione europea a scapito dei migranti da soccorrere in acque internazionali e di chi continua ostinatamente ad assisterli. La salvaguardia del diritto alla vita non può cedere di fronte alle scelte strumentali di chi costruisce sul respingimento dei migranti le sue fortune elettorali. Come se le Convenzioni internazionali e i principi costituzionali, e perfino le leggi dello stato fossero disapplicabili sulla base dei sondaggi, magari con qualche tweet o con una canea di followers che infamano chi riesce ancora a salvare vite in alto mare.
Si alimenta una falsa contrapposizione con l’Unione Europea, quando invece le politiche decise a Bruxelles (come è emerso nel vertice di Malta del 3 febbraio 2017, all’indomani degli accordi tra il governo Gentiloni e le autorità di Tripoli) combaciano perfettamente con quelle dei governi che più dichiaratamente si schierano contro il soccorso in acque internazionali. Si impone alle ONG di non “interferire” con le attività di intercettazione in alto mare operate dalle motovedette libiche, adducendo l’esistenza di una zona SAR (area di ricerca e salvataggio) “libica” in acque internazionali, oltre il limite di dodici miglia delle acque territoriali, e dunque l’obbligo di lasciare alle autorità “libiche” (di quale Libia?) tutti i poteri di intervento e di intercettazione, con il fine esclusivo di riportare a terra il maggior numero di persone. Anche se a seguito dei ritardi e della inefficienza della Guardia costiera “libica” le persone fanno naufragio. Vedremo adesso che inchiesta sapranno fare a Tripoli sugli abusi denunciati dalla BBC commessi ai danni delle persone intercettate in alto mare dalle motovedette libiche. Per molti dei miliziani imbarcati a bordo di quelle motovedette sembra che i corsi di formazione in Europa non siano stati particolarmente utili, almeno dal punto di vista del rispetto dei diritti umani.
Non si comprende come le autorità di Tripoli possano garantire i diritti fondamentali delle pesone intercettate in mare, e adesso degli stessi libici. La Libia, in tutte le sue diverse articolazioni territoriali e militari, non può essere ritenuta un paese che garantisce “porti sicuri di sbarco”, place of safety, che dovrebbero essere garantiti dalle autorità che coordinano gli interventi di soccorso. Anche per non violare l’articolo 33 della Convenzione di Ginevra che impone a tutti gli stati firmatari (tra cui non c’è il governo di Tripoli) il rispetto assoluto del principio di non respingimento.
Rispetto al forte calo delle partenze dalla Libia, derivante dalle condizioni di conflitto civileche rallentano gli spostamenti a terra, o li impediscono del tutto, è infatti aumentato il numero delle vittime, quest’anno già oltre 1.300 persone, in maggior parte naufragate in mare a partire dal 28 giugno di quest’anno, da quando il governo di Tripoli ha proclamato unilateralmente una zona SAR “libica”, e le autorità italiane hanno abbandonato alle motovedette libiche e al centro di coordinamento di Tripoli (variamente supportato dalla marina militare italiana con la missione Nauras) il compito di intercettare in mare i migranti e riportarli nei centri di detenzione dai quali erano fuggiti. Tra questi rimane centrale lo snodo del centro di detenzione di Zawia, ubicato in una zona fortemente interessata dal contrabbando di petrolio dalla vicina raffineria, come è provato da indagini della magistratura italiana, che è diventato il punto principale di sbarco (point of disembarkation) dei migranti soccorsi/intercettati in mare dai libici, dopo che la situazione a Tripoli è precipitata.Ma chi finisce nelle mani della Guardia costiera “libica” è comunque destinato a subire abusi, ovunque venga sbarcato.
