Decreto Dignità, ignorando storia e teoria economica
Il decreto Dignità solleva delle dispute che rasentano la stupidità. Innanzitutto l’effetto discutibile di meno 8.000 lavorati, su oltre 2 milioni di lavoratori coinvolti dai contratti a tempo determinato, è molto più che residuale. A ruota segue l’incredibile discussione sugli effetti finanziari del decreto pari a 151 milioni di minori entrate fiscali per il triennio 2018-19-20 (relazione tecnica del decreto Dignità).
La prima e la seconda considerazione tradiscono una profonda e non banale malafede e/o “ignoranza” (nel senso di non conoscenza) delle teorie economiche del benessere e ancor di più dei principi ispiratori dell’economia classica (Smith e Ricardo).
Il primo e non banale aspetto da sottolineare è il seguente: la crescita sconsiderata del lavoro a tempo determinato ha concorso in misura considerevole a
1) ridurre la produttività per addetto e capitale,
2) ridurre il valore aggiunto per addetto,
3) consolidare e approfondire la de-specializzazione del tessuto produttivo e dei servizi del Paese.
Più precisamente, i fautori degli effetti negativi del decreto non hanno conoscenza né dell’effetto Ricardo – quando aumentano i salari si rafforzano gli investimenti -, né dell’effetto Smith – al crescere dei salari aumenta la domanda e quindi i mercati da soddisfare.
Se l’economia nazionale cresce meno della media europea (meno 13 punti di PIL tra il 2007 e il 2016) vuol dire che qualcosa non ha funzionato nella politica economica e nella politica del lavoro del Paese.
Sebbene l’industria italiana sia ormai ai margini della specializzazione europea, e gli incentivi fiscali del 2015-16-17-18, pari a 55 miliardi di euro di cui 12,5 miliardi strutturali (C. Perniciano), non hanno prodotto nessun effetto di struttura, se non quella non meno grave di minori entrate fiscali pari a 12 miliardi (e qualcuno si lamenta per 151 milioni di minori entrate fiscali), la discussione relativa al decreto Dignità è almeno monca degli effetti (marginali) sul sistema produttivo.
Ovviamente non commetto lo stesso errore di del presidente dell’INPS (sempre fuori posto nelle considerazioni svolte) e Confindustria nel considerare grave meno 8.000 posti di lavoro e meno 151 milioni di minori entrate, ma possiamo almeno considerare l’effetto potenziale di maggiore valore aggiunto sotteso alla riduzione minimale del lavoro a tempo determinato? Quante entrate aggiuntive produrrebbero? Si tratta di decimali e molto a margine del sistema economico; per questa ragione, probabilmente, non sono state considerate nella relazione tecnica, ma almeno la relazione tecnica doveva (poteva) anche prendere in esame la potenziale trasformazione del lavoro a tempo determinato in tempo indeterminato visto che sono così importanti secondo Confindustria e il presidente dell’INPS.
Qualora non siano importanti, hanno ragione sia l’INPS che Confindustria, così come la relazione tecnica, ma a questo punto abbiamo un problema ancor più drammatico: la creazione di lavoro in Italia è possibile solo ai margini dello stesso, con poco valore aggiunto incorporato e, peggio ancora, con un profitto atteso delle imprese che traguarda il margine del costo del lavoro e non le aspettative di crescita.
Roberto Romano
27/7/2018 http://sbilanciamoci.info
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