Dalla soglia della porta uno sguardo nella vita
Raymond Depardon
Qualche tempo fa in uno dei miei tanti viaggi di ritorno da Trieste, luogo dialettico di tras-formazione e de-cronicizzazione rispetto al lavoro logorante e a rischio di manicomialità nei Servizi psichiatrici territoriali laziali, sono andato a trovare un mio amico a Fiesso d’Artico (VE).
Mi ero fermato come ospite per poi andare a curare come fotografo, un progetto sulla comunità ebraica chassidica del ghetto di Venezia. Eh sì, eticamente e professionalmente il mio interesse è sempre stato per le minoranze e l’abiura del pregiudizio in ogni sua forma. Non è un caso che la mia vocazione lavorativa ordinaria sia quella nella relazione di aiuto con le persone con disagio mentale. I matti e i folli ghettizzati dentro i manicomi e liberati da Basaglia. Non a caso un veneziano. E non è un caso che uno dei miei progetti di reportage fotografico siano appunto gli ebrei. Questa comunità di persone non rappresentano una delle più sofferte, odiate, contestate e violate popolazioni? Il ghetto non è stato un manicomio omogeneo e i lager un manicomio finale?
Credo nella documentazione fotografica e orale dei fatti storici minori. Di quelle piccole cose che sfuggono alla grande storia ma che di essa ne fanno parte e nella cui sommatoria la realizzano appieno e questo mi ha portato in questa storia di avvicinamento con Franco Basaglia. Ed è quello che voglio raccontare, come un cammeo sulla sua persona.
Il mio amico Livio dice che vuole farmi una sorpresa. Ha scoperto che intono casa sua la gente del posto gli ha detto che c’è una villa. Un posto particolare appartenuto a quel medico strano. Quello che ha aperto i manicomi. Ma sì, certo…la gente parla di un certo Basaglia… el dotor dei mati. Nemo profeta in patria…
Così arriviamo in una piccola frazione. Lungo una strada che costeggia la ferrovia, si erge una recinzione a protezione di una Villa oramai decadente, ma che ancora riflette il prestigio e la beltà di un tempo antico. Da un cancello e una recinzione si scorge un edificio, di stile palladiano, immerso nel verde. Decidiamo di suonare per avvisare della nostra presenza e chiedere di poter visitare il luogo. Nulla. Non risponde nessuno. Sembra disabitata. Il cancello principale è però aperto. Facciamo capolino e chiedendo permesso entriamo. Sembra di essere introdotti in un posto altro. Abbandonato come la residenza prestigiosa magica ne la bella e la bestia. Poi scorgiamo accanto alla villa una dependance che presenta segni di presenza. Damigiane di vino, una bicicletta e degli attrezzi di lavoro. Da una specie di porta sormontata da piante si apre un viottolo verso la villa principale. Magnifica visione… ma è proibitivo…
Ed ecco che ci viene incontro un uomo a chiedere spiegazioni. Si chiama Ennio. Il mio amico in dialetto gli racconta di essere stato un infermiere, che ha lavorato al manicomio di San Servolo prima e poi nel presidio psichiatrico del posto e che l’altro, io, sono un medico psichiatra. Basagliano! Gli spiega che siamo venuti a conoscenza che forse quella è la villa appartenuta e vissuta appunto dai Basaglia. E l’omone, con la sua treccia bionda e i suoi occhi azzurrissimi come un vichingo, si apre in un sorriso e dice: certo! “Questa villa è appartenuta ai Basaglia” e inizia a raccontare:
“Intorno al 1923 la famiglia Basaglia acquista una casa per trascorrere l’estate. Una casa risalente ai dogi veneziani. Si tratta di una villa aristocratica, stile Palladio, attorniata da un giardino con statue a semicerchio interrotte da un sentiero principale che porta attraverso un bosco al cancello principale che dà sulla strada. Da lì, dalla strada, se non sei del posto mai potreste immaginare che sia proprio la casa appartenuta fino intorno gli 60 alla famiglia Basaglia. Eppure a guardar bene su una recinzione, forse l’unica dei Basaglia, c’è un simbolo: una V con ricamata una B.
