Dal lavoro di cura a quello di controllo

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Noi lavoratori del sociale viviamo quasi ogni giorno stretti dentro una forbice aperta tra la logica della cura e la logica del controllo. Questa contraddizione ci pone una serie di dilemmi etici che solo un approccio riflessivo e situato ci può aiutare a superare: molto spesso i nostri interventi sono incastrati tra la logica burocratica e disciplinare dei regolamenti e i principi della solidarietà e della centralità della persona a cui il nostro lavoro si ispira. Come comportarsi, ad esempio, dinanzi alla famiglia di Giovanna, in emergenza abitativa, incolpevole della sua morosità e sotto sfratto esecutivo, che non ha la possibilità di vedersi assegnata la casa popolare mentre in città edifici pubblici giacciono lì abbandonati e preda della speculazione edilizia? Cosa fare con Aziz, che avrebbe diritto al rinnovo del permesso di soggiorno ma non può ritirare il suo documento perché non ha un lavoro né una casa o con Micheal, che perderà il diritto ad essere regolare in Italia? Come aiutare Paolo, disoccupato da mesi che non può più stare in quella piazza con la sua roulotte, ultimo tetto rimastogli?

Se non vogliamo ridurci a semplici esecutori di ordini imposti dall’alto, il più delle volte antisociali e dunque ingiusti, abbiamo in primo luogo il dovere di valutare qual è il momento in cui il rispetto della legge e della legalità entrano in contrasto con i valori della giustizia, della dignità, della libertà delle persone. E da qui trarre le dovute conseguenze: la disobbedienza consapevole e responsabile diventa un atto dovuto, per noi, in certi casi. Il nostro sindaco Mimmo Lucano ce lo insegna …

Tuttavia è altrettanto fondamentale cercare di comprendere cosa sta accadendo, e perché il nostro operare rischia di trasformarsi irrimediabilmente da lavoro di cura in lavoro di disciplinamento e controllo. La torsione autoritaria delle leggi dello stato, così evidente con questo governo, è infatti la logica conseguenza della trappola della crisi in cui siamo impigliati. Abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità – ci dicono- quindi è necessario operare dei tagli alla spesa pubblica; bisogna cominciare tagliando la spesa sociale, perché è un lusso che non possiamo più permetterci; troppo assistenzialismo, troppo buonismo, troppa accoglienza: per prima cosa riduciamo drasticamente i diritti dei migranti e chiudiamoli fuori dall’Europa. Ma, poi, domandiamoci: non è forse vero che molti senza tetto scelgono di fare quella vita? Che tutto il giorno non fanno altro che bere e sperperare in modo immorale i pochi soldi del portafoglio? Non possiamo contribuire al degrado umano delle persone dando loro sussidi: solo chi si dimostra responsabile e volenteroso potrà accedere agli aiuti di stato; gli altri, che inquinano i nostri centri storici, le nostre stazioni con la semplice loro degradante presenza vanno allontanati: tiriamoli via dalle nostre città. E inoltre: quante persone nei decenni passati sono andate in pensione a quarant’anni? Come in ogni buona famiglia è necessario che i giovani si abituino all’idea che la bambagia è finita: bisogna fare sacrifici, essere disponibili a fare tanti piccoli lavori precari, ad emigrare.

In definitiva ciò che la narrazione dominante ci sta raccontando con sempre più forza dallo scoppio della crisi del 2008 è questo: nei decenni passati abbiamo speso troppo e a causa di questo il debito pubblico è tanto alto; dunque lo stato non può accollarsi le spese necessarie a garantire i diritti sociali universali, altrimenti il debito crescerebbe ancora; perciò bisogna affidarsi al mercato, privatizzare, svendere per fare cassa, tagliare, stringere la cinghia.

