Dalla Gkn società di mutuo soccorso nei luoghi di lavoro
Dario Salvetti è un operaio della ex-Gkn, la fabbrica abbandonata dal fondo Melrose circa un anno e mezzo fa ed è impegnato ormai senza sosta in una lotta che ha sviluppato una iniziativa inedita: assemblea permanente e presidio permanente della fabbrica, manifestazioni non solo a Firenze ma in tante altre parti d’Italia, collegamenti vivi con altre esperienze in lotta, come Fridays for future, le lotte contadine e per la sovranità alimentare. La vicenda Gkn è ora a un passaggio cruciale: l’idea di «fabbrica pubblica integrata» sottende a un’ipotesi di gestione pubblica, e anche diretta degli operai, in prospettiva di una reindustrializzazione che offra una risposta credibile alla latitanza dell’attuale proprietà.
Percorso difficile e ambizioso condotto con una rete di solidali, tra cui docenti, ricercatori e ricercatrici universitarie, che si sposa anche con l’avvio di un’attività di mutualismo che è sfociata il 21 gennaio nella costituzione dell’Associazione di promozione sociale (Aps) Soms Insorgiamo: una società di mutuo soccorso sull’onda delle prime esperienze del movimento operaio.
L’assedio della proprietà sta passando dal non pagamento degli stipendi, nonostante al momento ben 43 decreti ingiuntivi abbiano dato ragione a lavoratrici e lavoratori. Siamo a quattro mesi senza stipendio e l’assenza di una entrata prova a minare la capacità stessa dei lavoratori di farsi progettualità.
Dentro la vertenza Gkn, dopo un anno di presidio permanente, è emersa l’esigenza di dotarsi di una strumentazione mutualistica. Avete creato l’Aps Soms Insorgiamo: 250 adesioni, una giornata di lancio molto partecipata. Ci racconti i motivi di questo progetto?
Si tratta semplicemente di un’esigenza vitale per continuare a resistere o, come diciamo noi, continuare a insorgere e convergere. L’Aps Società Operaia di Mutuo Soccorso Insorgiamo risponde a tre funzioni: un dopolavoro riconosciuto dall’articolo 11 dello Statuto dei Lavoratori; il mutuo soccorso e i primi esperimenti di reindustrializzazione dal basso. Si tratta di attività che la lotta ha già dovuto fare fin qua e di ciò che deve provare a fare da qua in poi.
La «convergenza culturale», la crescita della consapevolezza collettiva, è una delle contromisure che abbiamo all’abbrutimento psicologico che l’azienda e l’intero sistema provano a indurre in noi. Diciotto mesi di lotta, una fabbrica ferma, una valanga di incontri e chiacchiere, quasi quattro mesi senza stipendio, una proprietà assenteista e dalle logiche spesso impenetrabili, continue manovre: posso assicurare che se non provi ad allargare i tuoi orizzonti, la testa viene meno. Abbiamo quindi semplicemente reso strutturale e permanente la nostra attività «culturale associativa». Ma non possiamo solo cibarci di idee: un simile grado di resistenza ci mette di fronte alla necessità di prenderci ancora più cura di noi. Il mutualismo è uno strumento per farlo.
Infine, noi continuiamo a chiedere l’intervento pubblico – dalla nazionalizzazione a tutte le forme purtroppo parziali e ibride che l’attuale legislazione consente – per rilevare Gkn e farla ripartire. Ma non è la singola fabbrica che lo può determinare e non di certo nelle forme che vorremmo. Non possiamo quindi attendere. Dobbiamo usare ogni strumento creativo possibile per ripartire. La Aps può essere una forma di allenamento all’autogestione, in vista di maggiori sfide.
Siamo in un certo senso intrappolati in una dimensione in cui siamo troppo deboli per vincere e ancora troppo forti per perdere. Il che ovviamente non significa che non potremmo perdere anche domattina, anche un minuto dopo che questa intervista è terminata.
