Dai 4 referendum CGIL l’inizio di una svolta?

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Nell’ultimo anno la povertà assoluta è cresciuta fino a coinvolgere 5,7 milioni di persone, che ogni giorno sono costrette a rinunciare alle cure; a decidere se cenare o riscaldarsi, se pagare i libri di scuola o l’affitto di casa.
Questo dato mette in luce una realtà drammatica che smaschera, tra l’altro, l’ingannevole narrazione del governo Meloni dell’aumento dell’occupazione, dal momento che, evidentemente, più che di occupati bisognerebbe parlare di contratti (un lavoratore potrebbe risultare più volte occupato nel periodo di riferimento) e soprattutto le occupazioni sono troppo spesso pagate male, tipiche di un lavoro precario e povero. Tant’è vero che l’Istat non aveva mai registrato prima d’ora un così alto numero di famiglie di lavoratori dipendenti in povertà assoluta, che sono oggi il 9,1% del totale.

Sarebbe, però, un errore attribuire questo pessimo risultato solo alle politiche antipopolari del governo Meloni, che pure ha dato il suo ben poco apprezzabile contributo all’allargamento della platea dei poveri in generale e dei lavoratori poveri.
Sappiamo dai dati Ocse ed Eurostat che tra i Paesi economicamente avanzati l’Italia è l’unico dove i salari sono rimasti al palo e addirittura arretrati rispetto a trent’anni fa. Un lungo e costante processo di svalorizzazione del lavoro che ha accompagnato riforme di precarizzazione e abbassamento delle tutele dei lavoratori. Il Jobs act voluto e introdotto dal governo Renzi (allora PD) nel 2015, da questo punto di vista ha agito come una vera e propria mannaia sui diritti dei lavoratori.

OOvviamente, l’allora presidente del Consiglio, Matteo Renzi, non perse tempo a magnificare gli effetti del Jobs act sulla composizione dell’occupazione e cioè gli stimoli alla stabilizzazione dei contratti precari. Non nuovi posti di lavoro, dunque, ma trasformazione di una quota parte di quelli esistenti perché con il Jobs act, in effetti, risultava conveniente passare da un modello di precarietà (contratti precari) ad un altro (contratti a tutele crescenti), grazie agli sgravi fiscali che le aziende potevano ottenere. lo ammise l’allora vicepresidente di Federmeccanica in un’intervista a Repubblica: “Non si assume perché cambia la legge, se non è lavoro”, però “il Jobs act ha cambiato il clima” dal momento che è stata fornita alle imprese “una leva in più per la flessibilità in uscita”.
Tradotto: il Jobs act non fu un incentivo ad assumere ma risultò conveniente alle imprese per gli incentivi e la facilità di licenziamento di cui poterono da subito avvantaggiarsi.

Se ci concentriamo sul Jobs act è perché dopo di esso nessuna grande riforma di natura giuslavoristica è stata promossa. Con esso, d’altronde, l’Italia è stata posta tra i Paesi con la più alta flessibilità del lavoro nel mondo. Eppure nessun risultato tangibile è stato registrato sul lato dell’occupazione. C’era da aspettarselo, visti i numerosi e autorevoli studi che smentiscono l’assioma liberista che pone una proporzionalità diretta tra flessibilità del lavoro e occupazione.

I risultati sono evidenti e non temono smentita: il numero di occupati ed il tasso di occupazione sono rimasti sostanzialmente stabili e i lavoratori sono meno garantiti di prima, dal momento che il Jobs act ha anche liberalizzato i contratti a tempo determinato con l’abolizione dell’obbligo di causale. Nelle casse delle imprese, nel frattempo, nei tre anni successivi alla sua introduzione sono finiti 17 miliardi di euro di soldi pubblici.

Se osserviamo questa riforma del lavoro dal punto di vista delle dichiarazioni dei proponenti, il Jobs act avrebbe dovuto contribuire ad aumentare l’occupazione e gli investimenti. Da questo punto di vista è stata un fallimento completo. Ma il vero obiettivo era aumentare le condizioni di ricattabilità dei lavoratori quale leva per l’ulteriore abbassamento del costo del lavoro. La riduzione dei salari reali conseguenti alla riduzione delle tutele per una platea molto più ampia di lavoratori mostra che in questa prospettiva, invece, il Jobs act ha avuto effetti che ci pare fossero quelli realmente auspicati da chi ha voluto e votato quel decreto.

Ben vengano, allora, i quesiti referendari promossi dalla Cgil per smontare le tutele crescenti del Jobs act, abolire il massimo indennizzo nei casi di licenziamento ingiustificato, eliminare la liberalizzazione dei contratti a termine e cancellare la norma che esclude la responsabilità solidale delle imprese committenti negli appalti e nei subappalti in caso di infortunio e malattia professionale.

