Dallo Stato di diritto, allo Stato di polizia e alle aule dei tribunali

(parte II). A seguire il racconto “L’ARNEIDE, ULTIMO ATTO” di Vittorio Bodini

Nella prima parte di questo approfondimento, pubblicato il 12 Luglio 2020, il consiglio di lettura dell’articolo scritto da Vittorio Bodini nel 1951 sui fatti dell’Arneo (“L’aeroplano fa la guerra ai contadini”) si è rivelato utile per dimostrare quanto le procedure per soffocare la protesta attraverso la violenza fisica e psicologica non siano, purtroppo, cambiate nel corso dei decenni. In quella prima sezione di considerazioni, definivamo un fallimento degli organi governativi la “stampella poliziottesca” alla quale la politica si appoggia per imporre le proprie scelte: “Per giungere allo Stato di Polizia, e successivamente alle aule dei tribunali …, è necessario un passaggio che si avvale della complicità dei media, la divulgazione delle veline delle questure senza verificarne la veridicità e lo svolgimento dei fatti. Una narrazione infamante è essenziale per il raggiungimento del proprio obiettivo: la criminalizzazione dell’antagonista. Che siano movimenti sociali, ambientali o i braccianti senza terra, poco importa. Bisogna isolarli, infamarli, descriverli come ignoranti e violenti, irragionevoli”.

E’ ancora Bodini con un altro scritto, “L’Arneide ultimo atto”, a fornirci  efficaci elementi di riflessione sul processo che subirono i contadini ribelli a seguito della rivolta per l’occupazione di un pezzo di terra da coltivare per poter sopravvivere. Protagonisti di un tempo lontano, ma ancora drammaticamente attuale, per coloro che cercavano e cercano giustizia e un po’ di equità sociale difficile, allora come ora, da conquistare. Anche quegli eventi furono oggetto di denunce da parte delle forze dell’ordine, guidate dalla politica, e i contadini furono accusati di violenza, di minacce, di atti di ribellione all’ordine costituito. E così arrestati e processati.

Ma in quelle aule di tribunale i contadini videro cadere tutte le accuse a loro carico, i militari, chiamati a testimoniare, si contraddissero dimostrando che le accuse furono costruite ad arte per gettare discredito sui braccianti. Nel corso del processo emerse la verità: la violenza era stata esercitata dalle forze dell’ordine a danno dei braccianti e il giudice riconobbe l’ingiusta detenzione di coloro messi ai “ferri per tre giorni”. Gli imputati vennero assolti riconsegnando un po’ di giustizia e di dignità a quei poveri cristi. Era il 1951.

A settembre 2020, presso l’Aula Bunker del carcere di Lecce si svolgerà il processo al Movimento No Tap.

Due sono gli aspetti di questo prossimo procedimento a suscitare perplessità e preoccupazione. La scelta del sito è oggettivamente sproporzionata per il dibattimento delle azioni ascritte agli attivisti:    i reati contestati – si va da imbrattamento e danneggiamento di jersey in cemento, a offese a pubblico ufficiale e violazione del foglio di Via – sono in forte contrasto con un dibattimento in un’Aula Bunker, e non basta il numero elevato di persone coinvolte a giustificarne l’utilizzo.  L’Aula Bunker di un carcere, di Lecce come di qualsiasi altra città, richiama processi di ben altra caratura. Il rischio è che si voglia instillare una forte connotazione e valenza simbolica.

Il secondo aspetto è che l’accorpamento in un unico processo di tutti gli imputati e tutti i reati ad essi attribuiti, possa solleticare l’immaginazione di certa stampa, che per incrementare le vendite di una manciata di copie in più, o per un ben preciso disegno editoriale, non esiterà a definire “Maxi processo No Tap” insinuando nell’opinione pubblica il pregiudizio che il processo venga svolto in quella sede a causa della pericolosità dei soggetti colpevoli di chissà quali fenomeni sovversivi e violenti. La prospettiva di una campagna mediatica inquinata sarà, con ogni probabilità, solo uno degli effetti collaterali di questa discutibile decisione.

Per meglio identificare il rischio che alcune scelte arbitrarie comportano, o quanto una costruzione mediatica alterata possa influire sull’andamento dei procedimenti, consigliamo la lettura di “Governare il Conflitto” di Xenia Chiaramonte. Lo scritto, che prende in esame il processo ai No Tav, analizza un’attuazione distorta ed opportunistica del Diritto, nella quale coloro che si oppongono ad un’ingiustizia sociale ed ambientale relativa al loro territorio, sono passibili di accusa di reati associativi piuttosto che di reati imputabili ad azioni compiute da singoli individui. Distorcendo, appunto, il Diritto al fine di aggravare la posizione dei singoli ascrivendo gli atti compiuti a reati politici.