Ma questa sorta di limbo ci avvicina al modello delle fabbriche recuperate in Argentina, che dal 2001 coniarono lo slogan: «occupare, resistere, produrre». Devo essere sincero, continuo a ritenere molto più probabile la nostra caduta che la stabilizzazione di questo progetto. Pur tuttavia, da tanto tempo in Italia e forse in Europa non ci spingevamo così avanti nello sperimentare le forme di lotta e di resistenza della nostra classe. Per questo sarebbe un grave errore concepire quello che stiamo facendo come un modello «di risulta», di «scartina», di una singola vertenza. Se siamo punta avanzata – così ci dicono in tante e tanti – e se la punta avanzata è arrivata fin qua, forse c’è un modello da cui trarre quanto meno ispirazione.
Chiamate in causa l’articolo 11 dello Statuto dei lavoratori per dare forza a questo progetto?
L’articolo 11 dello Statuto dei lavoratori è un essere bizzarro. Giace dimenticato, non sviluppato né in senso restrittivo né in senso generale. Poche righe essenziali che riconoscono di fatto che gli spazi aziendali e lavorativi sono a disposizione dell’attività di promozione comunitaria, culturale e associativa delle lavoratrici e dei lavoratori. Ci sarebbe da chiedersi perché nel 1970, con un biennio rivoluzionario alle spalle, con il nostro sangue ancora caldo a Piazza Fontana, il movimento operaio organizzato sentisse il bisogno di includere questo punto nella carta fondamentale dei suoi diritti.
La verità è che la promozione del senso di comunità, attraverso forme associative multiple, ricreative, culturali, mutualistiche, di un’attività «a tutto tondo» dentro le fabbriche e nei luoghi di lavoro, è sempre stato elemento di resistenza nei momenti di ritirata della lotta sindacale e di suo complemento nei momenti di avanzata.
La socialità, il modello di socialità, come tutto del resto, non sfugge allo scontro di classe. Il capitale non lascia intentato nulla per promuovere l’individualismo in fabbrica: si inventano gerarchie inutili, «capi dei capi dei capi» che spesso purtroppo non si rendono conto di essere invece «servi dei servi dei servi», fomentano rivalità tra reparti, retribuiscono individualmente anche con piccoli riconoscimenti, il tutto condito con un certo tipo di cultura di fidelizzazione aziendale. Sia detto di sfuggita e per inciso: questo modello è antiproduttivo, mina la capacità di un sistema industriale di collaborare al proprio miglioramento e autocorreggere gli errori.
Noi al contrario non dobbiamo lasciare intentato nulla per promuovere un senso di comunità. Perché è elemento fondamentale della nostra capacità di non farci dividere. E quindi di resistere. Ma anche di controbilanciare la riduzione dell’attività sindacale a mero esercizio di difesa di un lavoratore intrappolato nel modello «produci, consuma, crepa». Dentro questo modello non c’è vittoria e non c’è conquista, ma solo una spirale al ribasso di indebitamento e compromessi a perdere, per cui ieri ti sei venduto per due soldi e domani ti venderai per un soldo solo. E dopodomani ancora – per qualcuno è già oggi – lavorerai gratis in cambio di «esperienza e visibilità».
Per difendere coerentemente i propri diritti di salariata e salariato – difendere quindi il tuo tempo libero, la salute, la tua prospettiva di produzione e riproduzione sociale – devi essere una persona a tutto tondo. E per essere una persona a tutto tondo, devi difendere i tuoi diritti di salariata e salariato: nella precarietà, nella divisione e nel ricatto, non ci sono spazi di sviluppo della persona. Questo «tutto tondo» non nasce da nessun manuale predefinito e non ha una definizione. Nasce dialetticamente nello sviluppo della lotta stessa, di un processo vivo, dove cresci o cadi. L’asticella non la fissa la tua testa, ma l’esigenza di stare in piedi tutti i giorni.
L’articolo 11 dello Statuto dei Lavoratori va fatto rivivere ovunque sotto impulso del sindacalismo radicale. Se l’avessimo fatto prima, oggi noi saremmo più forti. Abbiamo perso tempo e ora tempo non ne abbiamo più. Il nostro è un appello disperato: non perdete questo tempo anche voi.
Insorgiamo ha deciso di collegarsi a più strutture: l’Arci, la rete Fuorimercato e un patto con le Mag. Cosa vogliono dire queste diverse affiliazioni?
