Fermare la strage sui luoghi di lavoro

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Il lavoro come diritto inalienabile a una vita di benessere collettivo è sottoposto al più grande attacco dal dopoguerra, e con esso la Costituzione di una Repubblica fondata proprio su tale diritto sociale.

Da almeno trent’anni il mondo del lavoro e le condizioni dei lavoratori sono stati abbandonati dalla politica e, spesso, di concerto con le rappresentanze sindacali, rendendolo invisibile nella sua materialità con la litania ultradecennale “la classe operaia non esiste più”, e chi non esiste per decreto è senza voce né rappresentanza. diretta. I passaggi legislativi sono stati molteplici dalla sconfitta del movimento operaio torinese nei primi anni 80, fino alla ‘voucherizzazione’ del lavoro (decreto legge 24 aprile 2017, n. 50).

Ora la pandemia ha dato l’Ultimo colpo con le piattaforme digitali come luoghi virtuali della produzione materiale e intellettuale. Il conseguente degrado delle già labili stanno determinando la totale discrezionalità del datore di lavoro instaurando la monarchia del mercato, derubricando lo stesso concetto di lavoro dipendente, con doveri di legge per l’impresa, dal momento che con le piattaforme i dipendenti vengono considerati lavoratori autonomi, pur restando tutti gli obblighi di produttività, “presenza “oraria, anzi ampliando tali obblighi a dismisura riproducendo il vecchio cottimo e instaurando un sistema di controllo asfissiante tale da portare l’orario di lavoro ben oltre le 40 e più ore attuali.
Il risultato sarà, lo è già di fatto, devastante nella tempistica quotidiana del lavoratore, e ancor di più della lavoratrice sottoposta anche al lavoro domestico e accudimento dei figli.

Cosa vuole il padronato privato e pubblico:

  • farla finita coi contratti collettivi nazionali di lavoro, dunque con norme che definiscono diritti, condizioni, tempi, modalità di lavoro, aumenti salariali uguali per tutti.
  • sostituirli con i contratti aziendali, e perché no anche individuali, attraverso cui imporre norme e condizioni misere, in materie di retribuzioni, orari, regole di assunzione.
  • barattare attraverso i contratti aziendali gli aumenti salariali con forme di welfare aziendale privato, vale a dire incentivando forme di sanità, previdenza, assistenza integrative private presso assicurazioni o banche prescelte dal datore di lavoro.
  • debilitare le sue tutele, ivi compresi gli ammortizzatori sociali, eliminando i legami automatici tra lavoro, salario, orario, tutele, contrattazione
  • libertà di licenziare senza vincoli di leggi e ricorsi alla magistratura, non sopportando più la contrattazione di volta in volta col governo nonostante abbiano sempre ottenuto ampia disponibilità per le loro richieste.

Tutto questo disegno troverà compimento se verrà approvata l’Autonomia Differenziata, una vera e propria secessione delle zone ricche e industriali dal sud Italia, e torneranno le gabbie salariali. Stipendi diversi da nord a sud.
Nel periodo in cui vi erano le gabbie salariali le differenze di stipendio tra Nord e Sud raggiungevano tassi anche del 30%. Per queste ragioni furono definitivamente abolite nel 1972

Le retribuzioni orarie nette dei lavoratori dipendenti sono aumentate al Nord tra l’1,5 e il 2% e si sono ridotte al Sud di quasi un punto e mezzo percentuale nel periodo 2008/2017. Con questa proposta dell’Autonomia del centronord si andrebbe verso un superamento di fatto della contrattazione nazionale ed una contestuale nascita dei contratti regionalizzati.

Altro risultato che il padronato tenta di conseguire anche dal punto di vista legislativo, nei fatti comunque è già così, la deresponsabilizzazione sugli infortuni sul lavoro con la totale impunità sulle morti dei loro dipendenti, nonostante, a loro vantaggio oggi la perdita di vite nel processo produttivo è considerata fisiologica, al massimo c’è l’aumento dei costi dell’assicurazione INAIL.