La casa dove il bambino e poi ragazzo Franco Basaglia potevi forse scorgerlo correre tra gli alberi, giocare, sognare. Tornare da giovane adulto da Padova per riposarsi dagli studi universitari. Era la casa estiva dell’intera famiglia Basaglia. La casa era divisa tra i diversi parenti .
E’ così che, come in un favola, attraverso il racconto fluido di Ennio, figlio della balia dei Basaglia m’inoltro attraverso i suoi ricordi di bambino quando con la madre viveva nella casa. Ennio racconta: “mia madre fino a prima di morire si sentiva con la signora Franca Ongaro Basaglia a Venezia”. Si volevano bene anche se non si vedevano più con la signora Franca.
E continua: “sapete, prima di essere un ricco benestante Franco Basaglia era un signore vero. Lo era nel portamento, nel modo di essere…nell’esserci con tutti noi”.
“Ero bambino e ricordo ancora di quella volta che fece scandalo qui nel paese per quella sua spontaneità ardita, diretta che aveva nel fare e nell’essere. Era una mattina presto di una domenica quando, d’improvviso uscì di casa di gran passo verso il sentiero della villa. Poi uscì dal cancello per recarsi nervosamente verso il paese. Arrivato in centro paese andò a prendersi un caffè, ma la gente che lo osservava rimase disorientata. Sapete, il dottore era uscito di casa con la sola giacca da camera ovvero quello che allo stato attuale dei fatti è il nostro pigiama. Scapigliato ma elegante. E fu rumore qui. La gente all’epoca non era abituata a vedere gente, specie per bene, ad andare per il paese così. Spontanea, alla mano. Ma lui sembrava incurante di queste cose… Passò voce che fosse un po’ bizzarro, forse come i suoi matti.”
Ennio continuò: “Lui era diverso dagli altri della famiglia. Erano tutti conservatori provenienti da una famiglia agiata.
Ricordo che raccoglievano le tasse della pesa in diverse regioni italiane. Il prestigio della famiglia Basaglia si può vedere da quel pozzo.” Ed Ennio indicò la parte esterna di marmo di un basamento veneziano, che in genere si trova sui pozzi d’acqua presenti nei campi veneziani. Ci spiegò: “questo pezzo fu preso in un campo veneziano e portato qui a decorare il pozzo e la casa!! Non è che tutti potevano avere e fare una cosa del genere…”
“Quando acquistarono la casa fecero costruire un canale per irrigare le campagne. Alla mattina presto i buoi e i contadini passando da qui andavano per i terreni. Era un gran lavorare..
Franco però non era come gli altri, era sì elegante, borghese ma anche altruista. Ti ascoltava e non si formalizzava. Ti guardava dritto negli occhi con dolcezza ma attenzione. Sentivi che ti capiva mettendoti a tuo agio. A volte poteva sembrare strano, con il suo sguardo altrove, ma sempre attento a quel che dicevi!!! Le racconto un ultima particolarità: “ecco quando ci fu la ritirata dei tedeschi paradossalmente per la storia di Franco Basaglia che studente venne rinchiuso in carcere dai fascisti, questa parte di casa – indicandomi la parte posteriore dove ci sono dei capanni – venne attrezzata a contenere i carri armati. E accadde che un pezzo di artiglieria scoppiò e una parte di casa prese fuoco…
Non la faccio entrare perché il tetto con gli stucchi iniziano a cedere da quando c’è l’alta velocità, mostrandomi la ferrovia davanti la casa.
Quando i Basaglia vendettero non sa quanti libri di Franco furono bruciati nel cortile. Che peccato… Gli stessi libri che mi avrebbero fatto scoprire il pensiero riformatore di Basaglia, quindi formato e preparato a cercar di essere uno psichiatra diverso. Basagliano.