Si determina così una norma non di Diritto ma di guerra, il Diritto penale del Nemico, dove lo Stato identifica nei cittadini ribelli il proprio nemico. Si potrebbe quasi dedurne, per estensione, che tale deformazione possa addirittura mirare alla reintroduzione del reato di opinione.

La storia ci ha concesso la verità sulle proteste dei braccianti negli anni Cinquanta in quel lembo di terra, l’Arneo, compreso tra le province di Lecce, Brindisi e Taranto. Un po’ forse è anche merito di Vittorio Bodini e della sua “schiena dritta” nel riportare gli accadimenti in una cronaca puntuale e autentica. Quella stagione di lotta e le ragioni dei contadini che rivendicavano il diritto alla sopravvivenza trovarono giustizia attraverso la narrazione dei fatti e attraverso la testimonianza dei protagonisti anche nelle aule dei tribunali.

Ma se dai tempi di Bodini ad oggi non è cambiato nulla nell’agire della politica, prona agli interessi dei privati, se non è cambiata la prassi nella narrazione delle questure per difendere il proprio operato, ci sembra lecito aspettarci che, almeno, non siano cambiate le visioni di allora da parte della magistratura su ciò per cui è giusto ribellarsi.

L’ARNEIDE, ULTIMO ATTO

“Ciccio! – dice il cancelliere – È tutto in ordine?”. L’usciere getta un’occhiata ai dieci imputati nella gabbia e agli altri cinquanta che si pigiano nei banchi. Alle loro spalle una folla umile e sbigottita di contadini del Sud, vestiti come per un balletto della miseria, guarda con occhi lenti, macinati di tristezza, e se d’un tratto s’imbambolano in un sorriso che cola lentamente dagli angoli delle labbra è perché il loro sguardo ha incontrato nell’aula, come una mosca ne incontra un’altra per caso, lo sguardo del compagno o del parente imputato. Questo processo non appartiene soltanto ai sessanta imputati ma a tutti i contadini del Sud e alle loro famiglie. Se patimenti e miserie che sono scritti in occhi si potessero contare ad anni come i reati ne avrebbero ciascuno per secoli. “Fuori di qui! – grida ai testimoni l’usciere -. Vi ho guardati bene, vi ho fatto la fotografia nella mia mente guai a voi se tornate in questa aula senza essere chiamati!”. Poi si rivolge al cancelliere: “È tutto in ordine”. Vengono tolte le manette agli imputati che si strofinano vigorosamente i polsi e se li mostrano facendo a gara a chi ha più marcati i segni, e così ha inizio la seconda parte dell’avventura dell’Arneo, a cui partecipammo per un’inchiesta di Omnibus.  Negli intervalli abbiamo veduto la Corte, il P.M. e gli avvocati disputarsi le copie del giornale in cui l’articolo apparve, e la graziosa cinese che era sulla copertina di quel numero ha largamente sorriso in quell’aula, affacciandosi fra gli aridi atti processuali.

Facciamo breve cronistoria dei fatti che hanno portato a questo processo che fin da principio si presenterà sotto un duplice aspetto: è un processo che non doveva farsi, una biasimevole montatura della polizia; d’altra parte, essendosi fatto, è diventato un episodio luminoso della lotta del bracciantato meridionale. È un processo puro, di una perfezione cristallina. Si direbbe che queste anime mortificate e ignoranti abbiano inteso offrire un paradigma della loro vita. Si stenterà a credere per tutta la durata del processo come abbia fatto la polizia a commettere tanti errori, e i contadini nessuno. Si alzerà dopo quattro giorni il Pubblico Accusatore e farà questa dichiarazione: “Non potrò pronunciare domani la mia requisitoria perché in questi giorni le cose sono completamente cambiate”. Ciò che è cambiato è che il processo si è capovolto: è diventato il processo dei contadini contro la polizia, della legittimità contro la illegalità faziosa.