In Italia ci sono più di 800 mila invalidi del lavoro e 130 mila sono le vedove e gli “orfani del lavoro” da malattie professionali (impunemente silenziate dall’informazione e dai dati statistici in base alla smemorazzazione facilitata dalla tempistica di diluizione della morte nel tempo per esposizione o contatto con sostanze nocive e cancerogene nel processo di produzione. I limiti “ammessi” imposti per legge alle sostanze cancerogene non danno nessuna garanzia alla tutela della salute. La salute è continuamente esposta a rischi. Lo vediamo con il continuo aumento dell’inquinamento per polveri sottili e altre sostanze nelle nostre città e con il continuo superamento delle soglie.

Quindi, esiste una guerra non dichiarata fra sfruttati e sfruttatori in cui i morti, i feriti e gli invalidi si contano da una parte sola: quella degli operai e dei lavoratori che producono la ricchezza da cui sono esclusi. Così scriveva Giovanni Berlinguer (Medicina del lavoro in La salute nella fabbrica, Roma 1972, pag, 32): “Nel ventennio1946–1966 si sono verificati in Italia 22.860.964 casi di infortunio e di malattia professionale, con 82.557 morti e con 966.880 invalidi. Quasi un milione di invalidi, il doppio di quelli causati in Italia dalle due guerre mondiali, che furono circa mezzo milione. Mentre la media degli infortuni e malattie professionali nel ventennio 1946–1966 è stata lievemente superiore ad 1 milione di casi annui, negli anni dal 1967 al 1969 la cifra è salita ad oltre 1,5 milioni di casi e nel 1970 ad 1.650.000 di casi“.

Sono passati più di 40 anni da questo studio, ma la condizione della classe operaia italiana è in continuo peggioramento, nonostante ci siano meno lavoratori occupati, aumentano sia i morti sia gli infortuni.

Lo certifica l’Inail lo scorso 1° dicembre: 421.497 denunce di infortunio con un calo (per effetto della riduzione di presenza sul lavoro nelle poche fabbriche che hanno chiuso causa pandemia) del 21,1% rispetto allo stesso periodo del 2019. Ma nello stesso periodo le denunce con esito mortale sono state 1.036 con un aumento del 15,6%.

Tutto questo nonostante le campagne pubblicitarie, la giornata mondiale, il numero dei lavoratori morti per infortuni sul lavoro e malattie professionali sono sempre da bollettino di guerra.
Secondo i dati EUROSTAT nell’Unione Europea c’è un decesso, per cause legate all’attività lavorativa, ogni 3 minuti e mezzo e l’Italia risulta ai primi posti. E l’amianto, in particolare, è responsabile della morte di oltre 100.000 persone l’anno (più di 4.000 nella sola Italia).

Questa condanna a morte di migliaia di lavoratrici e lavoratori per mano di imprenditori, coperti dal silenzio dei governi dediti solo a fare leggi che non fanno poi applicare, che antepongono i loro interessi privati a quelli della collettività nazionale, da nord a sud, può solo essere affrontata dal rianimare i conflitti di classe, avendone cura per salvaguardarli dalle malattie infettive del compromesso politico operato senza alcuna anestesia di mediazione tra interessi opposti.

Siamo consapevoli che sta passando il messaggio che bisogna liberarsi, in un modo o nell’altro, del costo della salute degli ultimi, e in particolare degli anziani di fronte a un’epidemia, o pandemia che sia, i poveri, nonché quelli che, secondo i poteri economici, come i lavoratori sono facilmente scarificabili perché salvaguardarli costa troppo e sono sostituibili perché c’è un immenso serbatoio di riserva rappresentato dai disoccupati e dai precari dei tanti lavoretti.

Siamo consapevoli che i lavoratori sono scarificabili nelle intenzioni dei poteri economici lo dimostra la difficoltà che c’è stata nel mettere in sicurezza, con i dovuti DPI (Dispositivi Protezione Individuali) durante queste settimane di contagio da coronavirus.