Le condizioni del centro di Zawia sono note da tempo, e adesso sono confermate dalle testimonianze di migranti che sono riusciti ad essere evacuati verso i paesi di origine grazie ai progetti di rimpatrio volontario gestiti dall’OIM. Ma quelle stesse condizioni disumane sono confermate anche negli altri centri, anche in quelli che vengono definiti “governativi”, sia dai rapporti internazionali che dalle testimonianze dei migranti che riescono ad arrivare ancora nel nostro paese. Eppure si continua a parlare di rinforzo delle missioni Frontex nella prospettiva di una maggiore collaborazione con la Guardia costiera “libica”, quando la prospettiva corretta dovrebbe essere quella del lancio di una grande missione di soccorso umanitario gestita a livello europeo. Una prospettiva certo impopolare, ma l’unica che potrebbe garantire la salvaguardia effettiva della vita umana in mare, in quella che si continua a ritenere come la zona SAR “libica”. Ed anche in quella maltese nella quale il governo de La Valletta non interviene, o interviene con grande ritardo.
Tutti i politici europei, e soprattutto i rappresentanti del nuovo governo italiano, si riempiono la bocca con l’esigenza prioritaria di combattere il traffico di “clandestini” e con l’obiettivo dichiarato di impedire che gli operatori umanitari delle ONG possano diventare facilitatori, se non addirittura favoreggiatori, di chi specula sull’immigrazione che definiscono “illegale”. Anche il ministro della difesa Trenta rimane sulla stessa posizione. Nei fatti non si distingue neppure tra scafisti e trafficanti, le indagini nazionali si arenano presto davanti alla mancata collaborazione di quegli stessi governi con i quali si collabora per intercettare i migranti in mare, e alla fine aumentano soltanto le persone condannate ad un naufragio, o destinate a subire ogni sorta di abusi nei centri di detenzione a terra.
Si arriva persino a ricattare i paesi di bandiera delle navi umanitarie perchè revochino l’immatricolazione della nave e impediscano così, su commissione diretta che nessuno può negare, la prosecuzione delle attività di ricerca e salvataggio in acque internazionali. Un completamento di quella strategia di elusione della portata della sentenza Hirsi, di condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’Uomo, che si sta completando, dopo i sequestri delle navi umanitarie, con il loro blocco attraverso espedienti burocratici. Come quelli adottati anche da Malta per tenere ferme nel porto de La Valletta tre navi umanitarie di Lifeline, Seefuchs e Seawatch che in questi mesi avrebbero potuto soccorrere migliaia di persone, come avveniva fino allo scorso anno, sotto il coordinamento della Guardia costiera italiana.
Non sono bastate neppure le richieste di archiviazione dei procedimenti penali contro le ONG. Si continua a diffondere il messaggio secondo cui queste organizzazioni approfitterebbero delle emergenze in mare e costituirebbero fattori di attrazione delle partenze. In realtà i veri speculatori sull’immigrazione illegale sono coloro i quali negano l’evidenza delle torture e degli abusi subiti dai migranti in Libia dopo essere stati riportati a terra dalla sedicente guardia costiera “libica”, non aprono alcun canale legale di ingresso e arrivano, di fatto, a sbarrare i porti, senza avere neppure il coraggio di emettere un provvedimento formale che possa essere impugnato davanti ai tribunali internazionali o ai giudici nazionali. Gli stessi che intervengono sui paesi di bandiera delle navi umanitarie per bloccarne l’attività di soccorso, speculano sulla paura della popolazione, una paura costruita su una emergenza sbarchi che ormai non esiste più. Ma che rimane sempre utile per garantirsi il consenso,malgrado alimentando una falsa contrapposizione con Bruxelles, magari in nome del sovranismo, in tempi nei quali persino l’Unione Europea, e alcuni stati in particolare, denunciano l’inadempienza da parte dell’Italia degli obblighi di soccorso sanciti dalle Convenzioni internazionali.
Per quanto stiano ancora cercando di fermare in tutti i modi le attività di ricerca e salvataggio delle Organizzazioni non governative, attività che spetterebbero agli stati, ma che gli stati non assolvono più, le imbarcazioni e gli operatori umanitari, anche a rischio di subire altri sequestri e altri arresti, continueranno la loro attività di monitoraggio e di denuncia nelle acque del Mediterraneo centrale e a terra, ovunque sia possibile contrastare l’abbandono in mare e la comunicazione tossica che lo sostiene. La vita delle persone vale più della propaganda elettorale di qualche ministro dell’interno. Salvare vite umane è un obbligo, non una scelta.
Fulvio Vassallo Paleologo
1/10/2018 da Adif
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