Cronaca nera

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La affannosa elezione del Capo dello Stato ha squadernato una crisi del sistema democratico inedita della quale sembra essere consapevole un settore minoritario delle élites italiane. Non si può analizzare l’attualità se non partendo a ritroso da due discorsi: l’ultimo, ufficiale, del Capo dello Stato di fronte ai grandi elettori nel contesto del giuramento e dell’insediamento e il primo nel giorno dell’elezione di Mattarella nel contesto dell’elezione unanime di Giuliano Amato a Presidente della Corte Costituzionale.

Sergio Mattarella nel tripudio degli applausi ha ripetuto per 18 volte il lemma “dignità” quasi a voler far recuperare la dignità a un Parlamento mai così delegittimato fin dall’esito di un referendum costituzionale che decretava la superfluità di un terzo dei suoi componenti. I temi affrontati e la retorica sono quelli propri della sinistra democristiana tradizionale: sicurezza sul luoghi di lavoro, esclusione da povertà, mafia, razzismo e violenza sulle donne. Tutte materie sulle quali non costa molto chiedere un impegno suppletivo al Parlamento a fronte di un impegno suppletivo di altre istituzioni e dei ‘corpi intermedi’ nè costa, d’altro canto, molto prometterlo da parte dei capi partito. Colpisce, invece, l’inaspettata critica al Governo per la compressione dei tempi della discussione nell’approvazione della legge di bilancio, del tutto condivisibile per chi avesse a cuore la centralità del Parlamento nel sistema costituzionale. Colpisce anche l’affondo sulla Magistratura nella parte in cui denuncia nei cittadini “il timore per il rischio di decisioni arbitrarie o imprevedibili che, in contrasto con la certezza del diritto, incidono sulla vita delle persone”.

Questa presa di posizione, se letta con la dichiarazione di Giuliano Amato nella citata conferenza stampa, fa sperare nel superamento dell’imbarbarimento dell’esecuzione penale. Amato ha, infatti, ricordato il sovraffollamento carcerario e ha dichiarato la possibilità di un intervento della Consulta in assenza di uno doveroso del Parlamento. Se infatti il Capo dello Stato e il Giudice delle leggi mettono al centro la certezza del diritto contro la certezza della pena in accezione manettara, si può presagire un argine alle campagne illiberali dei vari Minniti, Salvini e Bonafede.

Mattarella e Amato sembrano interessati a esercitare i loro potere per evitare fughe in avanti delle classi dirigenti eurounitarie e atlantiche consapevoli che le forzature verso riforme di neoliberismo spinto potrebbero produrre malessere sociale. Draghi, che da Mattarella ha ricevuto e confermato l’incarico, non ritiene di dover rispondere se non a un popolo adorante, descritto dal circo barnum dei media, e al novero sceltissimo degli azionisti delle banche d’affari. Non stupisce che il PD con una sgrammaticatura istituzionale senza precedenti voglia discutere e approvare il discorso di Mattarella come se fosse il programma di un sindaco neoeletto in consiglio comunale.

Il disegno dei democratici è puntellare il Governo e il loro potere di interdizione tra Draghi e gli interessi delle forze produttive per loro esclusivamente compendiate nel popolo imprenditore. Disegno oggettivamente convergente con quello leghista che ha scommesso sul governo come potere di indirizzo e coordinamento del flusso di denari in ingresso col PNRR nei prossimi mesi. Si tratta, in altri termini, di importare in Italia compiutamente non solo il modello politico/sociale ma anche l’alleanza parlamentare di Ursula von der Leyen o, più recentemente, di Roberta Metsola. Modello in cui la sinistra europea e, financo, i moderatissimi verdi sono esclusi.

Mattarella sa bene di essere espressione di quella base elettorale e di quell’approccio liberista, ma pare voler sottrarsi da velleitarismi semplificatori che esplicitino il passaggio da una democrazia malata a una esplicita tecnocrazia populista. Amato stesso parlando dell’importazione del presidenzialismo ha usato la metafora dell’ordinamento costituzionale come orologio in cui non sarebbe facile introdurre ingranaggi di altri orologi.

