Cronache da un Ospedale in tempo di Covid-19
PREMESSA
La vita di tutti è cambiata nell’ultimo mese e mezzo.
In una rincorsa di numeri, conferenze
stampa, comunicati della protezione civile e analisi economiche e
sociali di come sarebbe dovuto essere il prima, di come è il mentre e di
come sarà il poi, l’epidemia di Coronavirus ci obbliga a ribaltare la
nostra idea di libertà, dimostrandoci come essa non sia proprietà
assoluta del singolo, ma includa e iscriva in sé un vincolo, un legame
con gli altri: la salvezza ‒ è la lezione che ci viene
insegnata ‒ non dipende solo dagli atti che il singolo può o vuole
compiere, ma anche da quelli dell’altro; le conseguenze dei nostri gesti, investono non solo la nostra vita, ma quella dell’intero Paese.
A essere esaltato è, quindi, il valore
della solidarietà (prima ancora di quello di prevenzione o precauzione),
nell’ambito di una narrativa pubblica che, per essere all’altezza di
questo insegnamento, non potrà permettersi di oscurare coloro che
resteranno esclusi, le situazioni di marginalità esistenti e che si
verranno a creare, nonché i meccanismi istituzionali che dovranno essere
a lungo tematizzati.
La vita di tutti è cambiata, si è detto; la vita di molti è stata stravolta.
Tra questi, vi sono – oltre, ovviamente, ai malati e ai loro familiari – i medici all’opera negli ospedali di tutta Italia.
Dal vuoto dei Pronto soccorso, al pieno
delle terapie intensive; dalla penuria di dispositivi di protezione
individuale, all’arte di arrangiarsi con le maschere per snorkeling di
Decathlon, divenuti veri e propri respiratori funzionanti. Nuovi muri
vengono costruiti nei reparti, per separare il dentro e il fuori; i
positivi, dai negativi. Per isolare pazienti e medici dal mondo esterno e
dagli affetti.
Questo il contenuto di questa Talpa.
Cinque racconti scritti dalla dott.ssa Michela Chiarlo, che lavora nel
Pronto soccorso e nel reparto di medicina d’urgenza dell’Ospedale San
Giovanni Bosco di Torino. Scritti da chi, oggi, è chiamato eroe, ma che
quando ha scelto di fare il medico lo ha fatto con l’intento, perdurante
e autentico – spesso nonostante politiche pubbliche di contrazione
della spesa sanitaria – di «curare tutti i pazienti con eguale scrupolo e
impegno».
(Francesca Paruzzo)
1. Pronto Soccorso
Nel corso delle settimane a partire da
metà febbraio la coda in Pronto soccorso si è accorciata sempre di più.
Sono spariti prima i codici bianchi, poi si sono ridotti i codici verdi,
e dalle classiche quattro ore di attesa siamo scesi a pochi minuti. I
corridoi, di solito strabordanti di barelle, si sono svuotati. La notte
un clima irreale calava sulle sale d’aspetto vuote.
Abbiamo vissuto a lungo un deserto dei Tartari, ma a differenza che nel classico di Buzzati, i Tartari sono arrivati.
La prima ondata è stata più che altro di panico. Mentre in Lombardia,
Veneto ed Emilia Romagna chiudevano le prime zone rosse, fuori dal
nostro pronto soccorso si montava la tenda di pre-triage della
protezione civile, quella dove gli infermieri muoiono di freddo a
quattro ore alla volta vestiti come gli spermatozoi di «tutto quello che
avreste voluto sapere sul sesso e non avete mai osato chiedere».
Quel primo giorno siamo stati subissati di telefonate: «Il marito di mia
cugina che fa il camionista è passato da Codogno ma senza fermarsi e
poi ci ha portato un pacco di arance, potremmo esserci contagiati?», «Ho
la febbre da tre settimane, devo fare il tampone?», «Il 1500 non mi
risponde e il 112 mi ha attaccato quindi chiedo a voi». Chiunque avesse
un numero interno dell’ospedale l’ha subissato di telefonate, rendendo
impossibile l’attività ordinaria. Il centralino mi metteva in attesa,
tutti i numeri interni per chiamare i consulenti erano staccati e io non
sapevo come rintracciare lo psichiatra, il chirurgo, il vascolare o
chiunque altro mi servisse per i miei pazienti non-Covid.
Lentamente il Pronto soccorso si è adattato al crescente numero di casi sospetti. All’inizio erano così pochi che bastava la nostra stanza di isolamento per visitarli: l’infermiere mi chiamava dal triage, il paziente veniva accompagnato lungo un percorso esterno fino alla stanza di isolamento, nel frattempo mi bardavo (cuffia, calzari, camice impermeabile, maschera filtrante, visor, doppio paio di guanti), poi entravo nella stanza di isolamento, visitavo e interrogavo il paziente, uscivo, chiamavo l’unità di crisi per l’autorizzazione al tampone e, se c’erano dei criteri molto stringenti, chiedevo il tampone, altrimenti rimandavo il paziente a casa con la tachipirina.
Ben presto la stanza di isolamento non
era più sufficiente e ci hanno dato quattro stanze al quarto piano
(sempre accessibili da percorso dedicato) per ospitare fino a 16
pazienti. E poi, mano a mano che i pazienti “normali” diminuivano, il
Covid si è mangiato quasi tutto il pronto soccorso.
