De-dollarizzazione, BRICS e il significativo esperimento cinese
La decisione del Ministero delle Finanze cinese del 5 novembre scorso di emettere titoli di Stato denominati in dollari proprio in Arabia Saudita avviene in un momento storico significativo. Non solo perché segue immediatamente il XVI Summit BRICS di Kazan (22-24 ottobre) e coincide con le elezioni americane (5 novembre), ma anche perché questa decisione rivela alcune atipicità significative per il sistema internazionale nel suo insieme.
Partiamo dal contesto: durante il Summit di Kazan si è discusso ampiamente dei deficit strutturali del sistema finanziario globale, sono state avanzate alcune possibili soluzioni e si è anche fatto riferimento alla necessità di superare la centralità del dollaro statunitense quale valuta di riferimento per la comunità internazionale. La de-dollarizzazione, cioè il progressivo abbandono del dollaro, è una delle sfide più significative per la comunità internazionale, e vede i BRICS in prima linea in questo processo.
Per capire perché questo evento sia così interessante, procederemo a ritroso. Dopo aver illustrato le ragioni della sua atipicità, presenteremo alcune ipotesi per il sistema internazionale e la posizione che potrà assumere, in questo contesto, la Cina. Dopodiché, confronteremo la posizione cinese con il ruolo effettivo giocato dagli Stati Uniti nel sistema finanziario internazionale, per poi affrontare il problema da un punto di vista strutturale, soffermandoci sul significato della centralità del dollaro e sugli squilibri che ciò comporta per l’intero sistema. Infine, tenteremo di delineare quali scenari futuri potrebbero aprirsi a partire da questo fatto passato, per lo più, inosservato.
Cosa c’è di atipico?
Con la sua operazione, la Cina ha raccolto 2 miliardi di dollari emettendo, in Arabia Saudita, titoli di Stato con scadenza a tre e cinque anni, rispettivamente a uno e tre punti base (cioè: 0.01-0.03%) in più rispetto ai titoli del Tesoro statunitense. Per questa prima emissione di obbligazioni in dollari dal 2021, la Cina ha ricevuto offerte per oltre 40 miliardi di dollari, venti volte l’importo emesso, indicando una domanda estremamente elevata per i suoi titoli.
Innanzitutto, l’emissione di titoli di Stato è il modo in cui gli Stati possono decidere di finanziarsi. Cioè, uno Stato manifesta la propria disponibilità a prendere in prestito denaro da una controparte (un altro Stato, un’azienda, ecc.), impegnandosi a restituire, in un secondo momento, la somma originaria incrementata di un interesse.
In generale, gli Stati Uniti, attraverso la Federal Reserve, emettono titoli di Stato denominati nella loro stessa moneta. In questo caso, fissano loro stessi il tasso di interesse. Quando si presta denaro, il tasso di interesse è determinato in base al rischio di tale investimento. In questo caso, i due rischi principali sono il rischio sovrano (cioè la probabilità che lo Stato emittente fallisca e non sia più in grado di ripagare il proprio debito) e il rischio cambio (che deriva dalla probabilità che la moneta perda valore nel tempo). Nel caso degli Stati Uniti, la probabilità che essi falliscano è stata, finora, considerata estremamente remota, mentre le fluttuazioni del valore del dollaro non costituiscono, in genere, un rischio elevato. Ne consegue che il tasso di interesse fissato dalla Federal Reserve è stato sempre molto basso. Allo stesso tempo, quando un paese terzo prende in prestito dollari, lo fa a un tasso di interesse generalmente più alto di quello fissato dagli Stati Uniti, per compensare un diverso profilo di rischio (dovuto, ad esempio, a diverse condizioni politiche o economiche).
