Da Liz Taylor e Rock Hudson ad oggi: non calano gli ossessionati dal virus
Nel 1985, la pubblicazione della diagnosi da Hiv da parte dell’attore americano Rock Hudson aveva scatenato il terrore in chi gli si era avvicinato. Nel 2015 un ufficio scolastico suggerisce a una bambina con Hiv di fare lezioni a distanza. La paura del virus anche in assenza di rischi non è cambiata in 30 anni, come confermano i dati dei centralini telefonici Lila.
La copertina di un rotocalco del 1985 ritraeva Liz Taylor in primo piano visibilmente sconvolta ed il virgolettato che le veniva attribuito diceva: “L’ho baciato!”. Si riferiva a Rock Hudson, noto attore americano e prima celebrità a dichiarare pubblicamente di aver contratto il virus Hiv. Rock Hudson aveva scoperto un anno prima la sua condizione e si recava spesso a Parigi per sottoporsi alle più innovative cure dell’epoca. Durante la sua ultima permanenza nella capitale francese, Hudson approvò un comunicato stampa con cui si dava ufficialmente la notizia della diagnosi. L’ospedale in cui era ricoverato si svuotò immediatamente per il terrore del contagio e l’attore volle rientrare subito negli Stati Uniti, ma il suo staff incontrò notevoli problemi nel reperire un volo, poiché nessuna compagnia aerea voleva averlo come passeggero. Alla fine, Hudson fu costretto a prenotare un intero volo solo per lui.
Al termine del 2015, i giornali ci hanno parlato di una bambina con Hiv esclusa dalla scuola e alla quale l’Ufficio scolastico regionale ha proposto di fare lezioni a distanza, dopo che ben 35 comunità di accoglienza hanno rifiutato il suo accesso. Vorrei partire simbolicamente da questi due episodi, così distanti nel tempo ma vicinissimi sul piano dei contenuti, per introdurre un argomento “correlato” che, generalmente, viene abbastanza trascurato e che è spesso motivo di tensione durante il servizio di counselling telefonico. Si tratta dei cosiddetti “worried well” (sani preoccupati), ovvero di quelle persone che pur in presenza di test negativi ed in assenza di vere situazioni di rischio, sono costantemente in ansia perché ossessionate dall’idea di poter contrarre (o aver contratto) l’infezione da Hiv. Persone che vivono paure esagerate e che percepiscono selettivamente solo le informazioni che confermano le loro fobie. Si tratta di una dispercezione dei dati di realtà che è più frequente in chi presenta un’anamnesi di ipocondria e che trova sull’Aids un terreno fertile perché ne può esaltare il valore simbolico punitivo, come ad esempio sensi di colpa relativi a comportamenti di infedeltà sessuale nei confronti della/del partner o al mancato rispetto del proprio codice morale.
I nostri centralini telefonici conoscono da vicino questo tipo di situazione da tempo, ma ciò che più ci preoccupa è che si tratta di un fenomeno in crescita: come risulta dall’ultimo rapporto, il 6,86% delle chiamate che abbiamo ricevuto nel 2015 sono state fatte da persone “worried well”, mentre la percentuale arrivava al il 6,33% nel 2014.
I “sani preoccupati” che ci hanno chiamato l’anno scorso sono per l’85,68% uomini e per il 14,32% donne. Come segnala il rapporto 2015, alcuni autori affermano che la maggior parte di queste persone sono soggette a “pensieri perseveranti o ruminazioni, che sono altamente ansiogeni”. Anche se “il contenuto di tali pensieri varia, la forma è per lo più la stessa: la persona cerca di ricordare sistematicamente ogni dettaglio di ciascuna presunta o reale esposizione al rischio al fine di rassicurarsi sul fatto di non essere mai stato effettivamente esposto al virus”. In particolare, “le persone ossessionate dalla paura dell’Hiv cercano attivamente di ottenere informazioni sulla malattia da qualunque fonte” e “cercano continuamente e spasmodicamente conferme al fatto di non essere state contagiate e si sottopongono ripetutamente al test”. Come gli operatori e le operatrici Lila sanno bene queste persone ci chiameranno più e più volte riproponendoci quasi sempre le stesse domande, che hanno già posto ad altri centralini e le cui risposte hanno già verificato attraverso diverse fonti: libri, riviste, internet, operatori sanitari. Per queste persone il modello ansia-test-sollievo-ansia è un atteggiamento che si ripetete ciclicamente perché non è mai del tutto risolto.
Nei casi più problematici, in cui si configura una vera e propria psicosi, la possibilità di intervenire efficacemente è legata a valutazioni psichiatriche, a eventuali terapie specifiche sul possibile stato depressivo, ansioso o fobico e alla presa di coscienza della condizione di worried well. Ma, più in generale è necessaria una coerenza dei messaggi che vengono dati dai diversi soggetti del mondo sanitario e non, con cui queste persone vengono a contatto.
Ciò detto, vorrei ora tornare ai due episodi raccontati all’inizio per analizzare il fenomeno dei worried well fuori da una concettualizzazione individualizzante che interpreta stereotipo e pregiudizio come un problema del funzionamento mentale individuale. Vorrei cioè spostare lo sguardo su una dimensione più collettiva perché è lì che si impastano risposte emotive e vecchie credenze; ed è lì, nella dimensione sociale, che si strutturano e si rafforzano lo stereotipo e lo stigma. E per quanto il paragone possa sembrare forzato, si tratta, anche sul piano sociale di una dispercezione dei dati di realtà che vengono rielaborati da “contesti culturali ipocondriaci” che trovano, anche in questo caso, un terreno fertile grazie al valore simbolico punitivo che l’Aids rappresenta. Se ancora nel 2015 una bambina con Hiv viene esclusa dalla possibilità di frequentare la scuola perché ritenuta “pericolosa”, questo significa che non abbiamo fatto molta strada dalla copertina in cui Liz Taylor era impaurita dai baci dati a Rick Hudson e che quel 6, 86% di persone worried well che ci hanno chiamato nel 2015 sarà destinato a crescere e con loro aumenteranno stigma e pregiudizio. C’è una correlazione stretta tra dinamiche sociali e vissuti individuali che è sempre bene tener presente.
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