Una notte sono andata al lavoro e c’era un muro. Un muro di mattoni a
separare l’area Covid da quella normale, o, come diciamo noi, lo sporco
dal pulito, la zona dove devi vivere con mascherina, guanti, cuffia e
camice di tessuto non tessuto da quella dove hai il privilegio di
lavorare come un mese fa, con la tutina di stoffa e le mani libere. Il
muro, nota giustamente un collega, sembra quello della copertina di “the wall” dei Pink Floyd.
Ora la zona pulita ha un ambulatorio e una sala emergenza per otto posti
letto totali, mentre quella sporca ha due ambulatori, una sala
emergenza e una sala di degenza per 18+4 posti totali. I percorsi sono
completamente separati e anche la radiologia ha due spazi, separati da
muri di nylon, uno per i pazienti puliti, l’altra per i sospetti Covid. I
pazienti vengono smistati al pre-triage (la famosa tenda) e accedono da
due ingressi diversi.
Le due sezioni del pronto non hanno nessun contatto se non per telefono o per radio.
Per limitare al massimo lo spreco di materiale la scorta dei farmaci
rimane nel pulito, mentre nella zona Covid c’è un carrello emergenze con
i soli farmaci e presidi essenziali. Per i farmaci mancanti si chiede
alla radio.
«Isolamento a emergenza, passo»
«Qui emergenza, avanti isolamento»
«Serve un keppra in 250 di fisiologica, passo»
«Ricevuto isolamento, lo preparo, passo»
«Emergenza a filtro, passo»
«Qui filtro, avanti emergenza»
«Ti passo il Keppra deflussato, passo»
«Ricevuto emergenza, passo»
«Filtro a isolamento, passo»
«Qui isolamento, avanti filtro»
«Ti lascio il keppra, quando vuoi puoi aprire la porta, passo e chiudo».
Se la situazione non fosse drammatica sembrerebbe di stare a un campeggio scout.
Nel frattempo le indicazioni
dell’Organizzazione mondiale della sanità sono cambiate: per visitare i
pazienti con Covid sospetto o accertato basta la maschera chirurgica, il
visor, un solo paio di guanti e il camice di tessuto non tessuto. La
maschera filtrante e il camice impermeabile vanno riservati alle
procedure più invasive (tampone, aerosol, ventilazione in maschera,
intubazione). Di conseguenza nella stanza emergenza-isolamento-Covid c’è
sempre un infermiere per prestare assistenza ai pazienti eventualmente
presenti, mentre il medico, che va su e giù tra gli ambulatori e la
stanza isolamento si cambia di volta in volta.
Fuori dalla stanza di isolamento c’è il “filtro”, una zona franca e
semi-pulita con un infermiere che gestisce la radio ed è incaricato di
fornire alla stanza di isolamento-Covid tutto ciò di cui ha bisogno. Il
filtro fa da tramite tra l’emergenza pulita e
l’emergenza-isolamento-covid e tra la degenza-Covid e il resto
dell’ospedale. Fa i bagni a letto ai pazienti il cui tampone è risultato
negativo e che necessitano di ricovero in zone pulite dell’ospedale,
sanifica tutto il materiale che esce dall’isolamento e lo prepara
all’utilizzo successivo, invia le provette per gli esami e legge i
referti alla radio.
Quando sono dentro con un paziente, vestita come un astronauta, la
sensazione di isolamento è totale, prendere fiato è faticoso sotto alla
maschera filtrante, e il suono del respiro mi rimbomba nelle orecchie:
mi sembra davvero di essere in una navicella spaziale ad anni luce di
distanza da altri esseri umani.
Noi medici di pronto siamo abituati, nelle emergenze, ad avere
moltissimi presìdi e tantissime mani a disposizione: un paziente grave
assorbe spesso tutte le risorse in turno e chiunque passi sa come dare
una mano. Moltissime cose avvengono senza che ce ne rendiamo conto e
senza una richiesta esplicita: gli infermieri e gli OSS sanno benissimo
cosa fare, chi cerca un accesso venoso, chi analizza l’emogasanalisi,
chi spoglia il paziente e lo monitorizza, chi mette il catetere, chi fa
l’ecografia, chi prepara i farmaci: è tutto molto efficiente e rapido.
Invece nell’isolamento siamo due: un medico, un infermiere, un carrello
emergenza, un attacco dell’ossigeno e un ventilatore. Possiamo chiedere
cosa vogliamo, ma la latenza è notevole. Un altro paio di mani richiede
cinque minuti di vestizione e cinque minuti, durante un’emergenza, sono
eterni. Per chiamare l’anestesista bisogna spiegare alla radio il
motivo, far chiamare da fuori e aspettare che l’anestesista a sua volta
si vesta. I farmaci richiedono lo scambio radio di cui sopra, bisogna
pensare in anticipo, ma anche evitare di sprecare materiale che una
volta entrato non può più uscire.
In poco più di una settimana quel muro, che è diventato simbolo della
nostra lotta, si è riempito di firme e graffiti. Ci ricorda che siamo
uniti, anche se non possiamo toccarci e per riconoscerci dobbiamo
parlarci, perché l’unica cosa che spunta dalle divise sono gli occhi e i
maschi barbuti si sono rasati per far aderire meglio le mascherine. Già
si parla di quando lo abbatteremo, quel muro: chi dice a martellate,
chi a pugni, chi a testate. Di quando sgonfieremo la tenda e potremo
abbracciarci.
