Dalla Jugoslavia all’Ucraina
“Per la prima volta dalla seconda guerra mondiale la guerra è tornata in Europa”. Così almeno ci ha detto la vulgata mainstream diffusa dalla stampa atlantica. Già, perché i bombardamenti effettuati da aerei della Nato partiti da Aviano su Belgrado nel ’99 non erano una guerra, ma un’operazione militare speciale. O forse, al massimo, una “guerra umanitaria”.
Ricordiamo come andò: dopo il crollo del socialismo reale le élite di potere postcomuniste puntarono sul nazionalismo per rimanere al potere o per prendersene una quota. Non so da dove cominciarono, ma dalla Slovenia, alla Croazia, e giù, giù fino al Kosovo, passando per le cosiddette entità etniche della Bosnia e per la Serbia, dove andarono indietro fino al Medioevo per ricercare presunte radici della Grande Serbia. Tutti si riscoprirono Nazioni. E le Nazioni, si sa, hanno bisogno di territori e di condottieri e si forgiano con la guerra.
Ma poi ci fu chi, come la Germania, distribuì marchi e frettolosi, ma interessati, riconoscimenti, approfittando (o istigando) alla secessione per ampliare la propria area di influenza. E chi invece distribuì dollari e cominciò ad addestrare milizie paramilitari. Tanto per calmare gli animi.
Così questi nazionalismi trascinano nella guerra una dopo l’altra tutte le vecchie entità della federazione jugoslava. Le famiglie si dividono, gli amici si sparano tra di loro, in nome della patria. Stragi (ora vere, ora di verità), cecchini, stupri, fosse comuni come in tutte le guerre come si deve.
In questa situazione anche i kosovari chiesero il loro staterello, la Serbia invece di discutere revoca l’autonomia, le bande armate fanno il loro mestiere, i carri armati serbi fanno il loro e la Nato “per impedire il genocidio dei popoli del Kosovo” bombarda Belgrado con bombe umanitarie.
Ciò che resta, alla fine, a parte morti e distruzioni nel cuore dell’Europa, è la più grande base militare statunitense piazzata su uno dei corridoi che connettono la Russia al Mediterraneo.
Sembra, quella di 22 anni fa, proprio una “operazione militare speciale” per salvare i nazionalisti buoni dai nazionalisti cattivi. O almeno così ci era stato detto.
La rivalutazione della guerra
Già con la “Tempesta nel deserto”, nel 1991 si era sancito che la guerra, quella totale, quella che non fa prigionieri, era tornata ad essere uno strumento legittimo di risoluzione delle controversie internazionali. Ma, almeno, lì Saddam Hussein aveva invaso il Kuwait, un confine era stato cambiato con la forza contro il diritto internazionale e si poteva spacciare un’ambigua e probabilmente illegittima copertura del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Si rase al suolo un paese e la si chiamò “operazione di polizia internazionale”.
Con la guerra alla Serbia, nel ’99, l’Onu non viene nemmeno consultato, la Nato passò da difensiva a offensiva e viene accettato il fatto che si possono cambiare i confini con la forza.
Poi, con la seconda guerra del Golfo, si fa un altro passo avanti e si dichiara che anche i governi possono essere cambiati con la guerra. E che la difesa può essere “preventiva”. Cioè che la guerra è pace e che la pace è guerra.
Con l’invasione dell’Ucraina la Russia fa tesoro di tutte queste acquisizioni: la guerra è legittima nel dirimere le controversie, la difesa può essere preventiva, si possono cambiare i confini con la guerra, si può ignorare l’Onu.
Non resta da sdoganare che la guerra nucleare. Si chiuderebbe così il cerchio tornando a prima di Hiroshima.
Ma forse si è già tornati a prima della Prima guerra mondiale quando, dopo aver esaurito il territorio oltremare da spartirsi, le potenze capitaliste coloniali europee si fecero la guerra per contendersi fameliche brandelli di mercato e le spoglie di quello che era stato l’impero ottomano. Quella guerra per il dominio sul continente europeo e quindi sul mondo tra le allora potenze dominanti e la Germania in ascesa fece 40 milioni di morti (100 se si conta anche la seconda tappa) assomiglia molto a quella che potrebbe scoppiare da una scintilla ucraina.