Il sistema delle tutele crescenti, come si sa, ha di fatto esteso la non applicabilità dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, coinvolgendo tutti quei lavoratori che dopo il 2015 hanno avviato un nuovo contratto di lavoro, anche a tempo indeterminato. Se questo primo quesito referendario cancellasse tale meccanismo, non si tornerebbe comunque all’articolo 18 come fu scritto nella legge 300 del 1970, perché prima del Jobs act la manomissione venne dal decreto Fornero di quel governo Monti sostenuto da centrosinistra e centrodestra, che ridusse di molto le possibilità di reintegrazione del lavoratore ingiustamente licenziato. Nonostante ciò, l’abolizione delle tutele crescenti introdotte con il Jobs aprirebbe una discussione nel Paese e premerebbe sulle contraddizioni di partiti – come il PD – che galleggiano sulle ambiguità in materia di tutele dei lavoratori. Soprattutto, sarebbe un segnale di controtendenza rispetto all’idea, che serpeggia tra decenni in ambito accademico e usata come una clava dal padronato e dai governi di ogni risma, secondo la quale per colmare il gap di tutele tra lavoratori precari e stabili si debba ridurre i diritti dei secondi anziché aumentare gli strumenti di protezione dal ricatto dei primi.

Con il secondo quesito si tenterà di aumentare l’indennizzo previsto in caso di licenziamento ingiustificato di un lavoratore dipendente di un’azienda con meno di 15 dipendenti. La divisione tra lavoratori più o meno tutelati (su cui si insinua il condizionamento ideologico di chi vorrebbe tutti i lavoratori più deboli di fronte alle aziende) non sarà certamente colmato ma un piccolo passo avanti si avrebbe anche con il successo del secondo quesito referendario se inserito sulla spinta più generale per dare uno scossone all’impianto normativo con il quale in questi anni è stata intensificata l’offensiva ai danni dei diritti dei lavoratori.

D’altro canto, occorre sottolineare che proprio nelle imprese di queste dimensioni, che sono le più numerose e diffuse costituendo l’ossatura del sistema produttivo italiano, il licenziamento è più facile, perché più conveniente. Provare ad inceppare gli ingranaggi di ricatto in questo ambito potrebbe risultare non del tutto secondario. Si tratta, infatti, di un tassello da mettere insieme agli altri, compreso quello che reintrodurrebbe le causali per i contratti a tempo determinato.

Come noto, infatti, il contratto a tempo determinato può essere stipulato senza indicazione della causale. L’impresa, in questo modo, ha in mano uno strumento di potere molto incisivo nei rapporti di lavoro. Nei primi dodici mesi, infatti, l’impresa non ha alcun obbligo di indicare le causali che giustificano il ricorso ad un contratto a tempo determinato; mentre ci sono possibilità molto ampie per le causali dopo il dodicesimo mese e fino al ventiquattresimo, che di fatto determinano un uso molto discrezionale da parte delle imprese di questa tipologia di contratti.

Quanto sia importante intervenire su questo fronte lo confermano i numeri sul mercato del lavoro in Italia, che mostrano come negli ultimi anni più del 60% dei rapporti di lavoro attivati avviene con un contratto a tempo determinato. Questa massa di contratti precari alimentano una impressionante discontinuità lavorativa. Così oggi si contano oltre 4 milioni di contratti di durata non superiore a 30 giorni; 1,5 milioni di contratti della durata di un giorno.

Come è stato spesso, e giustamente, sottolineato, lavoratori più ricattabili significa anche lavoratori meno sicuri, meno protetti non solo in ambito contrattuale ma pure rispetto all’incolumità fisica e alla tutela salute. I dati su infortuni, morti sul lavoro e malattie professionali che colpiscono tragicamente decine e centinaia di migliaia di lavoratori ogni anno, confermano l’importanza di questo tema, su cui si innesta il quesito referendario che si propone di abrogare la norma che esclude la responsabilità solidale dell’impresa committente in caso di infortunio o malattia di un lavoratore di un’azienda in appalto o subappalto. Le ultime stragi di lavoratori avvenute nei cantieri con aziende in appalto e subappalto, da quella al cantiere Esselunga di Firenze fino a quella della centrale idorelettrica di Suviana, mostrano l’urgenza di questo tema e di un quesito referendario che tra l’altro agisce in contrasto rispetto alla frammentazione dei lavoratori (e quindi in contrasto all’indebolimento del loro potere contrattuale) che la catena di appalti e subappalti produce.

E’ evidente che il percorso di precarizzazione e frammentazione dei lavoratori non si interrompe con una campagna referendaria e con l’abrogazione di alcune delle diverse norme che hanno modificato in peggio la composizione contrattuale del lavoro in Italia. Però il referendum può essere uno strumento per amplificare la voce di chi vuole frenare il circolo vizioso di precarietà-bassi salari-insicurezza.
E’ una strada impervia, certo; pericolosa, anche. Una strada che il governo, il padronato e una certa informazione appiattita sulla dottrina politica ed economica dominante proveranno a minare. Ma è una strada che è stata tracciata e che, in quanto tale, sarà bene percorrere come fosse quella di un corteo in una giornata di lotta per rivendicare a gran voce diritti e salario.

Augurandoci che la Cgil colga l’occasione per aprire una stagione di mobilitazione per tenere alta la discussione e la lotta contro precarietà e frammentazione lavorativa.

Carmine Tomeo

Collaboratore redazionale di Lavoro e Salute

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