2. Terapia subintensiva
Benché un flagello sia infatti un accadimento frequente, tutti stentiamo a credere ai flagelli quando ci piombano addosso. Nel mondo ci sono state tante epidemie di peste quante guerre. Eppure la peste e la guerra colgono sempre tutti alla sprovvista. (Albert Camus, La Peste)
Se il cambiamento del Pronto soccorso è
stato progressivo e posticcio, quello della medicina d’urgenza del mio
ospedale è stato rapido e definitivo. Un giorno avevamo metà dei letti
pieni di pazienti non-Covid, il giorno successivo abbiamo avuto
indicazioni di trasferirli in massa, quello ancora dopo avevamo gli
operai a fare le modifiche.
Quando sono tornata per il primo turno di notte è stato un tuffo al
cuore. Anche qui è sorto un muro dove non c’era, ma è intonacato e ha al
centro una porta identica a tutte le altre con il cartello “accesso
alla zona rossa”. L’effetto è straniante come quello di certi sogni in
cui sai benissimo dove sei e come dovrebbero essere le cose, ma quello
che vedi è diverso dalla realtà.
Sono rimasti fuori dalla nuova porta due magazzini, la sala medici, lo
spogliatoio medici e il bagno infermieri. Tutto il resto del reparto,
compresa la cucina e i due studi, quello di segretaria e caposala e
quello del primario, è stato svuotato e trasformato in stanze di degenza
o in magazzini. In tutte le stanze è stato installato un circuito a
pressione negativa, in breve significa che il ricambio d’aria dentro
alle stanze è talmente rapido che quando si apre la porta l’aria entra
sempre senza uscire mai e ciò garantisce un rischio minimo di
fuoriuscita del virus. Inoltre sono state installate telecamere a
infrarossi, per poter sorvegliare i pazienti anche con le porte chiuse,
un interfono e sarebbero dovuti arrivare dei monitor per poter leggere i
parametri vitali di tutti i pazienti da un’unica postazione pulita.
In terapia subintensiva vengono ricoverati i pazienti che hanno bisogno
del ventilatore ma sono svegli. Pazienti che, cioè, vengono ventilati
tramite maschere facciali o caschi. Queste procedure causano una
importante aerosolizzazione (il virus viene sparato a distanza) e
pertanto per assistere i pazienti servono le maschere filtranti e i
camici impermeabili.
A due giorni dall’inizio dei lavori il reparto è pronto, ma non ci sono
maschere e camici a sufficienza per medici e infermieri. Rimaniamo fermi
altri due giorni in attesa dei presìdi. Quando finalmente apriamo,
sulla base della conta dei DPI (dispositivi di protezione individuale)
ci danno indicazioni di ricoverare tre pazienti. Entro sera ne arrivano
7. In due giorni il reparto, ristrutturato per ospitare 10 pazienti, ne
accoglie 14, uno in più dell’era pre-Covid.
I monitoraggi che ci hanno promesso per i 6 letti rimanenti non
arriveranno mai. Ci aggiustiamo recuperando qualche monitor portatile
dal pronto e una colonnina parametri che abbiamo sempre avuto in
reparto, ma un letto rimane completamente sguarnito.
Le istruzioni iniziali sono tassative: non si può uscire e rientrare
nelle stanze con i camici sporchi, non si può passare da una stanza
all’altra con i camici sporchi, non si possono aprire le porte che per
pochi secondi. Queste direttive durano meno di due turni: non reggono
alla prova della penuria costante di mascherine.
Dal secondo giorno compare una riga per terra tracciata con lo scotch:
la metà destra del corridoio è zona sporca: si può transitare da una
stanza all’altra avanti e indietro con l’illusione di mantenere pulita
l’altra metà. Le maniglie delle porte vengono disinfettate ogni tre ore,
tutto ciò che esce dalle stanze viene sanificato, un bagno è
trasformato in locale svestizione.
Il mio primo turno nella subintensiva-Covid19 è una notte.
Mentre sono a casa ad aspettare di sapere dove e quando devo andare a
lavorare, mi chiama una collega: «Siamo senza pile per i laringoscopi,
se puoi valle a comprare e portarcene almeno sei questa sera». Il
laringoscopio è un attrezzo che si infila in gola ai pazienti
addormentati per posizionare correttamente il tubo endotracheale. È
costituito da un manico e da una lama d’acciaio. In cima c’è una luce
che serve a illuminare la gola e guidare il posizionamento del tubo. Le
pile scariche del laringoscopio sono il terrore di ogni anestesista…
immaginatevi di avere un paziente addormentato e paralizzato e di
dovergli cacciare un tubo in gola alla cieca mentre qualcuno vaga per il
reparto alla ricerca di un altro laringoscopio o di pile nuove.
Ecco a noi oggi sono finite le pile di riserva e il magazzino non sa se e
quando riuscirà a rifornirle. Trattandosi di un oggetto facilmente
reperibile è più semplice e sicuro andare in ferramenta a comprarne una
scorta che attendere novità dal magazzino. Sarà solo la prima delle
tante pezze da mettere di questi tempi.
Il turno inizierebbe alle 22, ma mi chiamano prima: «Ci sono due ricoveri, vieni a darci una mano».
Percorro le strade deserte col mio motorino incrociando solo una
pattuglia dei carabinieri e senza mai appoggiare i piedi per terra,
un’unica tirata di sette km. Arrivo, recupero dal magazzino una tutina
usa e getta pulita, mi cambio nello spogliatoio, cercando di passare
indenne dalle scarpe (da riporre in apposita scarpiera) agli zoccoli
(che stazionano su di un panno imbevuto di cloro). Anello, collana e
orologio li ho lasciati a casa, altrimenti dovrei metterli e toglierli
ogni volta che arrivo al lavoro. Mi lego i capelli (ho scelto un pessimo
momento storico per farmeli crescere, ma tant’è) e mi lavo le mani con
la soluzione idroalcolica con la tecnica consigliata dall’OMS.