Sì, abbiamo anche una Convenzione con Mag Firenze per praticare la cassa di mutuo soccorso. Sono il risultato della convergenza che si è sviluppata concretamente durante la lotta. Il territorio ci ha protetto, con i suoi centri sociali, le sue organizzazioni politiche e sindacali radicali, con i suoi circoli Arci e le sue reti contadine e mutualistiche. Ora noi dobbiamo essere parte di questa rete e darle impulso: forte la rete, forti noi, debole la rete, deboli noi. Arci Firenze per noi ha voluto dire l’Insorgiamo tour «fabbriche aperte, teatri pieni», ad esempio. Fuorimercato vuol dire mutualismo conflittuale e contatto con le forme di autoproduzione come Rimaflow o le esperienze come Genuino Clandestino.
Qual è il senso del mutualismo operaio nel XXI secolo? Può sembrare un’iniziativa fuori contesto o poco incisiva. Ci è capitato di discutere anche in assemblea alla Gkn di mutualismo conflittuale: cosa rappresenta per te, per voi questo concetto? Che rapporto vedi con il sindacato e che ruolo dovrebbe e potrebbe avere il sindacato?
Il mutualismo è una pratica «classica» del movimento operaio. Talmente lontana nel tempo da sembrare oggi nuova. Non la scopriamo di certo noi e, anzi, noi la stiamo umilmente provando a imparare e praticare. Per me il mutualismo è un potente collegamento tra la consapevolezza che la prospettiva è futura e contemporaneamente la volontà di praticarla qui e ora. Il mutualismo non si può e non si deve sostituire allo stato sociale o alla prospettiva di trasformazione sociale. Guardiamo alla sanità: la nostra lotta è per una sanità pubblica e universalistica. Ma se le nostre sedi sindacali avessero ambulatori autogestiti dove rispondere a esigenze immediate, praticare ricerca medica nostra, dove anche solo avere un nostro osservatorio su malattie professionali, disagio psichico, rispondere al crollo immediato e devastante della sanità, non saremmo più forti? Il tema è stringente. Se ho un collega che sta crollando nel disagio psichico, ad esempio, o faccio un percorso immediato o aumenterà le sue assenze fino a incappare in licenziamento per giusta causa. Le Asl sono state smantellate e indebolite, i medici di base anche. Il suo disagio psichico è oggi e devo impedire il suo licenziamento oggi. Che faccio? Non sto citando un esempio astratto, ma ciò che è avvenuto in Gkn. E ciò che accade ora.
L’idea che l’intervento pubblico sia una grande attesa del decreto governativo è sbagliata e antistorica. Prima delle biblioteche ci furono spesso le biblioteche popolari, prima dei consultori istituiti per legge ci fu un movimento dal basso che vivificò e modificò quell’istituto, prima di alcune leggi sulla sicurezza sul lavoro c’era l’operaio che metteva il bicchiere d’acqua a inizio turno e alla fine lo portava via completamente grigio per farlo analizzare ai ricercatori solidali. E, come si vede, quando viene meno tale spinta dal basso, si riprendono anche ciò che intanto avevi ottenuto per legge.
Mi interessa avere sul mio luogo di lavoro, almeno in ogni grossa azienda, gruppi di acquisto solidali e casse di mutuo soccorso che collegano la fabbrica alle reti di autodeterminazione alimentare o ai circuiti critici contro la finanza. Non è forse meglio questo che vedere funzionari sindacali ridotti per anni a fare da spot a fondi integrativi pensionistici e sanitari? Non fosse altro perché tali fondi si basano sugli stessi attori economici che poi ti chiudono la fabbrica, mentre i nostri gruppi mutualistici si basano sulle reti che la fabbrica la difendono in caso di chiusura…
Si può obiettare che il mutualismo apre le porte a forme di privatizzazione? Qualsiasi pratica di lotta, finchè il contesto è dato, apre le porte a una sua forma degenerativa. Ma il welfare aziendale oggi lo stanno praticando le aziende e in maniera spinta. Ciò che noi non pratichiamo «dal basso», in forma collettiva e conflittuale, loro lo praticano dall’alto, in forma paternalistica e in alternativa ai diritti collettivi, come una gentile concessione del re.