Come psichiatra mi sono sentito stretto nella dimensione universitaria e manualistica di diagnosi, prognosi e cura. Sono sempre stato attraversato da una visione forte di rapporto dialettico con la persona anche sofferente che fosse sottratta alle etichette diagnostiche e a un rapporto paternalistico, in cui il protagonista della propria vita fosse e rimanesse lei/i la persona con la sua storia le sue esperienze e il suo modo altro di vivere l’esistenza.
Di Basaglia e del suo gruppo quando mi sono specializzato non ne sapevo molto, anzi direi pressoché nulla. Un grave difetto formativo. Poi vinsi il mio primo concorso e andai a lavorare in Veneto. Lì con quella curiosità dei giovani mi sono accostato ai racconti degli infermieri più esperti e navigati che mi parlarono del loro lavoro con i malati psichici dentro i manicomi e delle brutture che ospitavano. Mi raccontarono di come pian piano aprirono il manicomio di San Servolo a Venezia e quelli dell’interland della provincia di Venezia, proprio come aveva fatto poco tempo prima Basaglia a Trieste. Così mi parlarono di come fossero stati valorizzati dal suo gruppo di psichiatri, Nico Casagrande ad esempio, e di come avevano creduto nell’idea di restituire la libertà ai malati e di contestare l’ineludibilità della malattia psichica attraverso la normalità attenta alla vita e all’inclusione sociale. E così iniziai a conoscere Basaglia e il suo gruppo di lavoro attraverso la storia raccontata a viva voce dagli operatori e dai pazienti più anziani. Da allora è iniziato per me un percorso mai interrotto, una necessità di capire, conoscere queste persone, le loro idee, il loro lavoro ad iniziare da Basaglia. Mi sono identificato completamente con l’esperienza e la cultura Basagliana circa 13 anni fa quando un ministro della salute indicò che fosse: “giunta l’ora di mettere mano alla legge 180, perché si trattava di dare una prospettiva di sicurezza alle famiglie”. Così mi sentii chiamato ad alzare gli scudi della ragione e del cuore per fronteggiare una così mal parata e m’iscrissi a quello che pensavo potesse esserne un antidoto: Psichiatria Democratica.
Studiando il pensiero di Basaglia ti accorgi che si tratta di una cognizione articolata, profonda, e complessa. Non sempre facile da comprendere. A tratti è complicata ma sempre lineare e coerente.
Conoscere il pensiero e lo stile basagliano ha orientato e cambiato il mio modo di lavorare..
Il ‘pensiero lungo’ di Basaglia e dei basagliani – si è tradotto nel radicarmi in un modo di vedere la psichiatria attraverso le lenti della Salute Mentale. Un concetto che travolge e allarga la visione ordinaria della psichiatria tradizionale e sposta tutto sulle persone con disagio che diventano i protagonisti del cambiamento. Consiste proprio nel rivolgersi alle richieste di aiuto da parte delle persone in un modo inclusivo, che vada oltre il disagio psichico in senso stretto, medicalizzante, e si apra all’aspetto sociologo e relazionale dialettico e paritetico con la persona altra e non alla malattia, sospendendo così ogni giudizio (epochè).
Sentire e leggere a voce viva le storie di vita delle persone, detti matti, per aiutarle a trovare possibilità nuove che sembravano impossibili come quelle trasformate nel divenire nel e tra e il dopo il manicomio di San Giovanni a Trieste.
Risulta fondamentale quindi considerare di avere davanti ai miei occhi non il malato, ma una persona portatore di disagio, con il quale ricercare insieme risposte che non siano precostruite o prefabbricate, ma che si realizzino in modo partecipato con il ‘lui’. Soggetto e non oggetto. Quindi ritagliare sulla persona, i suoi limiti, le sue potenzialità, l’ambiente in cui vive, la sua visione del mondo e una più autentica risposta di salute.
