Dall’interno del CIE di Ponte Galeria con una sola certezza: è un luogo che va chiuso
Entrare nel CIE di Ponte Galeria, periferia sud-ovest di Roma, lascia sempre una sensazione di amaro e di impotenza in bocca. Parlo in prima persona e non mi piace. Ma parlo in prima persona perché da 16 anni, dal 1999, quando si chiamava in maniera più ipocrita CPTA (Centro di Permanenza Temporanea e Accoglienza) e non Centro di Identificazione ed Espulsione, dal 2009, quell’odore di guasto, di morte, di persone lasciate andare non se ne è mai andato via. Parliamo, per coloro che non lo conoscono di un mostro giuridico costruito per giustificare la non volontà politica di garantire la libertà di circolazione degli esseri umani e di una struttura dal valore fortemente simbolico, creata per lasciare un senso di paura e di distruzione.
E non basta cambiare ente gestore – è stato fatto più volte – o ridurre i tempi massimo di trattenimento, non basta, anche se serve, garantire un trattamento più umano e rispettoso della dignità umana. Dentro al CIE non sei una persona, sei un numero, un problema da risolvere, una persona da identificare e possibilmente da espellere, una fonte di guadagno certo per gli avvocati di ufficio, un altare sacrificale da esporre nei momenti critici, da nascondere quando prevale la vergogna.
Bisogna entrarci, entrarci ed entrarci per provare la vergogna di averne accettato l’esistenza, per non poter considerare sensata l’esistenza di sbarre e inferriate, chiavistelli e plexiglass per impedire di salire sui tetti, per vedere i volti degli uomini e delle donne che vi sono rinchiusi.
Sono entrato l’ultima volta – saranno state una trentina in tanti anni – in una assolata giornata di fine novembre, con la Campagna LasciateCIEntrare, dopo aver chiesto e ottenuto una autorizzazione dalla prefettura. Richiesta che più volte, in passato, per diverse ragioni, è stata respinta.
Sono entrato e ho parlato a lungo con il direttore dell’attuale ente gestore, che si è mostrato molto collaborativo, sono entrato attraversando quei corridoi gelidi, fra stanze che richiamavano alle pratiche quotidiane a cui sono sottoposti coloro che finiscono nel centro: sala colloqui, sala convalide dei trattenimenti, spazio per gli avvocati, spazio per i richiedenti asilo, sala per l’incontro con l’assistente sociale, infermeria, direzione. Solo un metal detector all’inizio e poi corridoi dalle mura scrostate. Ma le mura alte e le sbarre le vedi anche da fuori, sono imponenti e immanenti, ti coprono lo sguardo e ti stordiscono con la loro presenza ossessiva, perversa.
Parli con chi gestisce il centro, cerchi di andare oltre il ruolo di oggettiva controparte, di soggetto che guadagna e offre lavoro grazie all’esistenza di leggi immorali e entri anche nell’ottica di chi cerca di garantire “il servizio migliore” di “occuparsi della persona”, come se lì dentro fosse possibile e accettabile. Poi entri nei due settori in cui è divisa la struttura e il nodo ti stringe la gola.
Chi non c’è entrato fatica a capire, chi lo ha fatto prova ogni volta lo stesso risentimento. Le sbarre alte 5 metri, curvate a rostro, presenti in ogni luogo, il cemento grezzo del pavimento dei cortili, i panni stesi sulle grate, i cespugli d’erba che spuntano nel retro si stagliano contro il cielo come punizione permanente, come atto di limitazione ad ogni possibile sguardo sul mondo.
Fine novembre 2015. Nel settore femminile, da luglio, dal 23 luglio, c’è un via vai continuo. Troviamo oltre 100 donne, in gran parte ragazze nigeriane ma viene da dire ragazzine se un documento non dimostrasse la loro maggiore età. Ragazzine dai 18 ai 25 anni, fermate ad uno sbarco, a volte portate in questura e poi, immediatamente, trasferite nel centro. Fanno comunità, trovano anche modo di scherzare e di ridere fra di loro, di sorriderti a te che entri col potere di riuscire quando vuoi, di farsi le treccine, di cercare di curare il proprio viso, il proprio corpo.
