DEMOCRAZIA E JOBS ACT.
Il cosiddetto “cambiamento” riformista del governo Renzi, è l’ultimo risultato in ordine di tempo di controriforme antisociali per la centralizzazione del potere, e l’annullamento dell’autonomia di eventuali forme rappresentative delle masse lavoratrici anche in futuro. La svolta autoritaria, avallata dall’inconsistenza di una qualunque opposizione alla deriva mafiosa e liberista di governi succedutisi all’indomani dell’operazione mani pulite, approda oggi in un governo incaricato di concludere la piena attuazione del Piano P2, sul definitivo sostanziale esautoramento di Parlamento e magistratura nella loro dipendenza dall’esecutivo. Premierato, presidenziale o neo-presidenziale, cancellierato o altro modello ancora in modo indifferente nell’eufemismo da trovare, le deviazioni attuate dal governo parlamentare per cancellare il principio di sovranità popolare – di costituzionale memoria – possono essere emblematicamente riassunte nella legge che stabilizza l’irretimento della forza-lavoro. Sinistramente sintomatico, poi, che a rivendicare un’astratta “sovranità” patriottica, svuotata di ogni contenuto sociale, sia invece la recentissima filiazione fascista di Casa Pound, nemmeno preoccupata con i saluti romani di mascherarsi alla stregua degli scalatori più scaltri del potere istituzionale, o di coloro che mai l’hanno abbandonato.
La predisposizione attuale della revisione della seconda parte della Costituzione è la diretta eredità del governo berlusconiano nella piena sottovalutazione dell’art. 138, che stabilisce la possibilità di revisione di leggi costituzionali soltanto ristretta a singole norme o singoli istituti, che non coinvolgano però l’intero quadro democratico espresso nel ‘48. Significativa l’analogia, poi, tra i ripetuti tentativi sui piani politici e istituzionali, di vanificazione della sovranità popolare (sin dal governo Prodi) mediante la sua sostituzione con i diritti fondamentali, civili, e quella riaffermata all’interno della legge di riforma del lavoro dove si è sanzionata la subalternità lavorativa, ammantata però di formali riguardi alla privacy, tutele, astratte e inoperanti provvidenze atte a “conciliare” vita e lavoro. Inutile dire che il Jobs Act è la ratifica legalizzata di una realtà lavorativa di partenza, pretesa da un contesto sovranazionale e confindustriale nostrano, di cui il governo “sinistro” si è fatto carico, sollevando così la destra da un possibile o probabile distruttivo dissenso elettorale e sociale, quale termine dell’“armonia prestabilita”, pace sociale, collaborazione o neocorporativismo da mantenere, di cui la personificazione Marchionne da tempo è paladina.
Questa la cornice di un Jobs Act, che perfino nella denominazione rivela la provenienza della velina internazionale da cui ha supinamente preso corpo. Non si ripeteranno in questa sede tutti i punti analizzati negli ultimi due numeri della nostra rivista (149, 150), cui eventualmente si rinvia, ma si preferisce evidenziare quanto finora risulta uno sviluppo emerso. Innanzitutto, la trovata anti-disoccupazione del contratto a tempo indeterminato sta mostrando il suo decorso parallelo a tutta la tipologia contrattuale precedente e rinnovata – come già previsto – a ulteriore frantumazione giuridica dei lavoratori, contrapposti ora anche tra nuove e vecchie assunzioni. Se le vecchie, infatti, godono di una residua monetizzazione al posto del reintegro previsto dall’articolo 18, sono però più esposte al rischio di licenziamento a causa di un appetibile ribasso salariale, da parte aziendale, possibile o proprio auspicabile con quelle nuove.
Il 23 aprile scorso quasi tutti i quotidiani hanno inneggiato all’efficace funzionamento della legge sul lavoro, sbandierando i 92.000 contratti in più rispetto a quelli cessati. A frenare gli entusiasmi però sono arrivati i moniti di Nomisma, secondo cui è prematuro parlare di spinta occupazionale, ma soprattutto i dati del Ministero del Lavoro e del Sole 24-ore, dai quali risulta che il saldo tra attivazione e cessazione dei contratti a gennaio era di 334.000 unità, a febbraio di 123.000, e a marzo di 92.000. Invece di una magica ripresa occupazionale, si deve perciò parlare della festa decontributiva regalata alle aziende da parte della legge. È stato calcolato che per ogni nuovo assunto a tempo indeterminato, entro il 2015, gli incentivi fiscali (eliminazione del costo del lavoro dalla base imponibile dell’Irap) e l’azzeramento dei contributi previdenziali per tre anni ammontano a un risparmio/guadagno di 8.060 euro l’anno per le aziende. Ulteriore chicca è stata offerta poi dalla Novartis, contraddistinta da un personale qualificatissimo e di esperienza, in grado di offrire ai propri dipendenti un articolo 18 riesumato, come benefit elargito al “valore” lavorativo degli individui. Non il valore e plusvalore materiale prodotto cioè, ma quello coesivo o “collaborativo”, di obbedienza alle esigenze dell’azienda, dimenticando ogni concetto “nostalgico”di unità di classe, di cui non s’ha più da parlare. Non a caso le attuali retribuzioni restano ferme nonostante aumenti il costo della vita, e si stipulino meno contratti alle donne, meno retribuite e sempre in attesa delle annunciate normative sulla maternità. Ma questa è una legge a tappe: la genericità iniziale funziona da ballon d’essai, poi arrivano decreti attuativi sedimentabili un po’ alla volta (per non far esplodere una conflittualità sociale corposa?), gli ultimi sono previsti solo per le vacanze di agosto prossimo.