Impacchetto il telefono con il cellophane: potrei lasciarlo fuori, ma mi
serve per fotografare i documenti, quindi dopo attenta analisi ho
scelto la pellicola per alimenti, che preserva il touch screen e la fotocamera e può essere buttato a fine turno, sollevandomi dall’incombenza di sanificare il telefono ogni volta.
Vado a recuperare una mascherina chirurgica, che devo tenermi cara per
tutto il turno. Con questa tenuta posso stare nella sala medici/relax ed
entrare nella zona rossa, a patto di mantenermi nella metà sinistra del
corridoio ed entrare solo in medicheria o in magazzino.
Ho appena preso consegne che una
paziente decide di disconnettersi il casco: qualcuno deve entrare per
sistemarglielo, ma gli infermieri sono a fine turno e sprecheremmo del
materiale per pochi minuti di utilizzo, così entro io.
Mi metto la cuffia di tessuto non tessuto (10 secondi).
Mi lavo le mani con la soluzione idroalcolica (40 secondi).
Indosso il camice impermeabile chiudendolo dietro al collo e al fianco con un fiocco (30 secondi).
Mi metto la maschera filtrante (20 secondi).
Indosso il visor (5 secondi).
Mi lavo le mani con la soluzione idroalcolica (40 secondi).
Metto i guanti della mia misura (15 secondi).
In ogni passo sono assistita da un infermiere che spunta la checklist e la firma al termine.
A questo punto faccio il mio ingresso trionfale nell’open space in
cui alloggiano tutti e sei i pazienti. Salvo la paziente del letto 4
dal soffocamento riconnettendo il casco al ventilatore, le spiego che
anche se le manca il fiato è altamente sconsigliabile tentare di
autorimuoversi il casco perché rischia di precipitare da una brutta
sensazione di dispnea al soffocamento vero e proprio causato dal restare
con la testa in un sacco di plastica dove non arriva aria.
Sudo sotto il camice impermeabile e il visor. Farsi capire dai pazienti è una fatica: già normalmente per parlare con chi ha un casco bisogna urlare, se poi indossi anche una maschera e un visor è un’impresa. Compiutala, aspetto. Aspetto il cambio degli infermieri e il ricovero di un nuovo paziente che deve arrivare dal pronto soccorso. Corro su e giù a tacitare allarmi dei ventilatori, a sistemare caschi, a chiudere flebo, a riavviare motori di materassi antidecubito, a riposizionare saturimetri. A un certo punto non ho più niente da fare. Ma non posso uscire, dovrei rientrare per il ricovero e sprecherei del prezioso materiale. Non posso fare nulla, però, così bardata, a parte sedermi e aspettare. Dopo 40 minuti a fissare il vuoto giunge un infermiere a salvarmi. Iniziamo il giro letti, per sistemare per la notte un paziente alla volta. Mi colpisce quanto ci sia da fare e a quante cose noi medici non diamo peso, semplicemente perché ci pensa qualcun altro. Per dormire (o almeno provarci) il paziente deve essere ben sistemato nel letto, con le lenzuola che non facciano pieghe, con la coperta se la vuole, deve aver bevuto, essere stato rassicurato, le flebo non devono finire nel cuore della notte o suoneranno gli allarmi, i cateteri devono essere vuoti. Mille piccole premure che gli infermieri dispensano quotidianamente, mentre noi ci preoccupiamo di chiedere esami, cambiare terapie e visitare i pazienti.
Quando arriva il ricovero mi rendo conto di un altro problema al quale non sono abituata: nulla può uscire dalla stanza. Se il paziente entra con la cartella del pronto soccorso bisogna buttarla e ristamparla da capo, se entra senza devo visitarlo senza i dati precedenti. Devo ricordare a memoria parametri, ecografia e anamnesi, per poterli scrivere un’ora o anche tre dopo, quando uscirò dalla stanza. Sembra banale, e in effetti siamo abituati a ricordarci dettagli dei pazienti anche dopo molto tempo, ma quando hai una sola malattia da curare, tutte le storie si assomigliano. Mi aveva detto che aveva solo febbre o anche tosse? I sintomi saranno iniziati 7 o 10 giorni fa? E l’ecografia com’era? Era lui che aveva quell’addensamento basale o il suo vicino? E come avrò impostato il ventilatore? Per la prima notte me la cavo con la memoria, anche perché il paziente è uno solo, ma a breve si renderanno necessarie altre strategie.
Dopo alcune ore passate dentro ho le
vertigini, scoprirò poi che capita a molti, qualcuno lamenta invece
cefalea. Sospettiamo che sia colpa delle mascherine che costringono a
inalare più anidride carbonica del dovuto, ma potrebbe anche essere la
fatica continua, il rumore, gli allarmi.
Finalmente, dopo quasi 4 ore, esco dalla stanza.
Rimuovo i guanti.
Lavo le mani.
Rimuovo il camice slegandolo di lato e accartocciandolo su se stesso toccandolo solo dall’interno.
Lavo le mani.
Rimuovo il visor toccandolo solo da dietro.
Lavo le mani.
Rimuovo la maschera (prima l’elastico inferiore).
Lavo le mani.
Rimuovo la cuffia toccandola solo dall’interno.