A nessuno può sfuggire che il secondo mandato presidenziale, non illegittimo, non ha eguali nella storia istituzionale italiana perchè, al suo compimento, vedrà un Capo dello Stato che avrà nominato 10 giudici costituzionali, avrà assistito a tre legislature parlamentari e regionali, avrà presieduto quattro CSM avrà presieduto 28 Consigli superiori di Difesa ecc. Non credo, però, che ci sia pericolo della condivisione di una riforma costituzionale presidenziale o semipresidenziale non solo per ragioni di affollamento del calendario parlamentare, ma anche per assenza di volontà politica stante lo sfaldamento del polo euro-liberal-reazionario di Tajani-Salvini-Meloni.

L’altro polo quello euro-liberal-socialdemocratico in questa fase non sembra interessato perchè sembra più disposto a farsi commissariare dalle burocrazie di Bruxelles a patto di conservare per sè una quota di potere. Le scelte strategiche per i prossimi anni saranno scritte, infatti, dalla negoziazione intergovernativa o interistituzionale sulle regole dei trattati e per questo tutti i partiti e i gruppi del Governo uscente si affidano a Mario Draghi. Meloni e i suoi camerati, esponenti di una opposizione apparentemente rocciosa, su queste regole non sembrano voler distinguersi minimamente dal mantra liberista e antidebito pubblico in coerenza con il quale va svenduto quel po’ di economia mista e di beni pubblici che restano in Italia. Se questo permane lo schema di gioco, però, l’affidamento in Draghi, e nella sua carriera accademica e di banchiere centrale, appare coerente e conseguente, con buona pace della Costituzione economica leggibile e vigente nella Charta del 1948.

Al tema dello strapotere anticostituzionale degli esecutivi sul legislativo si affianca anche il tema dello strapotere del giudiziario sul legislativo. Questo secondo squilibrio non sembra di facile soluzione perché la giurisdizione prende il campo lasciato libero dalla politica – si pensi alle droghe leggere o in molte materie di diritti civili – e perché la stessa politica appare impaurita dal ruolo preponderante delle procure rispetto al diritto alla difesa. Si provvederà, allora, simbolicamente impedendo di tornare in Magistratura a parlamentari, bravi come Domenico Gallo, mentre non si interverrà sulle centinaia di magistrati ordinari, amministrativi e contabili che riempiono gli uffici legislativi e i gabinetti dei Ministeri. SI nasconderà la legittima passione politica dei magistrati trasformando ancor più le correnti in luoghi di mediazione corporativa per l’ambizione del singolo e la carriera di cordata.

Lo squilibrio tra legislativo ed esecutivo trova ancor minor riscontro tra le forze politiche, ma appare come un falso problema in un’opinione pubblica intontita dagli ‘uomini del fare’ e dalla retorica che decisioni rapide siano, in quanto tali, buone. Corollari di questi assiomi sono: l’inutilità della discussione approfondita svolta in assemblee rappresentative e la necessità di governi, possibilmente monocratici, iperdecidenti. La retorica del ‘sindaco d’Italia’ come forma politico istituzionale efficiente, la trasformazione giornalistica dei presidenti di Regione in ‘governatori’ sono solo le ultime epifanie di un processo ormai di lunga durata.

Va detto che relativamente a questo problema specifico Mattarella si troverà al cospetto di una decisione specifica se farsi mallevadore dell’autonomia differenziata spinta voluta dalle tre Regioni del Nord, nelle leggi di intesa prossime alla discussione, o se far prevalere l’interesse generale della Repubblica. Non sfugge, ancora una volta, che oltre alla considerazione banale dell’aumento della sperequazione nei servizi pubblici, quindi nei diritti, regionalizzati questa autonomia cambia anche il rapporto tra istituzioni UE e Regioni. Queste, infatti, già in forza della lettera dell’art.117 comma V della Costituzione, “partecipano alle decisioni dirette alla formazione degli atti normativi comunitari e provvedono all’attuazione e all’esecuzione degli accordi internazionali e degli atti dell’UE”. Mattarella e Draghi, dunque, nelle prossime settimane decideranno se Zaia, Fontana e Bonacini tratteranno le fette più consistenti del PNRR direttamente a Bruxelles, non solo senza passare per il Parlamento e i loro partiti, ma, addirittura, senza i capi di questi ultimi.

