Dal lutto alla rabbia. Una “marea” contro la violenza di genere a Roma
Che rumore fa un silenzio di massa? Come fosse l’attimo appena successivo al passaggio di un’onda, le 100mila persone scese oggi per le strade della capitale alla manifestazione contro la violenza maschile verso le donne e la violenza di genere lanciato da Non Una di Meno si zittiscono improvvisamente all’imbocco di via Merulana, lasciando dietro di sé solo le lontane eco dei tamburi che stanno in coda al corteo.
Osservano un minuto di silenzio, è il momento in cui le due “maree” confluiscono: la marea di chi non c’è più, delle donne vittime di femminicidio così come delle soggettività trans e non binarie uccise dell’odio omobitransfobico, e la marea di chi è ancora vivo e vuole trasformare questo lutto in un urlo di rabbia e di festa, in un urlo di lotta. «Siamo il grido altissimo e feroce di tutte quelle donne che non hanno voce», è infatti lo slogan che viene ripetuto più e più volte durante la mobilitazione.
Poco prima, attorno alle 14, gruppi e collettivi da tutta Italia hanno iniziato a riunirsi a piazza Repubblica, vicino alla stazione Termini. Sembra quasi che non ci sia un vero inizio, che non esista cesura fra lo “scoppio” del corteo e la “normalità” che lo precede: come a conferma che il problema della violenza di genere contro cui si lotta è, purtroppo, una questione quotidiana, che chiama in causa le vite di tutte e tutti.
Persone di ogni età arrivano dai vari lati della piazza e si accalcano sotto il carro di testa, oppure si raccolgono intorno all’obelisco di Dogali. Qualcuna ci sale sopra, per vedere la folla che piano piano si ingrossa e si allunga. «Non abbiamo bisogno di polizia per difenderci, ma nemmeno di guardie che ci dicano come stare in piazza», dicono dal carro richiamando la “marea” a un senso di responsabilità collettiva: mascherine anti-Covid si mischiano ai pañuelo fucsia che coprono bocche e naso. Proprio come una marea, i corpi delle manifestanti si spingono verso destra e sinistra, alcuni fanno cordone, poi si fermano in un punto e infine delimitano uno spazio circolare ai lati del carro.
Prima della partenza, infatti, “va in scena” un’azione performativa del collettivo OurVoice. Una “danza” simbolica, un abbraccio metaforico di solidarietà e denuncia: le performer si muovono in circolo, si aggrappano l’una all’altra, mostrano delle catene. Per rompere la “morsa” delle violenza occorre unirsi: «Chi viene ucciso è nostru compagnu», si urla dal microfono utilizzando volutamente una desinenza neutra. «Viviamo in uno stato profondamente razzista e omofobo e combattiamo insieme contro la violenza della tratta sessuale, di un’economia che si sostiene sul sangue delle compagne uccise, contro l’omertà che maschera l’oppressione sistemica sui nostri corpi».
La rottura, dunque, deve essere a 360 gradi e ha un obiettivo ben preciso: «Sex is cool but have you ever fucked the patriarchy?», recita un cartello. “Fottere” il sistema eteropatriarcale, allora, fottere il genere, come insegna il transfemminismo, e fottere anche le norme grammaticali, se serve.
Il corteo prova a tenere unito il piano della sovversione dell’immaginario con quello delle rivendicazioni materiali: mentre le casse sparano a tutto volume Hang Up di Madonna, gli spezzoni legati alle numerose rappresentanze dei centri anti-violenza presenti aprono la manifestazione, che si avvia verso via Cavour. Proprio come succede nella realtà sociale, infatti, i centri sono il primo “presidio” sul territorio per contrastare violenza contro le donne e di genere. Ci racconta Luisanna Porcu di Di.R.E.-Donne in rete contro la violenza: «La politica si è appropriata dei nostri linguaggi e dei nostri contenuti, ma non li sa applicare. Perciò è molto importante tornare in piazza dopo due anni di pandemia, ma non basta: bisogna farsi ascoltare, bisogna imporre la nostra agenda alle istituzioni affinché la mettano in pratica».