Lavo le mani.
Rimetto la mascherina chirurgica.
Bevo mezzo litro d’acqua in un sorso solo.
Vado a fare pipì.
Riscrivo al pc tutto quello che ho fatto al nuovo malato ricoverato,
chiedo gli esami, imposto la terapia, compilo la scheda di ingresso per
la raccolta dati.
Muoio su una poltrona per circa un’ora.
Arriva il cambio, sospiratissimo.
Sempre nel pomeriggio la telefonata mi
aveva avvisato: «La seconda cosa che devo dirti è che da oggi ci
facciamo la doccia a fine turno, quindi portati un asciugamano e le
ciabatte». Io, che di solito non faccio la doccia neanche in palestra,
preferendo di gran lunga quella di casa mia, sono stranamente sollevata.
Non mi è piaciuto tornare a casa dall’ultimo turno e dovermi fiondare in
bagno abbandonando i vestiti in ingresso. Non mi sono sentita protetta a
mettere la giacca, il casco, i guanti, dopo aver visitato malati Covid
con l’esile protezione di un camicino usa e getta e una mascherina
chirurgica.
Recupero il mio fedele accappatoio in microfibra e le ciabatte di
plastica che mi hanno accompagnato nei peggiori ostelli del mondo e li
infilo nello zaino, solo che non mi sto preparando a un viaggio in
India, ma a un improbabile tour post-apocalittico, come quelli che ora
organizzano al reattore nucleare di Chernobil.
Il nostro spogliatoio si è trasformato in un bagno attrezzato: sono
spuntati dei phon nettamente migliori di quello che ho a casa e sembra
un po’ di essere in piscina o alle terme… coda per la doccia a parte.
Però questo clima un po’ campeggio, un po’ apocalisse ci sta rendendo
tutti più uniti. Come dice una collega: «Quando tutto questo sarà finito
o saremo una grande famiglia o non ci potremo più vedere». Speriamo la
prima.
3. L’isolamento rumoroso dei pazienti
Vuoi essere libero Andrew? Ti importa molto esserlo?
Andrew disse: – Vorreste essere schiavo, vostro onore?
– Ma tu non sei schiavo. Tu sei un ottimo robot, un genio nel
tuo campo, a quanto ho sentito, capace di creazioni artistiche che non
hanno uguali. Cosa potresti fare di più se fossi libero?
Forse niente, vostro onore, ma tutto quello che farei lo farei
con maggiore gioia. In quest’aula ho sentito dire che solo un essere
umano può essere libero. A me pare invece che chiunque lo desideri
dovrebbe poter essere libero. E io voglio la libertà.
(Isaac Asimov)
Se il reparto ha cambiato aspetto, la
sala medici ha subito una trasformazione netta: è diventata sala medici,
studio del primario, cucina e zona relax. Tutto il tempo che passiamo
fuori dalla zona rossa si concentra qui. In poco tempo, con il
contributo di tutti, compaiono gli oggetti essenziali per sopravvivere:
una macchinetta del caffè, un forno a microonde, una piccola dispensa.
Ogni giorno arrivano pacchi solidali dagli esercizi ancora aperti:
pizza, torte, una sera addirittura una vaschetta di gelato. Ci sono
poche regole universali negli ospedali e una di queste è che il cibo è
sempre bene accetto: nulla sarà accolto con più entusiasmo di qualcosa
di buono con cui buttare giù il ventesimo caffè durante una pausa di tre
minuti in un turno che sembra eterno. I messaggi che accompagnano i
vassoi sono ancora più commoventi «#andràtuttobene»,
«#aiutiamochiciaiuta», perfino un «non buttate il vassoio che vengo a
riportarvelo pieno».
Più problematica è la gestione delle visite e in particolare la comunicazione interno-esterno. Nell’open-space
(lo stanzone da 7 letti diviso dalla zona pulita da un lungo vetro) è
stato installato un interfono: da fuori si può parlare a un microfono e
la voce viene diffusa all’interno; da dentro, in teoria, i suoni vengono
amplificati e riprodotti all’esterno. Se può essere sufficiente per gli
allarmi dei ventilatori non lo è, però, per le nostre parole: sotto
maschere e visor e con il rumore continuo dell’aria nei caschi e degli
allarmi non basta sgolarsi per farsi comprendere da fuori. Il problema
c’è sempre stato, ma è storicamente stato risolto con l’acquisizione di
una grande abilità a sillabare attraverso il vetro e a leggere il
labiale dal lato opposto. Con le mascherine neanche questa è un’opzione
praticabile. La prima soluzione attuabile, la più rapida, è prendere
appunti su un foglio e appoggiarlo al vetro affinché chi si trova
all’esterno possa copiare/fotografare o leggere quanto scritto. Ciò
implica, naturalmente, essere sempre due in turno.
Quando, però, a partire dal secondo giorno iniziamo a riempire le altre
stanze, che non hanno un vetro, la situazione si complica. Bussiamo
sulla porta per richiamare l’attenzione di chi si trova all’esterno, poi
lasciamo scivolare un foglio sotto la porta e chi sta fuori (senza
toccarlo) lo fotografa o ci porta il materiale necessario.
Sempre grazie all’intraprendenza del personale (e del primario) a
facilitarci il compito compaiono dapprima un baby monitor, una di quelle
radioline che si usano per controllare il sonno dei neonati, e dopo
qualche giorno quattro coppie di walkie talkie.