Guardando al nostro caso, la prima cosa che balza all’occhio è che il tasso di interesse fissato per i titoli di Stato cinesi è virtualmente identico a quello degli Stati Uniti (discostandosi solo dello 0,01-0,03%). Inoltre, la domanda riscontrata dai titoli cinesi è stata estremamente alta: 40 miliardi a fronte di un’emissione di soli 2 miliardi. Per fare un confronto con un caso tipico: i titoli di Stato denominati in dollari sono, in media, venti punti base più alti di quelli fissati dalla Federal Reserve; inoltre, difficilmente la domanda supera il doppio o il triplo dell’offerta.
Infine, la scelta dell’Arabia Saudita come sede di negoziazione è piuttosto atipica. In generale, infatti, i titoli di Stato vengono negoziati in centri finanziari globali come New York, Londra o Hong Kong, i quali, per la loro vasta base di investitori e la liquidità che sono in grado di offrire, costituiscono la scelta preferita per la negoziazione di obbligazioni e altri strumenti finanziari.
La scelta dell’Arabia Saudita è significativa per due ragioni principali. Primo, l’Arabia Saudita sta rafforzando le sue relazioni con i paesi BRICS e potrebbe presto formalizzare la sua appartenenza al gruppo. Secondo, l’Arabia Saudita occupa una posizione centrale nei mercati globali del dollaro, essendo un importante esportatore di petrolio (commerciato in dollari), e reinvestendo il suo surplus commerciale in titoli statunitensi.
In che modo ciò riguarda la de-dollarizzazione?
In sintesi, la Cina ha collocato titoli di Stato che sono virtualmente identici a quelli statunitensi, quantomeno in termini di rendimento; e lo ha anche fatto in un luogo chiave per il mercato globale del dollaro.
In questo contesto, la prima osservazione da fare è che la Cina è apparsa come un investimento altrettanto sicuro dei titoli statunitensi. È con ciò che si spiegano una domanda così alta e dei tassi di interesse così bassi.
Ma ci sono anche dei risvolti politici. In sostanza, questo piccolo esperimento ha mostrato al mondo che la Cina è in grado di porsi sullo stesso piano degli Stati Uniti. Concretamente, ciò significherebbe garantire il funzionamento di un mercato di dollari parallelo a quello statunitense.
In questo senso, la scelta dell’Arabia Saudita non è casuale e riguarda la sua specifica collocazione nell’economia mondiale, piuttosto che la semplice vicinanza al gruppo BRICS.
Come è noto, l’Arabia Saudita è un paese esportatore di petrolio. Il petrolio, con rare eccezioni, è stato finora scambiato esclusivamente in dollari – è ciò che si intende quando si parla di petrodollaro. Per via di questa circostanza, la domanda di dollari si è mantenuta alta nel tempo, garantendone la centralità nelle dinamiche economiche globali.
Inoltre, l’Arabia Saudita è solita reinvestire il suo surplus di dollari sui mercati finanziari statunitensi. In questo modo, gli Stati Uniti vedono rientrare in patria una parte dei dollari utilizzati – da ogni paese – nel commercio di petrolio, il che, come vedremo, offre diversi benefici alla loro economia.
A tale proposito, l’analista cinese Eason Mao sostiene che la decisione del Ministero delle Finanze cinese sia fortemente rilevante nel processo di de-dollarizzazione. A tal fine, ipotizza un meccanismo del genere:
- la Cina colloca i propri titoli di Stato denominati in dollari sui mercati sauditi, cioè prende in prestito soldi dall’Arabia Saudita;
- questi dollari verrebbero utilizzati nel commercio (ad esempio, di risorse, verosimilmente nel contesto della Belt and Road Initiative) con paesi in via di sviluppo, i quali soffrono di una carenza di dollari che impedisce loro di ripagare gli interessi sul proprio debito;
- la Cina ripaga il proprio debito verso l’Arabia Saudita (ad esempio, fornendo prodotti tecnologici avanzati, offrendo supporto negli investimenti infrastrutturali, nella costruzione di parchi industriali, ecc.);
- al contempo, i dollari delle economie emergenti rientrerebbero negli Stati Uniti, sotto forma di pagamento di interessi, il che farebbe aumentare l’inflazione e spingerebbe l’Arabia Saudita a preferire sempre più i titoli cinesi.
