Dando i numeri sui salari

Mi cimento anch’io nella discussione sul salario minimo, sul salario contrattato da sindacati confederali e sindacati farlocchi, sull’andamento dei redditi da lavoro. Scrivere questo articolo è per me umiliante. Mi si presenta, o ripresenta, la stessa questione che mi vide in dissenso rispetto all’accordo interconfederale del 1993 sulla politica dei redditi per diversi aspetti, in primis la definitiva cancellazione dell’indennità di carovita, come veniva chiamata da Di Vittorio, e la sua sostituzione con la previsione che i futuri aumenti salariali dovessero essere valutati «anche alla luce delle eventuali variazioni delle ragioni di scambio del Paese»: dall’internazionalismo proletario e solidale all’organizzazione del crumiraggio come unica possibilità per essere competitivi nell’economia mondializzata. E di strada ne abbiamo fatto tanta.

Le rilevazioni statistiche, gli studi e le ricerche italiane e internazionali sull’andamento delle retribuzioni dei lavoratori sono numerose, ma apparentemente poco conosciute anche da parte di chi decide sui redditi dei lavoratori. Dico apparentemente, perché si ha la spiacevole sensazione che questi dati siano volutamente ignorati per poter mentire.

Piove sul bagnato

Nei giorni scorsi l’Istat ha pubblicato l’ultimo rapporto trimestrale sull’andamento delle retribuzioni contrattuali. Ecco il commento dell’istituto di statistica: «La dinamica tendenziale delle retribuzioni contrattuali continua a mostrare un progressivo rafforzamento: a giugno 2023 la crescita su base annua è stata del +3,1% (la più marcata da novembre 2009). Il comparto pubblico – che beneficia dell’applicazione degli incrementi relativi ai rinnovi del triennio 2019-2021 siglati a partire da maggio 2022 – è quello che registra l’incremento più alto (4,4%). Nonostante il recente rallentamento dell’inflazione, nei primi sei mesi dell’anno la distanza tra la dinamica dei prezzi (IPCA) e quella delle retribuzioni supera ancora i sei punti percentuali». Si conferma così una tendenza alla riduzione dei salari reali che caratterizza questa fase economica e sociale a livello internazionale ma in Italia si presenta con un andamento tra i peggiori in Europa.

Prima gli effetti della pandemia del Covid e poi la crescita impetuosa dell’inflazione hanno determinato una caduta dei salari che ha colpito tutti i lavoratori, ma, soprattutto i lavoratori meno qualificati e a più basso reddito. Dall’ultimo rapporto dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro relativo ai salari nell’anno 2022: «Tra i paesi del G20, che raggruppano circa il 60 per cento dei lavoratori dipendenti del mondo, si stima che la crescita dei salari reali nella prima metà del 2022 sia scesa del 2,2 per cento nelle economie avanzate, mentre la crescita dei salari nelle economie emergenti è rallentata ma è rimasta positiva allo 0,8 per cento». Sempre nello stesso rapporto viene posta in evidenza la tendenza a un aumento del divario nei redditi tra gli stessi lavoratori che colpisce soprattutto le donne e i giovani.

L’OCSE conferma questa tendenza: «Alla fine del 2022, i salari reali nella Penisola erano calati del 7,5% rispetto al periodo precedente la pandemia contro una media Ocse del 2,2%. La Francia, ad esempio, segna addirittura un aumento reale dell’1,5%, in Germania la flessione è contenuta al 3,2%, in Spagna e’ del 4% e negli Usa del 2,3%. La discesa potrebbe non essere conclusa: in base alle proiezioni Ocse, in Italia i salari nominali aumenteranno del 3,7% nel 2023 e del 3,5% nel 2024, mentre l’inflazione dovrebbe attestarsi al 6,4% nel 2023 e al 3% nel 2024. La perdita di potere d’acquisto ha un impatto più forte sulle famiglie a basso reddito, che hanno una minore capacità di far fronte all’aumento dei prezzi attraverso il risparmio o l’indebitamento». Sempre l’OCSE, nel 2021 aveva fotografato la situazione dei salari in Europa:

I lavoratori italiani hanno il primato nella gara della corsa verso il basso delle paghe; nonostante questo, produzione e competitività ristagnano e Governo e media ci vendono i grandi successi di una crescita del prodotto interno lordo del 1,..% mentre la crescita dell’occupazione avviene esclusivamente riducendo le ore lavorate, cioè – ancora una volta – a scapito dei redditi da lavoro.