La comunicazione tra noi migliora, ma rimane indispensabile la presenza
di due medici in ogni momento: chi è dentro le stanze vestito da
astronauta perde il senso del tempo ed è impossibilitato a gestire le
relazioni con l’esterno. Programmare i ricoveri, rispondere alle
telefonate, effettuare consulenze nei reparti Covid a bassa intensità,
tutto viene gestito da chi è fuori, mentre chi è dentro rappresenta
mani, occhi ed ecografo del medico all’esterno.
Diverso tipo di isolamento subiscono i
pazienti. Costretti ad abbandonare i familiari al triage, entrati in
ospedale da soli, chiusi in un casco che li fa assomigliare a dei minions
o a dei robot di futurama, visitati da personale di cui intravedono
solo gli occhi, vivono ciascuno nel proprio rumoroso isolamento.
È difficile spiegare come funziona e a cosa serve il casco nel quale si
vedono rinchiusi la maggior parte dei pazienti al telegiornale, ma ci
provo lo stesso.
I polmoni funzionano in genere a pressione negativa, cioè i nostri
muscoli espandono il torace creando una depressione che fa entrare
l’aria nei polmoni. A questa pressione sub-atmosferica alcuni degli
alveoli, specie se malati, possono chiudersi.
Quando i polmoni faticano ad espandersi, ad esempio perché pieni di
liquido infiammatorio, come nella polmonite da Covid, può essere utile
“gonfiarli” un po’ dall’esterno. In questo modo il paziente continua a
usare i suoi muscoli per respirare, ma lo fa a una pressione leggermente
maggiore di quella atmosferica, cioè le parti di polmone più colpite
non si chiudono più tutte le volte che espira e l’ossigeno passa più
facilmente dall’aria al sangue. Questa tecnica prende il nome di
pressione delle vie aeree positiva continua (CPAP). Uno dei metodi più
efficaci (e più antichi) per ottenere la CPAP è utilizzare un casco di
silicone connesso a un flusso d’aria: l’aria entra da un lato, gonfia il
casco e fuoriesce da un buco nel lato opposto del casco, dove viene
posta una valvola. Se la pressione nel casco supera quella di settaggio
della valvola, l’aria esce. In questo modo, a seconda di come regolo la
valvola, la pressione nel casco è da 5 a 20 centimetri d’acqua più alta
che nell’atmosfera e il paziente, respirandoci dentro, gonfia i polmoni
più facilmente. L’effetto CPAP più semplice che possiate immaginare è
respirare fuori dal finestrino di un’auto in corsa (ma vi sconsiglio di
provarci se non volete finire decapitati).
Il flusso d’aria necessario a mantenere questa pressione è molto alto e
può essere ottenuto in due modi. Quello costoso e moderno è un
ventilatore a turbina (o ad aria compressa): immaginatevi un minuscolo
motore di un aereo che pompa aria in un tubo, voi regolate un parametro e
lui eroga aria fino a ottenere la pressione desiderata. Quello antico
ed economico è un venturimetro: semplificando al massimo concetti di
fisica che non credo abbiate voglia di ripassare, un flusso d’aria in un
condotto stretto e forato genera un vuoto di pressione che richiama
aria dall’esterno. Grazie all’effetto venturi un flusso di 10 litri al
minuto convogliato nel giusto modo può generarne uno di 30 o 40. I
caschi con venturimetro hanno una scatoletta che regola il flusso e si
attacca al muro alle tubature dell’ossigeno, un filtro, un tubo
corrugato che porta aria al casco, e una valvola di uscita.
Il problema è che i caschi sono rumorosi, ingombranti e fastidiosi.
Immaginate di avere per tutto il giorno il ronzio del motore di un
aereo, ma 10 volte più forte nelle orecchie. Di non poter bere,
mangiare, grattarvi il naso o sistemare i capelli. Di avere degli
spallacci sotto le ascelle che tengono fermo il casco a livello del
collo e di avere tubi e protuberanze varie che sporgono dal casco e vi
impediscono di trovare una posizione comoda per appoggiare la testa sul
cuscino. Tutto questo per giorni e giorni. Così sono i nostri minions della subintensiva: sofferenti e giustamente insofferenti.
Così capitano anche episodi toccanti, come quello che racconta con queste parole la nostra infermiera Alessia:
«la signora ti chiama
tu hai caldo (avvolta come un palombaro nei tuoi ormai compagni di viaggio, nonché migliori amici, DPI)
ti trascini verso di lei: “dica signora”
“mi vergogno un po’ ma… vorrei solo UN ABBRACCIO!”
non puoi tirarti indietro e la abbracci, perché forse è anche quello di cui hai bisogno tu.
La conferma che questo COVID non colpisce solo il corpo».
4. La comunicazione medico-paziente
«Quarantadue! ‒ urlò Loonquawl ‒. Questo è tutto ciò che sai dire dopo un lavoro di sette milioni e mezzo di anni?»
«Ho controllato molto approfonditamente, ‒ disse il computer ‒,
e questa è sicuramente la risposta. Ad essere sinceri, penso che il
problema sia che voi non abbiate mai saputo veramente qual è la
domanda».
(Douglas Adams, Guida galattica per autostoppisti)
In questo mondo di videochiamate,
videoaperitivi, zoom, meet, skype, facetime e app che fino a ieri non
avevamo mai sentito i malati Covid vivono in una bolla.