Il nostro mutualismo può basarsi solo sul «conflitto», sulla lotta sociale, anche perché è lì che traiamo le forze per praticarlo. E a sua volta serve alla lotta: se avessimo consolidato una cassa di mutuo soccorso negli anni, uno sportello mutualistico, oggi saremmo più forti. L’assedio ci ha colpito dove eravamo più deboli e in ritardo.
Al fondo c’è il progetto di Fabbrica pubblica integrata che costituisce il cuore della lotta futura della Gkn. Su Jacobin Italia abbiamo già dato conto del vostro progetto di reindustrializzazione, ma anche del comportamento della proprietà, la QF4: oggi puntate a un rilancio della vostra iniziativa anche con l’azionariato popolare.
L’attuale proprietà ha mancato nel rispettare l’accordo quadro che doveva traghettare la fabbrica verso la reindustrializzazione. Noi sapevamo che l’attesa dell’investitore che, guarda caso, non si presenta mai è uno dei modi con cui vengono bollite a fuoco lento le vertenze come le nostre. E quindi abbiamo previsto che dal 31 agosto, se l’investitore non c’era, Qf – l’attuale proprietà, Francesco Borgomeo – si doveva fare carico della ripartenza. Qf ha presentato un piano di investimenti – non un vero e proprio piano industriale, però – di 50 milioni di euro, di cui 35 «pubblici». Se ci sommi la cassa integrazione, che scarica gli stipendi dalle casse di un privato a quelle dell’Inps, siamo in pratica a una nazionalizzazione mascherata.
Nazionalizzazione che non si sta dando infatti. Il Governo non fa nulla e la stessa azienda usa l’intervento pubblico per fare confusione, non per perseguirlo coerentemente: ad esempio non ci risulta che abbiano presentato le carte per accedere a quei fondi pubblici: un paradosso nel paradosso. La fabbrica è ferma e brucia liquidità. A quel punto ci siamo dichiarati in autonomia «fabbrica pubblica e socialmente integrata». Sul termine «socialmente integrata», direi che abbiamo detto molto.
Abbiamo riattivato il nostro gruppo reindustrializzazione solidale. Stiamo elaborando un business plan e se l’azienda con cui siamo in contatto confermasse la volontà di metterci a disposizione la sua tecnologia, Gkn sarebbe un esempio di controllo operaio e di transizione ecologica dal basso. Ancora una volta, non sappiamo se succederà. Ma se succede diventa un precedente storico. Lo sappiamo noi e lo sa il potere, nelle sue diverse articolazioni. Ed è per quello che nulla sarà intentato per impedirlo. A un certo punto potrebbero anche favorire l’arrivo di un nuovo Borgomeo, pur di sventare questa prospettiva. Se ci rimettessero al lavoro sarebbe una vittoria sindacale comunque storica. Dubito che siano in grado di fare anche solo questo: darci lavoro come sottoprodotto del tentativo di evitare un precedente storico.
Noi non siamo fan né idealizzatori dell’azionariato popolare. Ma se si apre la possibilità che un pezzo del territorio, dei circoli Arci, del movimento ambientalista radicale internazionale, possieda di fatto una forma di controllo sulla fabbrica, lo vedremmo positivamente. La fabbrica è in fondo di chi l’ha amata e difesa.
Vedi la possibilità di un allargamento delle esperienze e delle forme di lotta? Una delle idee lanciate il 21 gennaio è di creare Soms nei luoghi di lavoro: anche in un luogo pubblico, una scuola, un ospedale? Come potrebbe concretizzarsi questa proposta, quale cassetta degli attrezzi per chi voglia seguirvi e con quali obiettivi?