Lavoro povero e diseguaglianze

In Italia si sono svolte alcune interessanti ricerche sulla crescita dei lavoratori poveri, quelli che pur percependo un salario rimangono al di sotto della soglia della povertà.

Le Acli hanno intelligentemente usato la fonte della dichiarazione dei redditi dei lavoratori che si sono avvalsi del loro servizio di Centro di assistenza fiscale (CAF): «Emerge che il 14,9%, pur lavorando, ha un reddito inferiore o pari a 9.000 euro. Se si considerano anche i redditi complessivi inferiori o uguali a 11.000 euro, ovvero quelli dei lavoratori poveri (working poor), si arriva a una percentuale di lavoratrici e lavoratori pari al 19,5%; mentre si raggiunge il 29,4% tra quanti hanno un reddito complessivo che non va oltre i 15.000 euro e che possiamo definire “vulnerabili”, ovvero a rischio di povertà di fronte ad un evento inaspettato o fuori dall’ordinario (una malattia, un divorzio o perfino la nascita di un figlio).

Nella relazione di presentazione del rapporto annuale INPS, il malcapitato presidente dell’istituto che oggi i fascisti vorrebbero processare in parlamento, scriveva: «La distribuzione dei redditi all’interno del lavoro dipendente si è ulteriormente polarizzata, con una quota crescente di lavoratori che percepiscono un reddito da lavoro inferiore alla soglia di fruizione del reddito di cittadinanza. Per la precisione il 23% dei lavoratori guadagna meno di 780 euro/mese, considerando anche i part-time. Per contro, l’1% dei lavoratori meglio retribuiti ha visto un ulteriore aumento di un punto percentuale della loro quota sulla massa retributiva complessiva». La relazione del professor Tridico, più da segretario politico di un partito che da presidente dell’Inps, tratta seriamente la disgregazione dei rapporti di lavoro determinata dalla precarietà e gli effetti sui redditi. Il nuovo Governo lo ha subito rimosso.

I rapporti di ricerca delle Acli e dell’Inps vengono puntualmente confermati dall’ultimo rapporto del Gruppo di lavoro “Interventi e misure di contrasto alla povertà lavorativa” istituito con decreto ministeriale n. 126 del 2021, ma nella presentazione del rapporto il Ministero dei mercanti del lavoro della signora Calderone (https://volerelaluna.it/commenti/2023/07/28/un-governo-che-odia-i-poveri-e-i-lavoratori/) tiene a ribadire che «le opinioni e le proposte espresse in questa relazione rappresentano esclusivamente il punto di vista dei membri del Gruppo di lavoro e non riflettono la posizione delle istituzioni a cui appartengono né quella del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali».

Economia, scontro sociale e democrazia nell’era della scarsità

Quando non ce n’è per tutti e si fa fatica ad arricchirsi è meglio prendere i soldi ai più deboli che sono, guarda caso, i più poveri. Anche in questo caso l’Italia è in prima fila in questo processo in corso a livello globale che, quando non basta il mercato, ricorre alle guerre. In questi giorni il Governo italiano, gli imprenditori e anche qualche economista hanno espresso la loro preoccupazione che la politica dei tassi d’interesse della Banca Europea possa portare al fallimento di molte imprese italiane. È la stessa politica che fu adottata dalla troika per ammazzare il Governo greco e “fare fuori Varoufakis”, come si espresse il signor Renzi aprendo i lavori del consiglio dei ministri italiano. Perché una politica monetaria può andare bene per alcuni e non per altri? Per la stessa ragione per cui si deve tagliare il reddito di cittadinanza dei fannulloni (dai titoli dei giornali che sostengono apertamente il Governo): si accumulano ricchezze ritornando al furto democratico perché fondato sul consenso di chi ancora vota alle elezioni politiche sostenuto da un ceto medio sempre più incerto che spera di riprendersi facendo pagare la crisi a chi ha redditi molto bassi ed è privo di alcuna voce politica.

La balla della efficacia della contrattazione sindacale

Sia la signora Meloni che autorevoli esponenti di parte padronale continuano a ribadire che il modo migliore per difendere i salari è quello della contrattazione. Non sono soli. In Parlamento giace a verbale la posizione unitaria delle tre Confederazioni sindacali Cgil, Cisl e Uil le quali paventano che una la legge sul salario minimo possa provocare «una fuoruscita dall’applicazione dei contratti collettivi nazionali, rivelandosi così uno strumento per abbassare i salari e le tutele delle lavoratrici e dei lavoratori». Eppure un bilancio sulla loro forza e sulla loro efficacia nella contrattazione collettiva dovrebbero farlo.