Il rapporto Eurostat in merito alla disoccupazione europea mostra in prima fila questo paese per l’alto tasso di disoccupazione: 254 disoccupati in media per ogni operativo, 54 in Francia, 28 in Germania, 19 in Gran Bretagna. Coerenti con questi dati sono quindi gli investimenti relativi del Pil: 0,03% in Italia, 0,21% in Gran Bretagna, 0,25% in Francia, 0,35% in Germania. La deindustrializzazione in atto, ma da dissimulare, è visibile in questi dati ma non decifrata per i lavoratori fluttuanti, latenti, occasionali, disperati, ecc. in mancanza di criteri di lettura di questa fase critica dell’imperialismo. La inoccupazione necessaria a un mutamento della divisione del lavoro internazionale, deve essere gestita con giochi di prestigio governativi per il contenimento di immediate reazioni di massa, ma non può rispondere alle attese delle società espropriate e impoverite, governabili quindi con forme coercitive sempre più mimetizzate.
La centralizzazione del potere politico ha richiesto anche l’avocazione delle competenze (sottratte alle Regioni) per l’attuazione delle politiche attive, che avrebbero dovuto essere gestite dall’Agenzia Nazionale per l’occupazione, per un pacchetto di 5 miliardi – di cui molti saranno spesi per incentivi aziendali. Gli Enti locali sono stati esclusi dal ddl Boschi per essere accentrati a Roma, e per i 550 centri per l’impiego con 8.000 addetti – non in mobilità – non risultano stanziati che 60 milioni dalla Legge di Stabilità, mentre i costi del personale ammonterebbero a 250 milioni annui. Ancora non c’è traccia dei cosiddetti ammortizzatori sociali, non essendo rintracciabili le risorse finanziarie previste sulla carta. In compenso sembra in preparazione un’epurazione lavorativa per 20.000 esuberi nelle banche popolari, senza ipotesi di politiche attive per il loro ricollocamento, mentre la licenziabilità per i dirigenti pubblici dovrebbe sortire l’effetto di legarli in modo definitivo alle aleatorietà della politica.
Le “tutele crescenti” rammentano disposizioni della Carta del Lavoro fascista del 1927, gli strumenti per l’alternanza scuola-lavoro lasciano intravvedere l’istituzionalizzazione del lavoro gratuito per i giovani, la revisione delle mansioni è abbandonata all’incertezza dell’aumento di difficoltà e delle decurtazioni salariali per chi lavora. Sui controlli a distanza, poi, sembra che la dichiarata “tutela della dignità e della riservatezza del lavoratore” sia svuotata di senso dall’uso possibile di tecnologie innovative già approntate o proprio in uso. Sulla base ipocrita dell’aumento di sicurezza, verrebbe a modificarsi l’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori mediante: microchip negli scarponi da lavoro o negli elmetti, il gps integrato nelle cinture, braccialetti vibranti ai polsi, videocamere. Una generica legge europea vieta il controllo negli spogliatoi, mense e aree ricreative, mentre consente un monitoraggio del dipendente per indiretta conseguenza, per proteggere la produzione, la salute e la sicurezza del lavoratore. Intanto, nella realtà italiana Fincantieri avrebbe richiesto dei microchip, mentre il gruppo Elior delle cinture per il bar autogrill MyChef di Bologna, l’Inps delle telecamere nelle agenzie di Romano di Lombardia e Treviglio. Negli Usa, riportato dal The Wall Street Journal “The boss is watching”, dalla ricerca di Aberdeen Group, risulta che nel 2013 almeno 1/3 delle imprese ha monitorato i propri dipendenti. Epicenter, (Svedese) ha utilizzato microchip sottopelle a sostituzione del badge per l’apertura di porte o accesso ad ascensori.
Nel pianeta in crisi del capitale globalizzato i diritti lavorativi sono stati abbattuti, per ora a macchia di leopardo. Da noi, eliminato l’ultimo baluardo rimasto dell’articolo 18, sono stati anche compensati con qualche concessione sui diritti civili (divorzio breve), in modo da risultare un paese moderno a cancellazione di una conflittualità di classe, non monopolizzata dall’alto, ma che fosse dispersa nei bisogni diffusi di una popolazione alla mercé di normative geneticamente non più rintracciabili. I politici, non già i capitali appaiono come i padroni delle nostre vite: quelli non possiamo neppure più eleggerli, questi non li riconosciamo più come i nostri sfruttatori. Gli elenchi dei detentori della ricchezza privatizzata sono solo una curiosità statistica, non ci informano di quanto è stato sottratto alla società tutta, secondo il diritto arbitrario della sola abitudine ad accumulare.
Carla Filosa
1/5/2015 www.lacittafutura.it
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