Nel complesso, si tratterebbe di un meccanismo in grado di riequilibrare gli squilibri commerciali, in termini di surplus o deficit di dollari, dell’economia mondiale. Paradossalmente, a restare fuori da questo meccanismo sarebbero proprio gli Stati Uniti, i quali si ritroverebbero estromessi dalla gestione di una quota significativa del sistema, mentre un grosso volume di dollari verrebbe dirottato verso altre finalità.
In questo senso, la congiuntura internazionale è favorevole affinché una circostanza del genere si verifichi. La situazione economica degli Stati Uniti non è tra le più rosee e ciò, dopo diversi decenni, comincia a gravare sulla propria capacità di far fronte agli interessi sul debito. Da questo punto di vista, non dovrebbe stupire che i titoli di Stato cinesi siano altrettanto appetibili di quelli statunitensi, né che gli Stati Uniti comincino a sembrare un investimento sempre meno sicuro.
Naturalmente, finora si è trattato solo di un piccolo esperimento (appena 2 miliardi di dollari), ma le implicazioni per il sistema internazionale sarebbero dirompenti qualora le autorità cinesi decidessero di proseguire in tale direzione.
A ogni modo, ciò ci porta direttamente al cuore del problema. Ovvero, per comprendere l’importanza storica del processo di de-dollarizzazione e la rilevanza dell’operazione cinese, bisogna collocare correttamente gli Stati Uniti nell’economia mondiale e, più in generale, comprendere gli effetti della centralità del dollaro.
Il ruolo degli Stati Uniti e la centralità del dollaro
La centralità del dollaro garantisce agli Stati Uniti diversi benefici, di natura sia politica che economica. Sul piano economico, il fatto che il dollaro statunitense costituisca la valuta di riferimento per la comunità internazionale li rende, de facto, in grado di determinare l’offerta di moneta e i tassi di interesse su scala globale. In altri termini, è quasi come se la Federal Reserve fosse a tutti gli effetti una banca globale.
Ciò rende l’economia mondiale fortemente dipendente dalle politiche statunitensi. Quando la Federal Reserve decide di aumentare o diminuire i tassi di interesse, queste decisioni influenzano direttamente i costi del credito e gli investimenti in tutto il mondo. Ad esempio, un aumento dei tassi di interesse negli Stati Uniti può attrarre capitali stranieri verso il dollaro, ma rendendo, allo stesso tempo, le esportazioni di altri paesi meno competitive. Inoltre, molte transazioni internazionali, come il commercio di materie prime (come, appunto, il petrolio), sono denominate in dollari, il che implica che le fluttuazioni del dollaro possono avere impatti significativi sui prezzi globali.
Oltre agli aspetti economici, la centralità del dollaro si traduce in un considerevole potere politico. Gli Stati Uniti possono reinvestire i propri profitti in progetti di diversa natura (anche militarista e neocoloniale), rafforzando la propria influenza geopolitica e mantenendo una presenza strategica in diverse regioni del mondo. Inoltre, il controllo che esercitano sul dollaro permette agli Stati Uniti di imporre sanzioni economiche a paesi che minacciano i propri interessi nazionali.
La dimensione strutturale del problema
Al di là del ruolo attivo incarnato dagli Stati Uniti, la centralità del dollaro, intesa come la centralità di una valuta di un singolo paese, comporta una serie di deficienze strutturali che negli anni hanno contribuito al verificarsi di numerose situazioni di tensione.
