Da grande voglio fare il martire

Un mural dedicato a Shireen Abu Akleh a Jenin, le foto sono di Alessia Ricci

Già nelle prime ore dell’assalto al campo profughi di Jenin – durato due intere giornate: il 3 e 4 luglio – otto persone palestinesi erano state assassinate, molte decine i feriti. Nelle strade distrutte dalle ruspe che si accanivano sui tubi dell’acqua e i fili elettrici, la gente terrorizzata cercava rifugio e i feriti assistenza medica, ma i mezzi delle forze di occupazione israeliana ostacolavano il passaggio delle ambulanze, qualcuno è morto dissanguato. È la logica della punizione collettiva, il castigo, uno dei tratti fondanti dell’oppressione israeliana da decenni. A un mese di distanza, i bulldozer israeliani sono ancora dispiegati a Jalamah, a 5 km da Jenin, e si teme un nuovo sanguinoso raid punitivo da un giorno all’altro. La tensione nel campo resta altissima. Alessia Ricci è stata al Khalil Suleiman Government Hospital, l’unico ospedale pubblico di Jenin, posto proprio a ridosso del campo, bersagliato dai proiettili e dai gas durante l’ultima irruzione israeliana. Lì ha incontrato il dottor Wisam Baker, direttore generale dell’ospedale, che le ha spiegato perché a Jenin, per i bambini di oggi, così come per quelli che bambini lo erano durante l’invasione del 2002 – durata 11 giorni – nella seconda Intifada, non c’è mai stata alcuna possibilità di immaginare un futuro diverso. Il castigo, la ferocia dei raid aerei e l’attesa dell’avanzata di una nuova aggressione terrestre, l’apartheid e le umiliazioni quotidiane a cui resistere sono la sola “normalità” vissuta. “Da grande voglio fare il martire”, dicono quei bambini cui, anno dopo anno, viene strappata l’infanzia. La mattina, prima di andare a scuola, passano al cimitero per far visita a una nonna, un papà, un compagno di giochi che il regime di occupazione ha chiamato “terrorista” prima di togliergli la vita. Questa è Jenin, la città dove si cresce pensando che l’idea di venire uccisi è molto più di una possibilità, quella che incarna forse più di ogni altra la resistenza di un popolo che cade ogni giorno e ogni giorno trova nel proprio dolore la forza per rialzarsi.

Per fermare la spirale di morte e distruzione, è cruciale che la comunità internazionale si impegni con determinazione per porre fine all’occupazione israeliana nei territori palestinesi. La popolazione è psicologicamente distrutta. La nuova generazione cresce tra sangue e violenza. Siamo molto preoccupati: per ogni morto palestinese negli scontri con l’esercito israeliano, almeno 10 bambini sono pronti a emulare i martiri. Una escalation che non serve a nessuno. Per il bene di tutti, di Israele, della Palestina, della comunità internazionale, bisogna arrestare il regime di occupazione che Israele esercita illegalmente nei territori palestinesi. Questo il messaggio del Dottor Wisam Baker, direttore generale del Khalil Suleiman Government Hospital, l’ospedale pubblico della città di Jenin, hotspot nel nord della Cisgiordiania, oggetto di raid israeliani il 3 e 4 luglio scorsi.

A un mese dall’irruzione dell’esercito di Netanyahu nel campo profughi di Jenin, la tensione riprende altissima in queste ore. I bulldozer israeliani sono dispiegati a Jalamah, città di confine a 5 km da Jenin. Un nuovo attacco è annunciato dal governo israeliano e atteso dalla popolazione civile locale da un momento all’altro. 

Non forniamo supporto psicologico nel nosocomio, ma siamo estremamente consapevoli e allarmati per la nuova generazione: è una bomba a orologeria con la miccia innescata dalla rabbia per la perdita della propria dignità e per l’assenza di libertà. Ogni famiglia qui ha almeno un caso di morte da piangere. I bambini non hanno sogni, non hanno speranze, non credono nel futuro: è una situazione drammatica. La comunità internazionale può riconquistare la fiducia di questi ragazzi aprendo gli occhi sui crimini commessi dall’occupazione israeliana, viceversa questi giovani continueranno a credere che l’unico modo per affermare i loro diritti e immaginarsi un futuro libero dall’oppressione, sia attraverso la resistenza”.

Il Khalil Suleiman Government Hospital è l’unico ospedale pubblico di Jenin, serve circa 300.000 persone disponendo delle principali unità mediche. Conta su 300 posti letto per i ricoveri e su 80 ambulatoriali. Il tasso medio di occupazione è del 95%: numeri che indicano una risposta insufficiente ai reali bisogni di assistenza della popolazione.

Confina, letteralmente, con il campo profughi di Jenin: una prossimità nefasta per l’ospedale perché in caso di attacchi al primo, inevitabilmente ne risente il secondo. Esattamente come si è verificato nei giorni dei raid il 3 e 4 luglio.