Nel novembre ’49 una massa di braccianti disoccupati invadeva le terre dell’Arneo: i proprietari promisero formalmente la concessione in enfiteusi di settemila ettari. Se ne distribuiscono 680, poi le promesse vengono dimenticate; viene anzi la Legge-stralcio per lo scorporo del latifondo, senza che la sua applicazione venga estesa all’Arneo. L’on. Calasso (che è sotto denunzia insieme con gli on.li Guadalupi e Semeraro) e gli organizzatori sindacali spiegano la situazione ai contadini, che a un anno giusto, il 28 dicembre ’50, tornano in circa tremila sull’Arneo da una decina di paesi che coronano l’enorme plaga e vi si accampano. Il giorno seguente la polizia getta bombe lacrimogene contro gli occupanti che non reagiscono ma rimangono sul posto, la notte, poiché erano le fredde notti degli ultimi giorni dell’anno, faranno la legna anche per i carabinieri di presidio, perché si scaldino. Per le feste di Capodanno vanno a passare la notte in famiglia; ne restano qui 3-400 sotto ripari improvvisati di frasche. La mattina del 2 gennaio, giunti nuovi rinforzi da Bari, i contadini vengono circondati e picchiati e si ritirano senza resistere. Vi saranno arresti e cadranno nelle mani dei carabinieri biciclette, coperte, indumenti, attrezzi da lavoro e viveri. Si dirà nei verbali che il fuoco dei falò si è appiccato da solo a questi miserabili beni, bruciandone buona parte. La notte dal 2 al 3 non successe altro che questo: alcune ombre furono viste aggirarsi intorno al luogo. La mattina del 3 si verificheranno gli episodi di violenza che attireranno su dieci imputati, in stato d’arresto da quattro mesi, le imputazioni più gravi. Duecento contadini, riunitisi a un paio di chilometri dal casolare di Carignano si andarono avvicinando fino a un centinaio di metri “Intimando la resa delle armi e l’abbandono della località”. Si noti che sull’Arneo sono rimasti essi soli, questi duecento poveri diavoli che non se ne possono andare: sono essi le anime in pena che non hanno preteso quando la forza era dalla loro parte: la resa delle armi e l’abbandono del casolare che avevano sgombrato pacificamente quando già lo tenevano? Disarmati, e dall’altra parte un plotone di cinquanta carabinieri che li fronteggia col mitra spianato, basterà un colpo sparato da un carabiniere perché questi feroci assalitori spariscano nella macchia. Strano e incomprensibile assedio.

I primi due giorni trascorrono nell’interrogatorio degli imputati. Nonostante le proteste dei difensori e della stampa, gli interrogatori si svolgono a bassa voce. Non si riesce a sentire nulla. La eccellentissima Corte, il P.M., gli avvocati si mettono a succhiare caramelle di menta. Osserviamo le mani degli interrogati cercando di indovinare da esse ciò che dicono: incallite, tenaci, simili a radici della terra, gesticolano con uno strano impaccio, sembra che non sappiano che attrazione tremenda ha dunque l’esistenza da essere accettata persino in così avverse condizioni. I rammendi più ridicoli, le toppe messe le une sulle altre coi ritagli più disparati, le scarpe scalcagnate e senza suola, i capelli cespugliosi che non hanno mai conosciuto le cure di un barbiere e tutto questo, e un sorriso tristissimo corrispondono a una scheda penale incensurata. “Non sono questi gli uomini che dovrebbero stare sul banco degli accusati – dirà il segretario della Camera del Lavoro – ma i proprietari che son venuti meno agli impegni assunti di fronte ai lavoratori e agli stessi rappresentanti della legge”.

Il terzo giorno è la giornata dei marescialli e dei carabinieri. È una seduta disastrosa in cui i testi pare facciano a gara a dare la più pietosa impressione. Dopo i carabinieri che dicono di non ricordare nulla, la tesi dell’avv. Rizzo che i marescialli devono avere più memoria dei carabinieri naufragherà fra il divertimento e il disgusto generale. Si smentiscono continuamente, non riescono a rispondere a nessuna domanda precisa, cercando di evaderla rifacendosi ogni volta daccapo e saltando proprio il punto da delucidare. Arriveranno a dare sette versioni totalmente distinte d’un fatto semplicissimo qual è l’arresto di Conchiglia Ferrer e Antonio Renna: e il famoso episodio dell’accerchiamento della motocicletta del maresciallo Carrieri e del carabiniere Rizzo da parte di malintenzionati, l’eroica difesa del maresciallo che li teneva a bada con il mitra ma stava per essere sopraffatto dal numero e disarmato, l’arrivo provvidenziale del commissario Magrone che li libera e arresta Renna e Conchiglia mentre gli altri si danno alla fuga. Vedremo i fatti ridursi a un certo momento alle seguenti proporzioni: Renna e Conchiglia camminavano soli sulla strada di Veglie. Il maresciallo Carrieri diede l’alt, a cui si fermarono, e lì sopraggiunse sulla motocicletta guidata dal carabiniere Rizzo. A questo punto Renna, un ebanista dalla faccia furba di furetto, domanda la parola: “È vero – chiede al carabiniere – che sei caduto con la moto?”.