Questo è il difficile equilibrio che tendo sempre a preservare nel mio lavoro, anche nelle situazioni di crisi, ad esempio quando vengo chiamato a casa di un ragazzo che non mi conosce, incastrato tra i suoi pensieri altri e il divenire mondano. La sfida diventa quella di aprire delle possibilità di cura insieme, di riuscire a suscitare e a dare fiducia, di dare parola. Cercare di trovare insieme a lui, alla sua famiglia, al Servizio territoriale risposte funzionali e rispettose. Individuare delle soluzioni che siano aperte alla collettività, al luogo dove le persone vivono. Risposte che tentino di abbattere i muri del pregiudizio e che non marchino il soggetto nella definizione passiva di malato. Mi impegno ad avere uno sguardo che vada oltre il sintomo e che si allarghi ai bisogni vivi: avere un ruolo attivo nella società (lavoro); avere una casa propria da vivere e curare; avere delle relazioni affettive autentiche. Insomma, poter avere la possibilità di trovare il proprio posto nel mondo anche con la propria diversità. Il senso è quello di far emergere “un mondo indifferenziato di bisogni “e quindi la “legittimazione di un loro profilo soggettivo” e una cultura in cui l’espressione dei bisogni possa avere una valenza liberatoria.
Nel concreto, essere basagliano oggi, come tecnico del sapere pratico, con la responsabilità di un Servizio difficile, in una zona sociale di degrado urbano, con alto rischio di devianza come il territorio di Ostia, si traduce nell’essere esempio e di spronare i colleghi più giovani a guardare oltre la psicopatologia e i neuroni fornita loro dall’Università a senso unico, preparandoli ad un operare nel territorio pensando all’incontro con l’altro con l’idea che:
- non esistono risposte prefabbricate che vadano bene per ogni situazione: ogni intervento dovrebbe essere ritagliato e costruito sulla particolare vicenda umana che si sta aprendo dinanzi a noi;
- ogni risposta per essere una “buona pratica”, deve possedere in sè il contemperamento di due piani apparentemente contraddittori: il riconoscimento alla persona sofferente di un protagonismo – ovvero piena voce all’interno della prassi terapeutica – e il controllo sociale di cui siamo investiti come tecnici dall’istituzione (inventata) per motivi sanitari. Nello stesso tempo la risposta deve essere in grado di fronteggiare il pericolo contrapposto di deriva sociale allorquando si ha un rifiuto delle cure da parte di chi in quel momento declina – per la sua sofferenza – ogni forma d’intervento proposta;
- è fondamentale il fare assieme (tecnico- utente) e confrontarsi nel gruppo di lavoro (equipe allargata) per fare meglio e superare le paure formali medico-legali che leganotecnici e Servizi in precetti distanziati dalle prassi delle buone pratiche;
- si debba mettere periodicamente in dubbio la correttezza delle prassi che si stanno applicando, costruendo una cultura aperta condivisa di Servizio, rispettando chi si oppone e cercando di convincere con i fatti;
- avere sempre una visione etica della questione psichiatrica;
- continuare a credere e ad operare pensando che l’impossibile può diventare possibile quando ci proviamo. Fare per non subire e farlo con gli altri;
- infine, considerare che lo sforzo di applicazione pratica insito nella legge 833 agli art. 33, 34 etc, costituisce la bellezza della stessa Legge Orsini n. 180/78; ribattezzata ‘Legge Basaglia’. In quanto impone e costringe ‘i tecnici del sapere pratico’ ad inventare, costruire e realizzare interventi ‘sulle persone e per le persone’ rispettandole nella loro dignità di cittadini con le loro garanzie istituzionali e costituzionali che ne derivano.
Una legge di civiltà che rappresenta una prospettiva unica, quella di mettersi dalla stessa parte dell’altro e di vedere e sentire il mondo come lui, cercando di aiutarlo a trovare il suo personalissimo “registro” che gli consenta di vivere con la sua verità folle nel modo più pieno ed autentico possibile.
Foto: Gianluca Monacelli presso Villa Basaglia
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Gianluca Monacelli
16/10/2018 www.news-forumsalutementale.it
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