È cronaca di quelle ore infatti che gas lacrimogeni e proiettili hanno raggiunto il pronto soccorso della struttura rendendolo inutilizzabile, provocando il soffocamento di pazienti e del personale medico e infermieristico. Una capsula dell’aerosol chimico è ancora presente sulla terrazza che sovrasta l’accesso principale alla struttura, su cui affaccia l’ufficio del Direttore. Fori di proiettili sono visibili sulle scale esterne dell’edificio.

L’esercito israeliano ha sommessamente riconosciuto la propria responsabilità a margine degli eventi.

Durante il colloquio, il Direttore sottolinea a più riprese l’importanza di spostare la struttura in una zona più sicura della città. Nelle ore di attacco al campo, le strade in prossimità erano sbaragliate. Molti pazienti non hanno potuto raggiungere la struttura per l’ostruzione dei militari, dovendo ripiegare su altri nosocomi, privati, dove l’assistenza ha un costo. Strade distrutte, presidiate e inaccessibili, hanno determinato una dilazione temporale insostenibile anche per il personale medico che si precipitava sul luogo di lavoro per prestare soccorso. Il Direttore ci mostra un video del suo arrivo in ospedale alle 3 di mattina nel primo giorno di attacchi: 100 metri di strada che normalmente si percorrono in pochi secondi, sono riportati in una clip di 9 minuti, ritardi insostenibili in situazioni di estrema urgenza. In quei giorni, l’ospedale governativo ha accolto 85 feriti di cui 25 in condizioni estreme. Più di 150 i feriti totali trattati a Jenin. “Senza il supporto strategico delle strutture private, sarebbe stata una catastrofe considerando la capacità dell’ospedale che dispone di sole 4 sale operatorie”.

Delle 12 persone morte nel raid, 7 sono decedute nelle corsie dell’ospedale visitato.

Il conflitto israelo-palestinese sta vivendo il periodo più violento dalla seconda Intifada: da inizio anno più di 200 persone sono state uccise in West Bank. Le voci delle donne, raccolte nel campo profughi, sottolineano tutte lo stesso messaggio, allineato a quello del Direttore del Khalil Suleiman Government Hospital: “L’attenzione verso i bambini di Jenin deve essere almeno doppia rispetto a quella di altre aree della Palestina. Qui non esiste l’infanzia, si nasce adulti, si diventa professionisti della guerra già dai primi anni di vita: è una generazione esplosiva”. 

I ragazzini e le ragazzine nelle strade polverose e distrutte dai tank sorridono e fanno il verso del mitra con le due mani: “Da grande voglio fare il martire”, dicono. Prima di andare a scuola, la mattina, vanno al cimitero di fronte per pregare sulle tombe dei morti ammazzati. I bambini di Jenin non hanno paura degli scontri, dei bulldozer, dei cecchini, dei gas lacrimogeni. 

Le madri vivono nell’impotenza: “Non esercitiamo più il ruolo naturale di sostegno e protezione verso i nostri figli. Troppo spesso perdiamo il controllo su di loro e non possiamo evitare che si uniscano alla resistenza. Nessuno è esente dal dolore qui, tutti hanno un morto caro da pregare. L’occupazione, la violenza, l’apartheid sono un cancro diffuso nel corpo di ciascuno e della popolazione intera. Jenin è un’isola deserta e noi siamo morti dentro, nei sentimenti, nella speranza. Non vogliamo razioni alimentari, aiuti umanitari. Vogliamo pace e sicurezza, una vita normale per i nostri figli”.

I ragazzini e le ragazzine nelle strade polverose e distrutte dai tank sorridono e fanno il verso del mitra con le due mani: “Da grande voglio fare il martire”, dicono. Prima di andare a scuola la mattina, vanno al cimitero di fronte per pregare sulle tombe dei morti ammazzati. I bambini di Jenin non hanno paura degli scontri, dei bulldozer, dei cecchini, dei gas lacrimogeni.  E questo spaventa i loro genitori.

Le madri vivono nell’impotenza: “Non esercitiamo più il ruolo naturale di sostegno e protezione verso i nostri figli. Troppo spesso perdiamo il controllo su di loro e non possiamo evitare che si uniscano alla resistenza. Nessuno è esente dal dolore qui, tutti hanno un morto caro da pregare. Come madri l’impegno quotidiano è doppio: per stostenere noi stesse e per supportare i nostri figli, ma è difficile dare loro speranza, non ci credono più. L’occupazione, la violenza, l’apartheid sono un cancro diffuso nel corpo di ciascuno e della popolazione intera. Jenin è un’isola deserta. Dov’è la comunità internazionale? Dov’è sono i diritti dei palestinesi sanciti dagli accordi internazionali? Non vogliamo razioni alimentari, aiuti umanitari. Vogliamo pace e sicurezza, una vita normale per i nostri figli”.

Alessia Ricci

4/8/2023 https://comune-info.net

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