Dal fiume al mare, Israele sta conducendo la stessa guerra
+972 Magazine, 26 aprile 2024.
L’assalto a Gaza non può essere compreso se non si considera la strategia del ‘divide et impera’ che Israele applica ai palestinesi di Jenin, Gerusalemme e Nazareth.
In un’intervista sull’economia israeliana rilasciata al quotidiano d’affari The Marker nel 2012, Benjamin Netanyahu si vantava, con una frase diventata idiomatica, che “se si escludono gli arabi e gli ultraortodossi, [Israele] è in ottima forma”. Oggi, il primo ministro sembra voler affinare ulteriormente questa frase: se si esclude tutto il popolo, siamo in una forma meravigliosa.
Non è solo Netanyahu a crederci. Dopo l’attacco del 7 ottobre e la conseguente guerra di annientamento condotta su Gaza, la destra israeliana è euforica. L’attacco missilistico iraniano di due settimane fa è riuscito a distogliere ulteriormente lo sguardo da Gaza, a frenare le critiche internazionali ai crimini di Israele e persino a far guadagnare allo stato una nuova simpatia.
Per un momento, gli israeliani hanno potuto di nuovo guardarsi allo specchio e fingere di vedere riflessa una vittima amata, invece di un bullo indisciplinato, vendicativo e letale. Tuttavia, la catastrofe che Israele sta infliggendo a Gaza non è scomparsa e un’invasione della città di Rafah, se realizzata, probabilmente riporterebbe le scene dell’apocalisse di Gaza sulle prime pagine.
E quando l’attenzione globale tornerà, è fondamentale non cadere nella falsa convinzione, come quella sostenuta dal primo ministro un decennio fa, che Gaza esista in un universo parallelo e che la sua distruzione avvenga nel vuoto. Invece, l’assalto alla Striscia è parte integrante della logica organizzativa del regime di apartheid israeliano tra il fiume e il mare – un regime che molti israeliani sperano continui ad essere in “ottima forma” dopo la fine della guerra.
La categorizzazione dei palestinesi in classi separate – cittadini in Israele, residenti permanenti a Gerusalemme Est, soggetti occupati in Cisgiordania, prigionieri nel ghetto di Gaza e rifugiati in esilio – è il cuore della politica israeliana del divide et impera. Essa nega di fatto l’esistenza dei palestinesi come popolo unico e organico, mantenendoli tutti sotto il dominio della supremazia ebraica.
Mentre gli israeliani possono considerare queste categorie come entità non correlate, questa manipolazione non ha mai preso piede tra i palestinesi stessi, la cui identità nazionale non riconosce questi confini artificiali, anche se questi confini impongono loro diritti ed esperienze diverse. Per questo motivo, il disastro di Gaza non è visto a Jaffa, Nablus o nel campo profughi di Shu’afat come un evento esterno, ma piuttosto come una ferita diretta e intima a un arto del corpo politico palestinese. È vero anche l’inverso: le realtà del campo profughi di Jenin, di Gerusalemme Est e di Umm al-Fahem non possono essere comprese indipendentemente da ciò che accade a Gaza.
Dal 7 ottobre, Israele sta conducendo una guerra totale non solo contro i residenti di Gaza, ma contro l’intero popolo palestinese. È vero, a Gaza questa guerra è condotta con una crudeltà senza precedenti, tanto da essere definita un genocidio. Ma se vediamo il regime israeliano come una mano con cinque dita, ognuna delle quali stringe una parte diversa del popolo palestinese, diventa chiaro come questa mano si sia stretta in un unico pugno di ferro.
Mentre riduce in polvere la Striscia, Israele ha accelerato in modo spaventoso la pulizia etnica in Cisgiordania attraverso la violenza sistematica dei suoi soldati in uniforme e dei suoi combattenti non ufficiali, i coloni. I recenti pogrom in villaggi come Duma e Khirbet al-Tawil non sono episodi aberranti; mentre tutti gli occhi sono puntati su Gaza, i palestinesi in Cisgiordania sono sottoposti ad assedi, posti di blocco e severe restrizioni di movimento. Intere comunità vengono espulse per il terrore esercitato dai coloni che, con l’appoggio dell’esercito, si scatenano senza alcun freno da parte del governo. In effetti, Israele sta cogliendo al volo l’opportunità di cambiare drasticamente la realtà demografica della Cisgiordania. Anche questo è parte integrante della guerra a Gaza.
Nella Gerusalemme Est occupata, nel frattempo, Israele ha avanzato piani per la costruzione di circa 7.000 unità abitative negli insediamenti esistenti o futuri della città, mentre il municipio ha accelerato il ritmo delle demolizioni di case palestinesi. I posti di blocco, che hanno strangolato i quartieri palestinesi della città al di là del muro di separazione, hanno rafforzato la loro morsa. Così come la violenta attività di polizia nei confronti dei residenti palestinesi della città, centinaia dei quali sono stati arrestati da ottobre, alcuni dei quali donne e bambini. Decine di altri hanno rischiato la detenzione amministrativa e molti altri hanno ricevuto divieti di accesso al Monte del Tempio/Haram al-Sharif, alla Città Vecchia o all’intera Gerusalemme.
Anche i cittadini palestinesi all’interno di Israele stanno affrontando un’estrema escalation di politiche oppressive. La macchina della propaganda israeliana (hasbara) indica spesso questi cittadini come prova del fatto che non esiste un regime di apartheid, affermando che gli “arabi israeliani” hanno pari diritti e possono votare ed essere eletti in parlamento. Oltre a decenni di discriminazione nelle leggi e nella pratica, dal 7 ottobre i cittadini palestinesi in Israele hanno goduto anche di: arresti di massa per chiunque esprimesse solidarietà con la popolazione di Gaza; detenzione di leader politici per aver organizzato una protesta contro la guerra; persecuzione di studenti e docenti nelle università; molestie a medici, infermieri e altri operatori del sistema sanitario; e persino detenzione amministrativa.
Alla luce di tutto ciò, ora più che mai è fondamentale non cadere nella trappola della politica israeliana del divide et impera. Dobbiamo vedere questa guerra nella sua interezza e in ogni territorio tra il fiume e il mare, perché ovunque esiste l’apartheid. Se l’attenzione continua a concentrarsi sulla ricerca di soluzioni frammentate per ciascuna delle categorie che Israele ha creato per i palestinesi – invece di concentrarsi sull’unico regime che li considera tutti nemici – il ritorno allo spargimento di sangue e alla morte sarà solo una questione di tempo.
Orly Noy è redattrice di Local Call, attivista politica e traduttrice di poesia e prosa in Farsi. È presidente del comitato esecutivo di B’Tselem e attivista del partito politico Balad. I suoi scritti affrontano la sua identità di Mizrahi, di donna di sinistra, di donna, di migrante temporanea che vive come un’immigrata perpetua, e il costante dialogo tra queste identità.
https://www.972mag.com/israel-gaza-war-apartheid-river-to-sea
Traduzione a cura di AssoPacePalestina
26/4/2024 https://www.assopacepalestina.org/
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