Basta con lo stato-nazione
Fu durante il conflitto jugoslavo che con Tom Benettollo discutemmo della necessità di mettere sotto esame il concetto di “autodeterminazione dei popoli”, almeno per come esso era stato interpretato nei territori ex jugoslavi come diritto di secessione senza negoziare con la parte da cui ci si vuole scindere.
In quei territori, come già prima in quelli della ex Unione Sovietica, il concetto di autodeterminazione era stato utilizzato da élite locali o aspiranti tali per mantenere o accedere al potere utilizzando ed alimentando identitarismo come strumento di mobilitazione subalterna al potere.
Già il disegno wilsoniano “ogni popolo uno stato” era servito per disgregare gli imperi multietnici tra la fine dell’800 e la fine della Prima guerra mondiale, poi era stato utilizzato dal potere sovietico per assicurarsi la fedeltà delle élite di potere locali ed infine è servito anche per forzare la decolonizzazione dentro confini di stati nazionali inventati.
Questa idea dello stato identitario è fino in fondo interna alla dinamica che ha portato alla guerra in Ucraina o almeno al sistema giustificativo invocato. Dalla rivendicazione dell’identità nazionale ucraina, (in uno stato in cui si contano 19 gruppi etnici) utilizzata ed esacerbata nella mobilitazione Euromaidan che ha portato fino alla assurdità di abolire la lingua del 20% della popolazione, alla reazione di coloro che invece che rivendicare uguaglianza hanno rivendicato separazione, fino alla giustificazione dell’invasione da parte di Putin per difendere i “fratelli russi” (che presuppone che gli altri non sono fratelli) o alla grottesca disquisizione sulla base di una presunta “storia” sulla esistenza o meno di un popolo ucraino.
Tutta questa follia “identitaria” viene svolta sotto la copertura del concetto di stato nazione e con il pretesto della autodeterminazione dei popoli.
So bene che andare a fondo in questo ragionamento può portare lontano, fino a ripensare alla legittimità del risorgimento italiano, del sionismo e perfino della rivendicazione del carattere “palestinese” di uno stato di Palestina, ma dopo un paio si secoli di guerre basate sulla Nazione forse si dovrebbe essere in grado di dire che il concetto “un popolo uno stato” è sbagliato, che l’autodeterminazione non vuol dire scissione senza trattativa. Tanto più che non esiste e comunque non può esistere più, (e forse non è mai esistito) e forse è meglio che non esista sulla terra uno stato con omogeneità culturale.
Abdullah Ocalan, dal carcere di Imrali, ha dato un contributo fondamentale ad un ragionamento su questo tema con la proposta di confederazione democratica dei popoli e dichiarando che l’obiettivo del movimento di liberazione del popolo kurdo non è più avere un “loro stato”.
Troppo testosterone
Francesca Mannocchi, in uno dei suoi reportage dall’Ucraina, ha dato una definizione che mi sembra calzante. Ha detto: “C’è troppo testosterone in giro”. Mi sembra un’osservazione di grande spessore.
Dentro questo conflitto, nei parlamenti, come sui media, come nei social, è in corso una preoccupante rivalutazione di tutto il ciarpame della cultura maschile della potenza che, in qualche modo e a poco a poco, si era cominciato a mettere in discussione negli ultimi decenni.
Abbiamo sentito Putin applicare a uno Stato figure retoriche come l’“umiliazione” e l’“onore” e vantare le virtù del popolo russo capace di “sopportare il sacrificio” [virilmente] più degli europei. Parole di chi è orrendamente abituato a considerare il sacrificio degli altri come risorsa per il proprio potere.
Abbiamo sentito Zelensky dichiarare che avrebbe combattuto “fino all’ultimo uomo”, che il popolo ucraino [virilmente] non si piegherà ed altre ineffabili amenità che possono essere dette solo da chi è disposto a far morire gli altri senza nemmeno contarli.
Abbiamo visto sdoganare categorie belliche, derubricare il nazismo a nazionalismo (come se fosse poi tanto diverso). E vediamo tanti politici italiani fremere della voglia di menar le mani, tanti politici sentirsi improvvisamente “statisti” (dicono che non si è statisti se non si è disposti a fare la guerra).
Dal “mi spezzo, ma non mi piego” al “con lui non ci parlo” il passo e breve e porta all’escalation invece che alla pace.