Storicamente, il sistema finanziario internazionale è stato concepito per accogliere la centralità del dollaro, sebbene in un contesto molto diverso. In sintesi, tale centralità trova la sua origine negli accordi di Bretton Woods del 1944, che ponevano il dollaro al centro del sistema finanziario e istituivano un cambio fisso tra dollaro e oro. Successivamente, nel 1971, il presidente Nixon decise di sganciare il dollaro dall’oro, prevalentemente per ragioni di politica interna.
Nonostante ciò, il dollaro statunitense mantenne la sua centralità. Considerata la sua diffusione e la fiducia nell’economia degli Stati Uniti, molti paesi trovarono conveniente continuare a utilizzare il dollaro. D’altra parte, non vi esisteva nessun paese in grado di sopportare i costi di una sua sostituzione, né esistevano mezzi di coordinamento idonei affinché si potesse prospettare un’alternativa al suo mantenimento. In sostanza, il dollaro era talmente diffuso che, nonostante non fosse più agganciato all’oro, era comunque conveniente continuare a usarlo.
C’è un ulteriore elemento che ha rafforzato la posizione del dollaro: negli anni ’70, gli Stati Uniti cominciarono a stringere accordi con i principali produttori di petrolio, portando all’adozione del dollaro nel commercio internazionale di petrolio – ed è così che entrano in gioco l’Arabia Saudita e il concetto di petrodollaro. Se, in un primo momento, il valore del dollaro era garantito dall’oro, da quel momento in poi la domanda di dollari era mantenuta alta dal suo stretto legame con il petrolio, generando dinamiche fondamentali ancora oggi.
Se, in generale, possiamo dire che il perdurare dell’egemonia del dollaro fu il frutto di circostanze favorevoli e dell’abilità degli Stati Uniti di mantenersi al timone, non possiamo ignorare, oggi, i problemi strutturali che sono emersi nel corso dei decenni nell’economia mondiale. Ciò perché, quando fu creato l’attuale sistema internazionale, la situazione era molto diversa: un numero ridotto di paesi partecipava all’economia mondiale e la distribuzione globale del potere politico rifletteva un ordine di cose non più attuale.
Con l’emergere di nuove economie, il sistema finanziario internazionale si è rivelato inadeguato a garantire la coesistenza di diverse potenze e una crescita armoniosa. In particolare, menzioniamo due squilibri strutturali, in quanto funzionali al nostro discorso:
- Squilibri commerciali, surplus e deficit di dollari
Le economie di recente industrializzazione hanno, in genere, basato la propria crescita sulle esportazioni. Nel far ciò, hanno accumulato ingenti riserve di dollari – poiché era più conveniente commerciare direttamente in dollari piuttosto che utilizzare la propria valuta nazionale. Sebbene ciò sia stato estremamente vantaggioso per ciascun paese, in quanto ha garantito una crescita di lungo periodo, nel tempo sono emerse diverse problematiche. La struttura del sistema internazionale è tale, infatti, da generare profondi squilibri tra paesi esportatori e paesi importatori. Ad esempio, mentre i paesi esportatori si trovano ad accumulare grandi quantità di dollari, i paesi importatori devono affrontare un deficit commerciale persistente; la stessa pratica di reinvestire il surplus dei dollari negli Stati Uniti, per quanto conveniente nel breve periodo, ha generato numerosi squilibri ed è parte integrante della spiegazione del problema del debito pubblico statunitense. In generale, uno squilibrio di questo tipo ha causato numerose rigidità e problemi di coordinamento internazionale; ad esempio, i paesi importatori o esportatori non possono modificare la propria politica commerciale senza provocare effetti imprevisti, il che è fonte di tensioni commerciali e talvolta anche geopolitiche.