Dopo il decreto legge 142 del 30 settembre, sembra diventato più difficile deportarle nel paese da cui sono fuggite. Se chiedono protezione umanitaria hanno buone probabilità di essere trasferite in un CAS, in un Centro di Accoglienza Temporanea, in attesa che la loro domanda venga esaminata. Potrebbero dichiararsi vittime di tratta a scopo sessuale ma non lo fanno. Sanno che l’iter sarebbe più complesso e che potrebbero finire in strutture in cui i loro spazi di libertà sarebbero minori. Scelgono, o viene consigliato loro di scegliere, il male minore, i CAS sono strutture aperte, possono muoversi e guardarsi intorno, decidere di provare ad immaginare la propria vita sempre che qualche predone non piombi a riprendersele o che non si decida di rimandarle silenziosamente in patria. Molte vengono da famiglie contadine, conoscono anche poco di inglese, ma reagiscono dando l’aria di persone sicure, pronte a sfidare la vita.
Del resto, dopo mesi di traversata soprattutto nel deserto, dopo aver vissuto e transitato in infiniti gironi danteschi, questa di Ponte Galeria – ed è terribile dirlo – sembra quasi un oasi in cui fermarsi il tempo necessario prima di partire. Qualcuna di loro è arrivata prima del decreto legge, da almeno 2 mesi, ha visto le proprie amiche essere liberate e ne ha viste alcune essere condotte all’aeroporto con un charter pronto. Loro sono più pronte a reagire, hanno già compreso perfettamente l’ordine dei propri problemi e ti dicono e ti ripetono con loro inglese veloce e sincopato “block deportation” fermate le deportazioni, lasciateci libere. Ma se per le ragazze nigeriane l’essersi unite rappresenta una forza, se riescono ad arrabbiarsi anche per il freddo che si sente durante la notte, per l’assenza di acqua calda che impedisce loro di lavarsi, perché vorrebbero creme per la pelle e non vogliono lasciarsi andare, per altre è diverso.
Parlando con le donne, cercando di rompere il sacrosanto muro di diffidenza che prova chi fra le mura ci vive, si scoprono vicende inverosimili per la loro crudeltà. La dolce signora iraniana il cui compagno è dall’altra parte d’Europa, scappata per diverse forme di persecuzioni e che non vuole chiedere asilo in Italia perché altrimenti non rivedrebbe il suo uomo, la sua compagna di stanza, proveniente da un angolo della Cina remota, che ha un bambino di pochi anni in Francia, che in Francia ha chiesto asilo ma si ritrova in Italia e sa bene che se chiede aiuto qui avrà molti problemi a rivedere il suo bambino, in nome di un Regolamento Dublino ottuso e della paura che circola fra le frontiere. Le pareti del settore femminile sono dipinte ci sono i colori della bandiera nigeriana, il bianco e il verde, ci sono disegni che rappresentano donne, frasi a volte dolci a volte violente, ma si respira un aria diversa dal settore maschile. Fra le donne è presente un buon intervento dell’associazionismo di tutela e di difesa delle vulnerabilità.
Associazioni come Bee Free monitorano costantemente il settore, offrendosi anche per i percorsi di inclusione in sistemi di protezione. Loro ed altri lo fanno con costanza, da alcune suore a “Differenza donna” e lo fanno in seguito a progetti approvati in sede istituzionali e ad accordi con la prefettura. Ma è poco anche per ridurre il danno e non per lo scarso impegno delle associazioni quanto per i limiti della struttura stessa e per i cambiamenti che si stanno determinando. Fino a luglio nel settore femminile, immenso, non si trovavano più di una ventina di donne, in parte provenienti dal carcere, in gran parte prese per strada, spesso inespellibili in quanto provenienti dai paesi di una Yugoslavia che non esiste più e magari anche nate in Italia ma che non hanno cittadinanza riconosciuta. Oggi sono in tante, chi dovrebbe nelle istituzioni rendersene conto, risulta assente. Il 25 novembre, in occasione della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, la consigliera regionale del Lazio, Marta Bonafoni, ha potuto varcare la soglia ed entrare, partendo dal presupposto che anche questa è violenza che passa nel silenzio rassegnato della stampa.