“Si. Dopo che il maresciallo era saltato a terra frenai dimenticando la marcia ingranata”.

“È vero che io ti aiutai a rialzarti da terra?”.

“Si è vero”.

Per l’umanità di questo gesto Renna attende in carcere da quattro mesi un giudizio di violenza alla forza pubblica, ed è meglio non pensare cosa sarebbe accaduto se il P.M. non fosse stato il primo a smontare questo processo, e soprattutto se migliaia di umili e disperati non avessero saputo contenere la propria protesta umana entro i limiti della più limpida irreprensibilità. Nella requisitoria del dottor Cotugno vi è un punto che dimostra come egli abbia saputo leggere non solo fra le righe ma anche nel bianco steso dei fogli dei ponderosi volumi dell’istruttoria. “Non ho trovato in nessuna pagina degli interrogatori una sola parola che accennasse alla sorte delle biciclette. Non vi sono elementi sicuri per dire se le biciclette furono bruciate dai carabinieri, ciò che fosse stato dimostrato avrebbe costituito un fatto assai grave, poiché essi sarebbero andati al di là del loro potere, ma non si può neanche affermare che le biciclette siano andate bruciate dai contadini. C’è in tutti una preoccupazione di non dire. Ad ogni modo riguardo all’accerchiamento del casolare il mio pensiero è questo: se ci fu ne parleremo”. Nel margine vuoto fra le accuse di intimidazione avanzate dagli ingarbugliati verbali della forza pubblica, preoccupata di occultare i roghi che aveva innalzato, e le reticenze dei contadini che vista la piega di arresti e persecuzioni negavano di essere stati sul posto e conseguentemente non denunziavano il sequestro o la distruzione delle biciclette, c’era solo un filo, ed era la nostra inchiesta su Omnibus. Si sarebbero potuti chiamare i testimoni da noi scoperti, i due cavamonti, il guardiano di vacche di Tamborrino, ma il dottore Cotugno non ne ha avuto bisogno per convincersi che tutte le contraddizioni s’illuminavano tristemente alla luce di quei crudeli falò. E gli infelici che non si rassegnavano a far ritorno in paese senza la bicicletta o una coperta che non riuscirebbero a sostituire in dieci anni, dopo aver vagato tutta la notte si decidono al mattino a chiederle ai carabinieri, non osavano avvicinarsi e da un centinaio di metri domandavano che gli venisse restituito quell’unico bene che possedevano, e senza il quale diminuiva ulteriormente la probabilità di trovar lavoro per qualche mese all’anno. Al primo colpo di mitra si dispersero e fecero ritorno ai paesi, e noi abbiamo visto alcuni di questi uomini piangere come bambini, ed altri dire che avrebbero preferito perdere un figlio.

Il quarto giorno compare davanti alla Corte il teste Achille Tamborrino. È vestito d’un abito di taglio sportivo, con una cravatta verde e all’occhiello il distintivo della squadra del Maglie, di cui è finanziatore. La sua famiglia è proprietaria di gran parte dell’Arneo. Gli verrà chiesto se intende costituirsi parte civile. Risponde di no.  Si tratta di danni irrilevanti, dice con aria salottiera, come dicesse: “Prego, non c’è di che”. Ma mentre i danni non sussistono realmente perché la zona, l’abbiamo vista coi nostri occhi, è tutta macchia con rade olivastre che non sono state toccate, c’è in Tamborrino la piccola preoccupazione di non confessare che è terra completamente incolta.

“Signor Presidente, – domanda l’avvocato Rizzo – vuol chiedere al teste se conosce la sua proprietà su cui ebbe luogo l’occupazione?”. Il teste rispose di no. Che non ci furono danni lo conferma il suo amministratore, e che non ci potessero essere lo dicono persino i carabinieri.