Nei giorni scorsi, in un dibattito televisivo, un rappresentante della più autorevole associazione padronale sottolineava come nei paesi dove non c’è il salario minimo e la dinamica salariale è determinata dalla contrattazione collettiva le retribuzioni sono nettamente più alte. O è ignorante o è bugiardo. Ecco i dati forniti da Eurostat (e ripresi dall’Istituto europeo di studio delle condizioni di lavoro e di vita dei lavoratori Eurofound con sede a Dublino) relativi alle retribuzioni contrattuali dei lavoratori che svolgono le mansioni meno pagate dei paesi dove non c’è il salario minimo:

I salari italiani sono decisamente i più bassi e se prendiamo le retribuzioni mensili indicate per il nostro paese e le dividiamo per il coefficiente 173 normalmente usato nei contratti collettivi nazionali per calcolare la paga oraria (può essere 170 in quelli che hanno aggiornato il coefficiente ma anche 175 per altri contratti), viene fuori la paga oraria lorda: 976 euro mensili diviso 173 per le paghe più basse = 5,64 euro/ora; 1.348 euro mensili diviso 173 per le paghe medie = 7,79 euro/ora. E questi estremisti dell’opposizione propongono 9 euro l’ora. Estremisti? Mica tanto, il salario minimo lordo delle prestazioni occasionali pagato con il voucher è di 12,41 euro corrispondenti a 9 euro netti.

Sempre gli istituti economici e di ricerca internazionali mettono poi in evidenza come siano ormai moltissimi i contratti nazionali di lavoro che non vengono più rinnovati. Nel rapporto del Ministero dei mercanti del lavoro pubblicato il 17 luglio 2023 relativo alle domande delle imprese di detassazione dei premi di risultato o della partecipazione agli utili d’impresa si sottolinea che «prendendo in considerazione la distribuzione geografica, per Ispettorato del lavoro competente, delle aziende che hanno depositato gli 85.971contratti ritroviamo che il 75% è concentrato al Nord, il 17% al Centro il 8% al Sud». Insomma, le signore Meloni e Calderone sono decisamente per la contrattazione ma non quella collettiva e solidale del rinnovo dei contratti collettivi nazionali, bensì finanziano la diffusione dei contratti aziendali come richiesto non tanto tempo fa dalla Confindustria e dalla Banca Europea (a firma Draghi, per non dimenticare). Si conferma così, se ancora ce ne fosse bisogno, quello che le ricerche delle Acli e dell’Inps avevano evidenziato: crescono le diseguaglianze anche tra gli stessi lavoratori.

E perché il salario non ce lo pagano in sale?

La prassi di un paio di millenni fa di compensare una prestazione di lavoro con una certa quantità di sale ha dato origine alla parola “salario”. La spinta all’emulazione ritorna a essere oggi molto forte perché in questo modo si può pagare un lavoratore evitando di pagare le tasse allo Stato e i contributi previdenziali all’Inps e all’Inail. Ed ecco che una parte del salario si trasforma in quota per la pensione integrativa, per la mutua integrativa, per il buono pasto con cui andare a fare la spesa al supermercato, il buono trasporti e ora arrivano i fringe benefits le elargizioni per le spese dell’energia, del gas sino alla carica dell’auto elettrica nella colonnina aziendale di alimentazione messa a disposizione innanzitutto per la clientela e poi anche per i dipendenti adeguatamente selezionati. Quanto incide sul reddito reale di un lavoratore tutto questo? E quanto concorre ad aumentare le diseguaglianze tra lavoratori quando qualcuno è “beneficiato” e qualcun altro no?

Con la sconfitta sindacale alla Fiat del 1980 si passò da una democrazia fondata sulla partecipazione a quella che Luciano Gallino definì elitarismo democratico. Ora abbiamo imboccato quella dell’autoritarismo non tanto contro l’avversario politico, piuttosto contro la povera gente. La sinistra che seleziona i suoi candidati con le primarie ha ormai escluso gli ultimi, richiamati qualche volta con il termine periferie pur trattandosi di esseri umani. A quando il partito delle ultimarie?

Fulvio Perini

Sindacalista alla CGIL, ha collaborato con la parte lavoratori, Actrav, dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro.

2/8/2023 https://volerelaluna.it/

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