Ma è vero tutto ciò? Da anni ormai gruppi di attivisti riuniti nel comitato per l’abolizione dei debiti illegittimi lavora per smontare questa narrazione tossica. E ci sta decisamente riuscendo: grazie al lavoro attento, approfondito, scrupoloso e ragionato di questo comitato abbiamo finalmente scoperto che:
– non è vero che il debito pubblico italiano è cresciuto nei decenni passati a causa di una spesa troppo elevata: lo stato italiano infatti da oltre vent’anni quasi ogni anno incassa più di quanto restituisce ai suoi cittadini in termini di servizi;
– ciò che produce indebitamento sono gli interessi sugli interessi che ogni anno dobbiamo pagare per vederci rinnovati i prestiti da chi acquista titoli di stato;
– una grossa fetta di debito pubblico italiano è frutto di speculazioni finanziarie;
– le privatizzazioni spinte in Italia non hanno fatto abbassare il debito pubblico: anzi, esso è costantemente cresciuto negli ultimi quaranta anni;
– chi ha beneficiato negli ultimi decenni delle riforme fiscali è la classe dei ricchi, che ha risparmiato sulle tasse, a discapito della classe povera e media, che in proporzione ha pagato molto di più;
– gli enti locali, che sono poi i principali erogatori dei servizi sociali territoriali, hanno contribuito solo in minima parte alla creazione del debito eppure ne pagano i costi più alti.

Perché dovremmo pagare solo noi, allora?

La rete delle persone che a partire da questa domanda stanno prendendo consapevolezza di questi ed altri meccanismi infernali cresce sempre di più in Italia. Proprio il 27 ottobre a Roma è stato presentato un importante Dossier su Fisco e Debito, che ci fa capire quali sono stati gli effetti delle controriforme fiscali sul nostro debito pubblico. D’altronde le emergenze sociali della crisi che ci troviamo a fronteggiare sono drammatiche, come dimostra l’ultimo rapporto di Caritas italiana; i costi sociali della cosiddetta crisi durissimi: 5 milioni 58mila sono i poveri nel 2017, con un aumento del 182 per cento rispetto agli anni pre-crisi. Appare ormai evidente che quella del debito è soltanto una trappola che produce asservimento: ci costringono a pensare che l’attacco ai diritti sociali è necessario, mentre esso prosegue inalterato da decenni, con i ricchi che diventano sempre più ricchi e noi che diventiamo sempre più poveri e precari. Il grimaldello del debito è solo l’ennesima trovata per proseguire impuniti nel processo di spoliazione delle ricchezze dalla classe povera e media a quella ricca della società. Con la conseguenza che noi operatori sociali rischiamo di diventare i cani da guardia del disagio sociale, che non trova risposte esigibili in termini di diritti.

Il 23 novembre a Napoli si terrà un importante appuntamento di piazza con i comitati e gli enti locali che hanno cominciato a spulciare i bilanci dei propri comuni, per capire quanto debito c’è lì dentro e come è stato prodotto (leggi ancheE se dicessimo che i soldi ci sono? di Antonio De Lellis). È un processo importantissimo, che riguarda noi lavoratori del sociale perché ci parla di democrazia territoriale e partecipata: noi operatori, dunque, che siamo dentro le reti sociali delle nostre comunità, possiamo avere un ruolo importante anche su questo fronte. Possiamo e dobbiamo lavorare per organizzare e costruire comitati locali per studiare il debito dei nostri comuni: ne va della democrazia, e della vita delle persone che accompagniamo ogni giorno nel fronteggiare i momenti di difficoltà.

Ne va, anche, della qualità e dei principi che ispirano il nostro lavoro: se non vogliamo ridurci ad essere meri controllori sociali dobbiamo contribuire a rompere la gabbia del debito, a diffondere una contro narrazione informata, così da costruire nuovi percorsi di emancipazione e di liberazione: lo dobbiamo a noi, e ai destinatari dei nostri interventi!

Roberto De Lena

Operatore Sprar Caritas, attivista Attac e Cadtm Italia

31/10/2018 https://comune-info.net

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