“Chi ha parlato dunque di danneggiamenti?” dirà spazientito il P.M. Il dott. Cotugno è nipote d’un vecchio deputato radicale di Trani. Cercando di tenere quanto più lontano possibile la politica dal processo, egli non potrà non riconoscere l’alto fine sociale della lotta per la redenzione dell’Arneo e il miglioramento delle condizioni di vita di una regione ingiustamente povera come è il Salento. La sua requisitoria mostrerà il complesso atteggiamento d’un uomo il cui giudizio morale si sente impegnato oltre le limitazioni impostegli dalla sua funzione. Dopo le sue conclusioni che lasciano tutte le porte aperte alla difesa, c’è nel pubblico un’aria di sollievo e nelle interruzioni i contadini che dall’anno scorso lavorano sull’Arneo portano agli imputati i primi prodotti strappati dalle loro mani alla squallida macchia. Fanno la loro apparizione nell’aula fave, cicorie e piselli freschi. Questo processo è stato per me una vera rivelazione: dove avranno imparato tali finezze psicologiche questi uomini di cui gli atti processuali ci hanno rivelato l’altissima percentuale di analfabetismo? Ma non bisogna dimenticare che dopotutto questi paria sono i discendenti degli antichi Messapi e dei Greci.

Undici avvocati si succederanno nella difesa, e l’innocenza dei contadini, già indovinata dal P.M., non lascerà più luogo a dubbi. Resta un ostacolo nell’articolo 633 (chiunque invada arbitrariamente terre altrui al fine di occuparle o di trarne profitto viene punito ecc.). Su questo punto si impegneranno gli on.li Basso e Gullo con argomentazioni d’una serrata lucidità, cercando di stabilire un accordo fra l’articolo del C.P. e la profonda trasformazione di valori morali che avverte la Costituzione. I tremila contadini che invasero coi simboli delle bandiere tricolori quelle località dell’Arneo non avevano come fine quello di imporre la loro occupazione, il loro dominio su quelle terre, ma attraverso un’occupazione simbolica intendevano richiamare l’attenzione del governo sull’urgenza del loro problema, che era la necessità di lavorare. Che la loro richiesta fosse legittima lo dimostra il fatto che in seguito all’occupazione il Governo ha esteso la legge stralcio all’Arneo. Tanto meno si può parlare di profitto, che è negato dallo stesso Tamborrino, ai cui danni si sarebbe dovuto esercitare. Una volta che esiste il diritto all’agitazione sociale, è evidente che i braccianti disoccupati, che ammontano in Puglia a 150.000, non dispongono che d’un solo mezzo di agitazione ed è per l’appunto l’occupazione simbolica delle terre incolte. “È un assurdo parlare di delitto contro la proprietà – dirà Gullo – anche perché in tal caso dovremmo riconoscere un’insostenibile differenza di trattamento giuridico fra contadini ed operai, i primi occupano le terre incolte per agitare il problema e renderle produttive, i secondi occupano le fabbriche per impedire la serrata e la conseguente improduttività: gli uni e gli altri occupano qualche cosa che non è loro per difendere quella famosa funzione sociale della proprietà e il loro diritto al lavoro. Condannando i contadini ed assolvendo gli operai la legge cadrebbe in un assurdo spaventoso e verrebbe ad affermare la inferiorità dei contadini non solo rispetto ai padroni ma ai loro stessi compagni di lavoro nel campo industriale. E poiché vi è un Nord industriale e un Sud contadino, parrebbe che persino la legge abbia voluto consacrare la inferiorità del Sud”.

Dopo l’arringa riassuntiva dell’avv. Aimone, la Corte si ritira per il verdetto. È l’ottavo giorno di processo. Il verdetto richiederà cinque ore.

“Io so solamente che mi hanno fatto venire i piedi piatti” borbotta un carabiniere davanti alla gabbia.

L’art. 633 non è passato. Esclusi tutti gli altri reati sorti dalla fantasia di un commissario di P.S. e nonostante la convinzione che quasi tutti gli imputati abbiano partecipato realmente alla occupazione, la Corte ne ha mandati assolti quanti ha potuto, condannandone solo 15 a un mese, col condono e la non iscrizione. E ha ordinato l’immediata restituzione delle biciclette sequestrate. Sulla parola “biciclette” il processo dell’Arneide si chiude come un melodramma in cui nelle battute finali torni a risuonare il motivo dominante. Domani 63 biciclette torneranno a percorrere le strade della pianura salentina. Ma biciclette che non ci si può immaginare senza averle viste; biciclette con le ossa di fuori, tenute su a furia di spaghi: telai di tavole, sellini senza forma, manubri e ruote arrugginiti, pedali che cigolano come carrucole di un pozzo. Biciclette d’uno squallore così metafisico che sembra impossibile che non abbiano un’anima.

(“ Omnibus” 20 maggio 1951)

17/7/2020 https://www.notap.it

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