Vengono prelevati a casa da operatori del 118 in tuta impermeabile
bianca o arrivano al pre-triage dove i parenti vengono rispediti a casa e
finiscono in un vortice dal quale usciranno dopo poche ore o dopo molte
settimane, sempre con gli stessi vestiti, alcuni senza telefono, senza
possibilità di comunicare con l’esterno. Alcuni finiscono dentro a un
casco, che rende impossibili le telefonate, altri addormentati con un
tubo in gola, impossibilitati quanti altri mai a comunicare. Neanche la
morte li libera dall’isolamento. Vietate le visite alle camere
mortuarie, vietato il trasporto della salma a cassa aperta, vietati i
funerali. Un lenzuolo imbevuto di candeggina, una benedizione all’aperto
davanti al cimitero e via.
L’ospedale ha chiuso le visite ai parenti e i colloqui si svolgono per telefono.
La comunicazione medico-paziente e medico-parente è molto difficile e delicata sempre, ma in queste circostanze è un’impresa.
Noi medici odiamo le comunicazioni telefoniche e mai come ora il motivo
mi si è reso evidente. Inizialmente pensavo che il divieto di fornire
informazioni telefoniche fosse principalmente una questione legale di
verifica dell’identità del parente, ma non è così. Per quanto possiamo
parlare lentamente, cercare di utilizzare un lessico semplice e
rispiegare più volte i concetti, le persone con cui ci interfacciamo
comprendono un decimo di ciò che diciamo loro. Perché sono agitati,
perché sono troppo concentrati a cercare di capirci e, ovviamente,
perché noi pensiamo di essere chiari e non lo siamo. Per di più l’unica
cosa che tutti vogliono sapere, cioè se il loro caro si salverà, è
l’unica cosa che evitiamo a tutti i costi di dire, perché non lo
sappiamo.
Solo la comunicazione ordinaria, faccia a faccia, funziona. Potrebbe
andare meglio, molti di noi non sono bravi, ci sono problemi di tempo e
di luogo, ma grossolanamente funziona e in gran parte lo fa grazie alla
comunicazione non-verbale.
Il medico che si trova di fronte un parente può comprendere il suo stato
d’animo dal volto, può intuire dall’espressione perplessa che non ha
capito e rispiegare qualcosa anche se non gli viene esplicitamente
richiesto, può confortare con una mano sulla spalla o può incoraggiare
una domanda che vede affiorare alle labbra. Il parente che non capisce
buona parte di ciò che il medico gli dice, invece, ha, nel colloquio di
persona due grandi vantaggi: leggere sulla la faccia del medico se le
notizie sono buone o cattive, e interpretare lo stato generale del
malato vedendolo.
Nei colloqui telefonici noi medici restiamo unici occhi e dispensatori
di conoscenza di chi sta all’altro capo del telefono e in pochi minuti
dobbiamo riassumere concetti complessi senza alcun aiuto visivo e
non-verbale. Come sintetizzare una serie di parametri in poche parole
comprensibili a casa? Molto spesso non capiamo neanche noi come vadano i
pazienti, figuriamoci se siamo in grado di spiegarci in modo facile. Ha
una frequenza respiratoria leggermente più elevata di ieri, ha avuto di
nuovo la febbre, l’ecografia sembra un po’ meglio. È sostanzialmente
uguale a ieri… ma loro il malato non l’hanno visto né ieri, né ieri
l’altro e forse neanche una settimana fa, che significato dare a queste
parole? Chi è a casa non ha mai visto un casco, una maschera da
ventilazione, un paziente intubato, una terapia intensiva. Ciò che gli
raccontiamo è più che mai oscuro e quello che vorrebbero sapere non
glielo diciamo. Ho perso il conto delle volte, in questi giorni, che mi
sono sentita dire: «Guarirà?». E non conta quanto siamo espliciti nella
comunicazione, chi ha qualcuno a cui tiene in ospedale cerca di
appigliarsi a ogni condizionale per credere che andrà tutto bene, per
cercare nella nostra voce un filo di speranza. Ieri il marito di una
signora anziana che non sta andando affatto bene, alla terza ripetizione
del «Non sta andando bene e se non migliora con il casco non abbiamo
altre terapie a disposizione» mi ha risposto «Ma tra quanto tempo si può
considerare fuori pericolo?» «C’è rischio che non ce la faccia?». Sì,
c’è sempre rischio che non ce la facciano, quanto concreto vorrei
saperlo anch’io.
R. ha 50 anni, un po’ sovrappeso come
quasi tutti i nostri ricoverati, ha sintomi da una settimana, ma è
peggiorato improvvisamente, gli abbiamo messo un casco al volo, ma
appena lo disconnettiamo respira malissimo. È giovane, sano; sappiamo
tutti che merita una chance in più del casco, bisogna intubarlo
e portarlo in rianimazione. Lui è inquieto, vorrebbe bere, vorrebbe
togliere il casco, parlare con la moglie. Gli spieghiamo che non si può.
Ciascuna di queste cose comprometterebbe la delicata operazione
dell’intubazione e diminuirebbe significativamente le sue possibilità di
sopravvivenza. Mentre gli spieghiamo cosa faremo è spaventatissimo,
dentro al suo casco rumoroso, mentre quattro omini blu di cui può
intravedere solo gli occhi sotto una maschera di plastica gli urlano che
respira troppo male e che dobbiamo addormentarlo, mettergli un tubo in
gola e connetterlo a un respiratore per dare ai suoi polmoni la
possibilità di guarire. Chiede se è proprio necessario. Sì. Chiede se
avviseremo noi la moglie. Sì. Siccome tra gli infermieri che preparano i
farmaci e l’anestesista che si appresta alla procedura sono la figura
più inutile, cedo a R. la mia mano da stringere. Mentre me la stritola
mi fa la domanda che tutti speriamo di non ricevere: «Quante probabilità
ho di svegliarmi?».