Siamo consapevoli che gli imprenditori possono comportarsi come dei delinquenti perché gli è permesso da questa politica strettamente legata ai loro interessi, ma non è accettabile il loro menefreghismo. Solo gli scioperi spontanei hanno costretto governo e imprenditori a discutere, senza nessun provvedimento concreto ad oggi, di un provvedimento elementare, in particolare di fronte alla non chiusura delle fabbriche con produzione non essenziale. Come si chiama questo atteggiamento? Si chiama processo di induzione alla morte! Già un paio di anni fa lo disse senza mezzi termini il Fondo Monetario Internazionale (FMI): i poveri vivono troppo a lungo.

Siamo consapevoli che è un processo iniziato da decenni con il depotenziamento della medicina del lavoro, del sistema dei controlli da parte dell’Inail e della Asl, una strategia atta a ridurre ai minimi termini i controlli su cantieri e aziende. Un esempio eloquente è dato dal già debole testo 81/08 che ha subito numerose rivisitazioni nell’ottica di alleggerire le sanzioni e le pene a carico dei padroni.

Nella crisi pandemica, gli opposti interessi tra profitto e salute hanno reso ancora più urgente la convergenza tra le rivendicazioni operaie centrate sulla non-negoziabilità del diritto alla salute e le istanze emergenti per la giustizia climatica.

Gli stati di malattia non hanno solo cause biologiche, ma sono determinati anche dai contesti sociali e dalle relazioni di potere che gli individui vivono e subiscono.
Lo sviluppo industriale, spacciato per progresso è un autentico cancro per la società e per l’ambiente. Un tumore nell’aria, nell’acqua, nella terra e nei corpi. Cosa ancora pienamente dimostrato dalla mancata zona rossa in Val Seriana nel febbraio di quest’anno e ancora nel rifiuto di chiudere le attività produttive anche oggi di fronte ad una più diffusa e devastante terza ondata pandemica dopo questa che stiamo vivendo.

Il Covid-19 ha soprattutto fatto esplodere le sofferenze da decenni già presenti nei luoghi di lavoro come nelle periferie delle grandi città. Certamente un operaio dell’ex-Ilva, un operaio torinese sopravvissuto licenziamenti dell’ex FIAT, l’operaio schiavizzato nelle boite venete, o un’abitante del quartiere Tamburi di Taranto possono certificarlo sulla loro pelle. Dalle loro testimonianze potrebbe nascere una nuova collettività resistente, perché la condizione operaia operaie e giustizia climatica devono convergere, perché i processi instaurati da questo sistema produttivo ha accelerato enormemente accelerato la circolazione di patogeni. Lo dimostra il numero delle vittime e dei contagi tra marzo e maggio scorso nella provincia di Piacenza – centro nevralgico della logistica.

Quindi l’emergenza sanitaria evidenzia una collusione tra condizione di lavoro nelle fabbriche, come negli altri luoghi di assembramento selvaggio di forza lavoro, diffusione inarrestabile dei patogeni. Come è anche evidente che sono serbatori di incubazione del virus causa scarse, e persino assenza totale, di precauzioni. E su questo stato di cose, ignorato dai governi e dalle istituzioni locali, che si inserisce la criminale pressione, andata in porto, della Confindustria contro le zone rosse in Lombardia nella prima fase e la totale indifferenza sui focolai sui luoghi di lavoro, e nei trasporti afferenti, che verifichiamo in questa seconda fase.

Si continua, come se nulla fosse successo e sta succedendo, con il primato del profitto sulla salute e sulla vita delle lavoratrici e dei lavoratori, quelli, di quelle e quelli che non saranno “allontanati “ dai luoghi fisici di produzione per essere sfruttati direttamente con lo smartworking.

E’ o non è all’ordine del giorno il bisogno della lotta di classe per sradicare dalle mani delle imprese il potere di vita, pessima, e di morte di milioni di persone?
Questa domanda non è rivolta ai sindacati che, comunque, dovrebbero fermare la loro suicida azione concertativa con il governo e il padronato privato e pubblico. E’ rivolta al silenzio, alla paura, alla testa di chi si sente costretto a scegliere se continuare a sopravvivere di stenti o morire, di covid e di infortuni sul lavoro.

Franco Cilenti

Pubblicato sul numero di dicembre dal mensile Lavoro e Salute

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