Proprio qualche giorno fa la stessa Di.R.E. denunciava il ritardo con cui il governo ha rinnovato il piano triennale anti-violenza e il fatto che le realtà che si occupano della tematica quotidianamente non siano state in nessuna misura interpellate.
«Non ci bastano le misure emergenziali», rincara il centro autogestito romano Lucha Y Siesta dal microfono. «Solo il femminismo e il transfemminismo sanno come si combatte la violenza di genere e come si abbatte l’ordine eteropatriarcale: le case anti-violenza stanno “esplodendo”, ma siamo qua per dire che nessuna sarà più sola». Dietro lo striscione di Lucha Y Siesta, sfilano tante altre realtà, dalla già citata Di.R.E a Differenza Donna, fino al centro di Viterbo Penelope. Tanti contesti diversi, ma un’unica istanza che sembra “rimbalzare” dentro ai cartelli, ai manifesti e agli slogan: «Ci vogliamo vive», difficile essere più chiare e semplici di così.
E, al di là dei centri anti-violenza, si tratta di un’istanza che vuole davvero essere globale e trans-nazionale: molte scritte ricordano la sofferenza e la lotta delle donne afghane, che da qualche mese devono affrontare nuovamente il regime talebano, oppure la rivoluzione armata delle curde in Rojava e in Turchia (dal carro interviene anche Eddi Marcucci) oppure ancora l’ingiustizia del mancato riconoscimento degli stupri di guerra durante le guerre jugoslave (un manifesto si accoda all’hashtag #rallyforherjustice, lotta portata avanti in questo momento da una deputata kosovara per quante hanno subito questo crimine).
Più in generale, si ribadisce dal carro: «Ai confini europei e non le donne migranti mettono in discussione l’ordine patriarcale, che produce esclusione e segregazione. Sono soggettività libere e per questo non vengono tollerate. Ma le donne che lottano e resistono in condizioni di guerra ci indicano la via».
Come le donne palestinesi, che a un certo punto prendono parola e affermano di dover contrastare due “cancri”: il regime di apartheid israeliano e una struttura sociale che le vuole sottomesse.
Oggi, invece, la “marea” non si lascia imbrigliare: dopo il minuto di silenzio, le persone accovacciate a terra si rimettono di botto in piedi e alzano le mani al cielo, prorompendo in un urlo che scorre e “picchia” contro la facciata di Santa Maria Maggiore. In maniera disordinata e gioiosa, al ritmo di Myss Keta e di un ballo collettivo che pare quasi trasmettersi da corpo a corpo, le persone si avviano verso Piazza Vittorio. Venezia, Bologna, Nudm Transterritoriale Marche: sono tantissimi i gruppi e le soggettività che hanno deciso di arrivare nella capitale. Così come sono tante le giovanissime, dal gruppo della Sapienza “Prisma” alle studenti singole che scendono in piazza per affermare la propria “autonomia” e “autodeterminazione”.
«È la sorellanza che ci ha spinto a venire in manifestazione oggi», ci dicono Claudia (19 anni), Maria Sole (18 anni) e Benedetta (19 anni). «Pensiamo che ci siano diritti che dovrebbero essere di tutte, ma che evidentemente non vengono rispettati. Per questo siamo in piazza per le donne uccise, per questo chiediamo che le nostre scuole siano spazi fondati sul femminismo e sul transfemminismo». Aggiunge Sara dell’Aristofane: «Perché la lotta fatta insieme è più bella, meglio che portata avanti come singole».
Insieme, l’intero corteo si “butta giù” per la discesa di via Emanuele Filiberto fino ad arrivare a San Giovanni, dove la marea di corpi riempie lo slargo antistante alla chiesa. Sul concetto di “sorellanza” si chiudono anche gli interventi dal microfono: «Ci vediamo presto, in piazza, nelle strade, nei centri antiviolenza, perché la lotta non è solo oggi. Sorella, io ti credo tutti i giorni». Che sia un ventisette novembre sempre, quindi. Non solo oggi, non solo a Roma, ma in tutte le città, i territori, le comunità che la marea transfemminista continua a tingere di fucsia.
Francesco Brusa, Sofia Cabasino
27/11/2021 https://www.dinamopress.it
Tutte le immagini di Andrea Tedone
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