Un numero, conforto dell’era moderna.
A saperlo, un numero, e poi, anche sapendolo, quanto è confortante un
numero? Per Douglas Adams, scrittore visionario di una trilogia di
fantascienza nonsense in cinque parti, la risposta alla domanda
fondamentale sulla vita, l’universo e tutto quanto è 42. Ma quale sarà
per R.? Quale risposta mi conforterebbe se stessero per intubarmi? Come
non comprendere la paura di chi si addormenta per non sapere se, quando e
in che condizioni si sveglierà? Quanto è rassicurante avere come ultima
immagine mentale quella di quattro camici azzurri, quattro visori di
plastica con sotto due occhi e una maschera, mentre hai un casco in
testa e senti solo il ronzio assordante dell’aria proveniente dal
ventilatore?
Gli dò l’unica risposta possibile, quella che so essere per certo una
bugia, ma spero sia almeno ciò di cui ha bisogno in questo momento:
«Buone possibilità». Poi mi sento troppo in colpa e aggiungo: «Lo
facciamo perché è la cosa che le dà le maggiori possibilità di guarire».
Nelle varie leggi non scritte dell’ospedale c’è quella di non essere mai
troppo ottimisti. Mai definire una notte “tranquilla” prima di
sbollare, mai promettere che “andrà tutto bene”. Non basta un arcobaleno
al balcone per una profezia che si autoavvera.
R. è morto a meno di 24 ore da quel «Quante probabilità ho di svegliarmi» che mi appesantirà per sempre il cuore.
5. L’arte di arrangiarsi
In questo scenario che dai media è stato definito più volte “di guerra” apprendiamo tutti l’arte di arrangiarci.
Dal primo giorno, a ogni turno, ci arrivano pacchi di maschere filtranti
diverse: alcune con le scritte in cinese, altre in pacchi da 10 simili
in modo sospetto a quelle delle ferramenta, a volte con la valvola,
altre senza, moltissime difettose. Quando una si rompe cerchiamo di
aggiustarla, per non sprecarla. In rianimazione una carrozzeria ha
donato delle tute impermeabili per verniciare, utilissime anche per
proteggersi dal Covid. La moglie di un paziente, ginecologo, ci ha
donato delle preziosissime maschere da ventilazione.
Lo shock culturale è enorme, ma come tutti gli shock di questo strano
tempo, ci si abitua. Passiamo improvvisamente dalla medicina
usa-e-getta, quella in cui per mettere un accesso venoso centrale butti
via due camici, due vaschette, un paio di pinze, delle forbici, un
bisturi, due pacchi di garze e un boccetto di clorexidina, all’arte del
riciclo nota solo ai più anziani tra noi, quelli che hanno avuto la
dubbia fortuna di lavorare con le suore.
Teniamo da parte tutto ciò che non usiamo, prima o poi tornerà utile,
sterilizziamo tutto ciò che può essere sterilizzato, assembliamo parti
che mai avremmo pensato fossero compatibili. In breve tempo diventiamo
esperti di assemblaggio, di flussi d’aria garantiti dalle tubature, di
sblocco di ventilatori domiciliari, di adeguamento di maschere. Ogni
giorno nasce un problema diverso e bisogna arrangiarsi a risolverlo: un
giorno finiscono i caschi, quello dopo siamo senza flussimetri. Un
giorno recuperiamo un po’ di ventilatori domiciliari ma ci mancano i
circuiti dedicati e finiamo a rovistare negli armadi del reparto per
recuperare campioni donatici anni fa e a cercare un modo per connettere i
pezzi. Qualsiasi rifornimento porta all’esaurimento di altro materiale
di cui avevamo abbondanza relativa. Così le chat di reparto pullulano di
video-tutorial per ventilare senza casco/senza valvola di peep/senza
ossigeno/senza raccordo.
C’è chi si è inventato il sistema per ventilare due pazienti con un solo
ventilatore e non mancano le richieste improbabili: attrezzature da sub
che possono diventare misuratori di ossigeno per i caschi, fettucce che
possono sostituire i fissatori delle tracheostomie… e poi ci sono le
maschere da snorkeling di Decathlon. Alla prima foto che ho visto su un gruppo facebook non ci credevo, e sì che sono cintura nera di art attack.
Poi nel nostro pronto l’abbiamo sperimentata e a quanto pare funziona.
Funziona così bene che Decathlon dapprima ha messo in guardia dal
modificare le sue attrezzature testate solo per le attività all’aria
aperta, poi ha preso atto che «in una situazione di emergenza sanitaria
come quella attuale e in estrema carenza di presidi respiratori
ordinari» anche le maschere da snorkeling possono essere utili e ne ha donate 10.000.
Mentre l’Italia impara a fare il pane e la pizza noi impariamo a
ventilare i pazienti con qualsiasi cosa. Il mio professore del liceo
sosteneva che studiare la fisica serve perché se un giorno ti trovassi
nel deserto con un furgone con una ruota a terra e avessi a disposizione
solo il cucchiaino prestato da un tuareg, adeguate conoscenze ti
consentirebbero di sfruttarlo al meglio per sostituire la ruota. Se
potesse vederci adesso, professore, sarebbe fiero di tutti noi.
Michela Chiarlo
1/4/2020 https://volerelaluna.it
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