I modelli non sono mai direttamente esportabili, ma – come ho già detto – se siamo arrivati fin qua, forse ci sono delle lezioni da trarre. E al contempo se avessimo creato la Soms prima – quando eravamo aperti – saremmo stati più avanti oggi nella nostra capacità di resistere. Sì, io credo che vada favorito un sindacalismo a insediamento multiplo. So cosa penserà un attivista sindacale: dove lo trovo il tempo per fare anche questo? Riflettiamo attentamente sul tempo a nostra disposizione. Se ripenso alla quantità di riunioni, incontri, che hanno costellato il mio attivismo sindacale, mi mangio le mani. Sono stato gravemente responsabile di essermi lasciato trascinare in incontri su incontri, commissioni su commissioni, riunioni senza costrutto. Non è facile, perché spesso sono gli stessi lavoratori a chiedertelo perché hanno introiettato un modello sindacale burocratico dove si crede che la pratica del «tavolo» sia fine a sé stessa. Quanto tempo perso e quanto ci manca questo tempo oggi. Laddove abbiamo un minimo di forza sindacale e di concezione radicale, iniziamo a dedicare una parte delle compagne e compagni, delle colleghe e dei colleghi, a questo intervento. Troveremo nuove energie e nuove risorse.
Nel vivo di una lotta si stanno mettendo a fuoco concetti e categorie che hanno avuto un ruolo preminente nella storia del movimento operaio: mutualismo, autogestione, produzione democratica: siamo nel mezzo anche di un laboratorio di idee?
Siamo nel mezzo di quello che succede quando la lotta resiste. La resistenza non è semplicemente il prolungamento temporale di ciò che hai sempre fatto. Non significa semplicemente fare ciò che facevi per più giorni e più a lungo. Per resistere più tempo, devi fare cose nuove. Pensare cose nuove. O forse banalmente riscoprirne di vecchie.
Il primo numero di Jacobin Italia si intitolava «Vivere in un paese senza sinistra»: avete avuto questa percezione in questi due anni di lotta? Oppure in Italia c’è solo una crisi di soggetti organizzati e c’è invece una sinistra diffusa che aspetta di trovare occasioni di organizzazione e movimento comune?
Non posso rispondere in termini diretti, con un sì o un no. Non solo perché il termine sinistra è indefinito e oggi sempre più indefinibile. Ma anche perché so quanto sia radicata l’idea che l’assenza di sinistra nel paese vada colmata provando a raccogliere con un appello, una lista, un contenitore, la cosiddetta sinistra diffusa e come il tema sia sempre la ricaduta elettorale. È una coazione a ripetere sempre dello stesso errore. Sicuramente abbiamo percepito che anche noi a un certo punto siamo stati interpretati sotto quella lente. Più di uno si sarà chiesto perché non passavamo a cimentarci con quello schema. Noi abbiamo visto e fatto altro. Abbiamo coltivato un processo, un immaginario con «Insorgiamo» e una esigenza: «convergenza».
Sicuramente qualcosa sta accadendo e la nostra vicenda risponde a un contesto anche di risveglio. C’è una quantità di iniziative frammentate, di calendari di movimento pieni zeppi di iniziative che non si parlano, di movimenti pensanti e consapevoli dove si incuba una classe dirigente dal basso, c’è la radicalità di chi metterebbe a disposizione la propria vita al cambiamento ma è letteralmente schifato dalla meschinità che ha avvolto le forme politiche organizzate in questo paese, ci sono i picchetti nella logistica e casi di resistenza individuale e collettiva importanti sul terreno ambientale, sociale, dei diritti civili. C’è un senso di catastrofe incombente, bellica, climatica, sociale, che ci sta spingendo a considerare ciò che è veramente urgente.«C’è e non credere a chi ti dice di no» (cit.). Ma al contempo non c’è. Non c’è qualcosa che va «raccolto» con una trovata organizzativa. C’è qualcosa che va costruito, dentro e insieme alla lotta.
Salvatore Cannavò, vicedirettore de Il Fatto quotidiano e direttore editoriale di Edizioni Alegre, è autore tra l’altro di Mutualismo, ritorno al futuro per la sinistra (Alegre).
Dario Salvetti fa parte del Collettivo di fabbrica della Gkn di Campi Bisenzio. Chi voglia contattare la Soms Insorgiamo e avere chiarimenti sul progetto di Soms nei luoghi di lavoro può scrivere a: insorgiamosoms@gmail.com.
6/2/2023 https://jacobinitalia.it/
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