Nessuno che dica: “Cerchiamo di capire quale è il problema dal punto di vista dell’altro e vediamo cosa possiamo fare per aiutare a risolverlo”, che è l’atteggiamento giusto di chi vuole fare la pace. E invece c’è la demonizzazione, anzi hitlerizzazione dell’altro. Di volta in volta per giustificare di fronte alla propria gente di averla portata in guerra o per giustificare che non si vuole cercare la pace. Ed anche la descrizione della guerra ha bisogno (forse perché la facciamo anche noi) di aggettivazioni e di descrizioni sempre più truculente, come se la parola “guerra” non ricomprendesse già in sé mille e una Bucha.
Ma così, giorno dopo giorno, si tagliano i ponti alla trattativa, si rende sempre più moralmente costoso fare la pace. E quindi facciamoli ammazzare “fino alla vittoria”. E forse è proprio questo l‘obiettivo.
Finora la popolazione italiana sembra resistere a questa caterva di sollecitazioni machiste e mantenere una più ragionevole – e sana – paura che il coinvolgimento possa portare fino all’entrata in guerra dell’Italia con tutte le conseguenze che ne derivano. Un ragionevole timore che va coltivato perché è una risorsa fondamentale per la ricerca della necessaria trattativa e del necessario compromesso.
Le sanzioni
Per ora, non potendo sparare supercazzole nucleari direttamente da Montecitorio sul Cremlino, che sarebbe il sogno segreto di tanti aspiranti statisti con contorno di giornalai che avrebbero tanto voglia di vedere che effetto che fa, la rincorsa a chi ce l’ha più lungo si fa sul terreno delle sanzioni. E allora giù la richiesta di provvedimenti sempre più draconiani, ispirati alla massima “facciamogli male”.
Solo che “facciamogli male” si rivolge alla popolazione russa che, si dice – giustamente – sia sotto il tallone di un autocrate che la manipola con le narrazioni nazionaliste, scaricando all’estero la responsabilità del furto di futuro perpetrato dalla locale oligarchia di potere e scaricando nelle patrie galere quelli che non si fanno manipolare.
Opportunamente lo Special Rapporteur delle Nazioni Unite “sull’impatto delle sanzioni unilaterali sui diritti umani “ ha ricordato il 25 marzo che “l’accesso al cibo, all’acqua, alle medicine e agli altri beni necessari per la manutenzione delle infrastrutture critiche per la sopravvivenza delle popolazioni non dovrebbero mai essere attaccate dalla sanzioni” e che ciò costituirebbe una violazione dei diritti umani.
Ma se si può “fare la pace attraverso la guerra” si potrà anche “difendere i diritti umani violandoli”.
Da sempre le sanzioni economiche non sono un’alternativa alla guerra, ma un’arma della guerra.
Tutti i russi però sono diventati target legittimi dell’obiettivo occidentale di affamarli, così come successe per il mezzo milione di bambini iracheni fatti morire di fame dalle sanzioni economiche all’Iraq considerati – sono parole del segretario della difesa statunitense Magdalene Albright (quella della trattativa truffa di Rambouillet) – “un prezzo che vale la pena di pagare”. Quanti russi e quante russe varrà la pena di affamare questa volta?
Non si sa, ma intanto è cominciato un processo di essenzializzazione culturale delle popolazioni e mentre gli ucraini, tutti, anche quelli del battaglione Azov, sono diventati buoni, i russi, tutti, anche Tolstoj, stanno diventando nell’essenza cattivi. Ho letto, non so dove, del “cuore tenebroso dell’Asia” e via con oscenità simili.
Il suprematismo europeo
D’altronde l’occidente è aduso a produrre definizioni essenzializzanti dell’altro non-Europeo. Lo fa da 500 anni per convincere sé stesso, prima ancora dei colonizzati, della propria intrinseca superiorità.
Il grande fremito di solidarietà che si è diffuso in Europa verso i profughi ucraini non può che fare piacere. Eppure, proprio questo fremito, così diverso da quello che percorse l’Europa all’arrivo dei profughi che scappavano dai bombardamenti di Putin (e di altri) in Siria, è la dimostrazione più palese di quanto profondamente il razzismo sia incistato nella cultura europea, quasi una componente fondativa. Non è il respingimento del nero che attesta il razzismo, ma è la stessa accoglienza del bianco che, nel fare la differenza, diventa autodenuncia.