Fin qui l’analisi dei rapporti di forza, ma come intervenire come comunisti e Sinistra europea?
Le ricette paiono non nuove, ma nuovo deve essere l’approccio perché dopo la pandemia fenomeni in nuce sono venuti a maturazione e vanno denunciati senza requie. La crisi dei sistemi elettorali maggioritari si manifesta in ogni scadenza come astensione: dalle suppletive nel collegio di Roma centro in cui votava l’11,3% del corpo elettorale alle scorse comunali di ottobe in cui si recava alle urne poco più di un elettore su due. La vergogna assoluta, e troppo spesso dimenticata, dell’assenza di elezione popolare di Province e Città metropolitane presiedute per legge da sindaci e amministrate da accordi proditori tra segretari di partito addirittura sulla testa dei consiglieri comunali. La degenerazione dei Partiti personali e aziendali favorita dall’abolizione del finanziamento pubblico degli stessi e dall’obbligo di avere rappresentanza parlamentare per l’accesso al 2×1000, cioè anche al finanziamento volontario, in sfregio all’art. 49 Costituzione. Lo stato dell’informazione politica nazionale dalla quale è totalmente espulsa la sinistra a partire dal servizio pubblico.

Noi, però, non siamo soli! La battaglia per il sistema proporzionale deve avere la primazia, essere riportata nelle scuole, nelle fabbriche, negli ambulatori, nelle piazze e, appena si potrà, anche in tutti i luoghi di aggregazione e di riunione. Stanno con noi le più avanzate associazioni di giuristi, i comitati a difesa della Costituzione alcuni circoli intellettuali. Nostro dovere è spingere il tema ai settori più sfiduciati e più marginalizzati della società, ai giovani alle tante persone che si e ci chiedono, non a sproposito, il senso ancora di andare a votare. Ogni passo in avanti delle pessime leggi elettorali in senso proporzionale è un’applicazione più vicina alla lettera del bellissimo art. 48 della Costituzione che definisce il voto “personale ed eguale, libero e segreto”. Combattiamo, invece, il voto schiavizzato dall’obbligo di esprimere un capo o una compagine di governo in una coalizione che un sistema di poteri economici e mediatici ha deciso di rendere ammissibile. Condanniamo il fatto che fuori da questa gabbia bipolare il voto è oggi inutile, cioè bandito.

Va portata avanti anche la campagna di democratizzazione degli enti territoriali affetti anche dalla malattia ulteriore costituita dalla privatizzazione dei loro poteri. Avviene così la trasmissione delle decisioni sui servizi pubblici, financo essenziali, a società per azioni multiutilities che governano i beni comuni distanti centinaia di chilometri fuori dal controllo anche più blando e formale degli eletti del popolo. Rilanciare la campagna per le pubblicizzazioni: essa non può incentrasi solo sulla accessibilità delle tariffe e sul controllo sui costi, ma deve porre la questione della gestione pubblica cioè del trasferimento del potere ai rappresentanti delle persone e dei lavoratori contro il potere di chi rappresenta le rendite.

Battaglie da fare anche in luoghi rappresentativi delle organizzazioni di massa, nelle campagne elettorali prossimi delle RSU, nelle strutture movimento studentesco, nel prossimo congresso nazionale ANPI e in tutte le campagne per i rinnovi dei Consigli comunali costruendo alleanze tra generazioni, soggetti sociali e soggetti politici. Così come abbiamo imparato dal collettivo GKN bisogna insorgere, solidarizzare, autorganizzarsi.

Il tema della democrazia costituzionale non può più essere l’argomento di qualche pichiatello NOVAX o NOGREENPASS, ma deve essere la forma che genera la sostanza dell’uscita da sinistra dalla crisi pandemica e della ricomposizione delle lotte, alternativa alla pasivizzazione e al riflusso.

Gianluca Schiavon

Resp. Giustizia PRC

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