Fra gli uomini c’è maggiore agitazione anche se non come nei tempi recenti quando il rischio di una rivolta era perennemente nell’aria. Bisogna essere autorizzati dalla polizia per entrare e la richiesta è semplice e sommaria: «Non entrate nelle stanze- per 6 persone, come per le donne – perché lì non ci sono le telecamere. Potete restare solo nel corridoio centrale». Come nel settore femminile infatti, un lungo corridoio centrale, di sbarre, separa a destra e a sinistra le costruzioni in cui le persone dormono. Un ingresso con la tv perennemente rotta, un bagno e poi la camera da letto, di solito gelida di inverno bollente d’estate. Il posto è malsano, la struttura sorge sopra una enorme palude e l’umidità ti entra sempre nelle ossa, a volte col caldo estivo ora con il freddo pre – invernale. Fra gli uomini c’è la gara, come sempre accade a raccontarti i propri guai. Una parte consistente viene dal carcere. La pena è scontata, la colpa è pagata ma resta a volte difficile l’identificazione e allora si rientra in questa bolgia per dare un nome e una nazionalità a questi ragazzi, per lo più maghrebini o dell’Africa Sub – Sahariana. Ma incontri di tutto: il ragazzo di 24 anni, 18 dei quali trascorsi in Italia che parla con accento nordico, non conosce quasi più la lingua di origine e non vuole tornare in un paese che ormai gli è estraneo, i giovani fermati per la prima volta, dopo mesi o anni di invisibilità, in nome dell’allarme antiterrorismo ma che col terrorismo non hanno nulla a che fare, tanto è che non sono né in carcere né rimpatriati al volo per ragioni di sicurezza ma in attesa di collocazione in quanto privi di documenti. Ho incontrato anche i ragazzi che dormivano nel Centro d’Accoglienza Baobab.
Il 24 novembre scorso, all’alba, c’è stata un operazione antiterrorismo in grande stile nel centro. Forze ingenti di polizia che hanno bloccato la strada e gli ingressi. Chi era privo di permesso di soggiorno e non proveniva da paesi considerati a rischio è stato preso, tenuto quasi 24 ore in questura e poi trasferito nel CIE. Il loro destino è ancora incerto.Per alcuni dei trattenuti, gli uomini sono una novantina, si apre, o si è già aperto un percorso infinito e kafkiano. Non potranno essere rimpatriati per la scarsa disponibilità a fornire il nulla osta dai consolati – se se ne identifica la nazionalità- non potranno essere rimandati da nessuna parte se non si riescono ad identificare e quindi alla scadenza dei termini massimi di trattenimento (oggi 30 giorni per chi esce dal carcere, 90 per chi ha precedenti fogli di espulsione) vengono rilasciati con l’obbligo di abbandonare il paese. Pochi giorni dopo, un mese dopo, qualche anno dopo, verranno ripresi e riportati in questo o in un altro CIE, come se il gioco ricominciasse da capo, un’altra volta.
Fornire il modo per regolarizzare chi è qui da tempo, costruire un rapporto che nei fatti garantirebbe anche quella “sicurezza” urlata a vanvera da alcuni politicanti in malafede o realmente ignoranti, sembra impossibile. Meglio mantenere questo castello di discrezionabilità che mantiene le persone nell’ombra, a volte le riporta nella micro – criminalità, spesso le trasforma in persone senza più nulla da perdere e senza alcuna fiducia in questo paese. Splendido risultato per i fautori della “sicurezza da copertina”, non basta che uno dei riformatori in senso restrittivo del testo unico sull’immigrazione, Gianfranco Fini, oggi dica che è un testo da cambiare. La Bossi – Fini resta lì, come una mannaia e i soldi che permette di far girare, anche attraverso strutture detentive inutili come questa, sono soldi sottratti inutilmente alla collettività per costruire monumenti alla reclusione per persone colpevoli solo di essere nati dalla parte sbagliata.Ma questa è una colpa, come essere poveri, come non far parte di quel 10% che decide dei destini di un Paese o di un continente.
E si esce da questa bolgia di sbarre e di plexiglass, inutilmente mitigata da raccomandazioni e buone intenzioni di chi le gestisce, con una sensazione certa. Fino al giorno in cui queste sbarre non saranno realmente divelte per sempre, queste mura alte e grigie rimosse dallo sky –line che porta verso l’autostrada, sarà difficile dire che in Italia qualcosa è cambiato
Stefano Galieni
Responsabile nazionale immigrazione Prc
2/12/2015 www.rifondazione.it
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