Ed è il suprematismo europeo, o Atlantico, come ama dire il nostro ineffabile Presidente del Consiglio (che studi da segretario generale della Nato?) ad essere uno dei fattori che hanno scatenato la guerra. Lo si è già detto tante volte, ma vale la pena ripeterlo: dopo il crollo della economia e del sistema istituzionale dell’Unione Sovietica il cosiddetto Occidente, invece di aiutare il paese a tirarsi su, ha deciso che poteva approfittare della Vittoria e che poteva schiacciare il perdente. Si fabbricò il concetto del “mantenimento della supremazia” che è alla base della attuale spaventosa corsa agli armamenti in tutto il globo e che sarà alla base del prossimo concetto strategico che la Nato approverà in maggio. Il mantenimento della supremazia è alternativo all’equilibrio necessario alla sicurezza condivisa. L’accerchiamento militare e la sottrazione di risorse alla Russia ne è venuta di conseguenza.
Ciò non scagiona Putin. Casomai ne aggrava la responsabilità perché, invece che rivendicare un nuovo equilibrio globale rispettoso di tutti i paesi e basato sullo sviluppo condiviso e il rilancio del multilateralismo, ha accettato il gioco dell’Occidente chiedendo semplicemente di compartire il dominio. Secondo Putin il pianeta dovrebbe avere due padroni invece che uno. Una proposta inaccettabile come quella dell’impero atlantico.
Ma le cose stanno comunque cambiando e forse questa guerra si porterà appresso qualcosa di inaspettato. Nella votazione all’Onu sulla condanna della invasione russa i paesi più popolosi – India, Pakistan, Indonesia, Sud Africa – si sono astenuti insieme alla Cina e ben 143 paesi hanno deciso di non applicare sanzioni. Questi paesi rappresentano il 30 per centro del PIL mondiale, ma oltre il 50 per cento della popolazione. E non lo hanno fatto certo per simpatia per Putin. Come ha notato Franco Berardi, nel definire questa una guerra “inter-bianca”, la linea di frattura ripercorre la linea di separazione tra colonizzati e colonizzatori dello scorso secolo.
Un segno che il sud globale sta perdendo la pazienza? Presto per dirlo, ma il Pil di questa parte maggioritaria di mondo crescerà e con esso la volontà di non essere tenuti ai margini.
La Russia nell’Unione Europea?
Quando a Versailles i vincitori della Prima guerra mondiale decidevano punizioni draconiane per la Germania perdente, forse non immaginavano che stessero mettendo le premesse per l’ascesa al potere di Hitler. Facendo tesoro di questa lezione, alla fine della Seconda Guerra Mondiale i vincitori seguirono un’altra strada: l’inclusione e la costruzione di un futuro condiviso tra tutti i partecipanti avviando il processo di unificazione dell’Europa. È stato così che si è interrotta una sequenza ininterrotta di guerre per la supremazia tra potenze europee che datavano dal 1500. Non così è stato fatto alla fine della guerra fredda. Si è voluto umiliare i vinti invece che proporre un destino comune.
Un’Unione europea che avesse il coraggio di riconoscere che il proprio interesse supremo è la pace dovrebbe essere capace di immaginare un altro futuro da quello di perdurante conflitto e costringere tutti a cambiare gioco con una proposta alta che, prima del conflitto russo-ucraino, affronti il tema delle relazioni di lungo periodo tra Europa e Russia e, all’interno di questo, anche la difesa della indipendenza dell’Ucraina e della protezione delle minoranze. La Unione Europea dovrebbe proporre alla Russia di avviare un confronto a tutto campo sul futuro che non escluda nemmeno l’ingresso della stessa Russia nell’Unione Europea. Qualcosa di simile all’idea di Gorbaciov della Casa comune europea.
Si dovrebbe proporre alla Russia un trattato per affrontare, insieme, gli elementi fondamentali del conflitto di fondo: una sicurezza comune reciprocamente garantita e di lungo periodo, l’integrazione tra le diverse economie, in particolare la necessità di materie prime per le manifatture europee e la necessità di capitali e di conoscenze per lo sviluppo della economia russa, la questione della sicurezza energetica di lungo periodo e le regole della convivenza tra diversi. Nello spesso tempo, si dovrebbe proporre di mettere mano finalmente alla struttura delle Nazioni Unite per riflettere i cambiamenti nelle relazioni internazionali ed in particolare il definitivo superamento del lascito dell’epoca delle colonizzazioni per dare a tutti i popoli uguale dignità e sicurezza.
Fabio Alberti
28/6/2022 https://comune-info.net
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