- Debito denominato in dollari e rischio di insolvenza
Molti paesi, di fronte all’esigenza di finanziare i propri progetti o semplicemente per coprire il fabbisogno di liquidità, spesso ricorrono all’indebitamento in dollari. Sebbene vantaggioso per le stesse ragioni per cui utilizzare il dollaro è apparsa come la scelta conveniente, ciò li espone al rischio legato alla variazione del tasso di cambio. Per le economie più piccole, tali rischi possono diventare insostenibili. Ad esempio, un aumento del tasso di cambio comporterebbe un incremento del costo del debito, dirottando una parte significativa delle risorse verso il pagamento degli interessi e “intrappolando” l’economia in una situazione di difficile soluzione.
Quali scenari si aprono?
Con ciò abbiamo delineato i principali problemi strutturali dell’economia mondiale, individuato il ruolo degli Stati Uniti e definito in che modo possono trasformare la propria posizione privilegiata in vero e proprio potere politico. Abbiamo anche mostrato come il petrolio e il dollaro siano intimamente connessi e come l’operazione cinese in Arabia Saudita si rivolga, in larga misura, verso il cuore del sistema.
Non è un caso che, nel contesto dei BRICS, si discuta di creare una nuova valuta che regoli i rapporti commerciali tra gli Stati, di affrontare gli squilibri finanziari e di ripensare le fondamenta stesse del sistema finanziario internazionale.
A questo punto, possiamo tentare di definire due macro-scenari nel contesto della de-dollarizzazione. Nel primo, al dollaro verrebbe sostituita un’altra valuta. La Cina potrebbe sfruttare la propria potenza finanziaria per detronizzare gli Stati Uniti. In una fase iniziale, qualora abbia riserve di dollari sufficienti, potrebbe operare un mercato parallelo a quello del dollaro statunitense. In una fase più avanzata, potrebbe spingere per internazionalizzare lo yuan quale valuta di riferimento e, così facendo, giungerebbe a occupare la posizione centrale del sistema finanziario, al posto degli Stati Uniti.
Ciò, in un primo momento e durante l’intera fase di transizione, che potrebbe durare anche qualche decennio, darebbe un impulso all’economia mondiale: le economie emergenti beneficerebbero della diversificazione, sarebbero integrate in una nuova rete di produzione, e via discorrendo. Sul lungo termine, ciò rischierebbe di riprodurre una situazione analoga a quella odierna: l’egemonia di una sola valuta, con la Cina e il sistema internazionale imbrigliati in una situazione di difficile gestione.
Ma ci sarebbe un’alternativa. La Cina – e i BRICS – sono ben consci dei limiti che deriverebbero dall’adottare una moneta unica. I fallimenti storici dell’universalizzazione del dollaro, su scala globale, e le esperienze fallimentari dell’euro, su scala regionale, sono eloquenti. In questo senso, è possibile che prevalga l’idea secondo cui adottare una moneta unica non sia la soluzione; ciò sposterebbe il problema: non si tratterebbe più di far convergere le economie verso un unico modello (l’esperimento europeo) ma di ideare meccanismi di coordinamento internazionale all’altezza dell’impresa.
Non a caso, si discute, in ambito BRICS, di creare una nuova valuta che regoli gli scambi tra Stati, di affrontare gli squilibri del sistema finanziario, mentre lo stesso governatore della banca centrale cinese, Zhou Xiaochuan, aveva paventato, ormai più di dieci anni fa, di riprendere l’idea keynesiana del bancor. Si tratterebbe, cioè, di ripensare le fondamenta del sistema finanziario internazionale e, con esso, l’intera struttura dell’economia mondiale.
Tuttavia, restano aperti diversi interrogativi: la liquidità detenuta dai cinesi sarà sufficiente per tentare l’impresa? Quale sarà la risposta degli Stati Uniti? Che ruolo attivo avranno i BRICS nella de-dollarizzazione? Quale spazio sarà riservato alle economie emergenti? Soprattutto: che aspetto può avere un mondo privo di egemone?
Danilo Silvestri si è laureato in Scienze Internazionali e ha proseguito i suoi studi in Cina. Si occupa di relazioni internazionali ed economia
26/11/2024 https://www.lantidiplomatico.it/
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