Denatalità e crisi demografica: il nodo del rapporto tra riproduzione sociale e capitalismo

Gli uomini fanno la propria storia, ma non la fanno in modo arbitrario, in circostanze scelte da loro stessi, bensì nelle circostanze che trovano immediatamente davanti a sé, determinate dai fatti e dalle tradizioni” (Karl Marx, Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, 1852.)

In questo articolo proviamo a ragionare sui fondamenti strutturali e storici della crisi demografica attuale in Italia – caratterizzata da una drastica denatalità abbinata ad un crescente invecchiamento della popolazione – che ha al suo centro la questione della crisi profonda della cura (la “manutenzione” di cose, persone e legami sociali) e della riproduzione sociale. Dal nostro punto di vista, è evidente che questa crisi non si risolverà “mettendo una pezza” alle politiche fiscali e sociali, ma occorre una radicale riorganizzazione del rapporto tra produzione e riproduzione sociale, superando la rapace sottomissione della seconda alla prima, volta a delineare un orientamento sociale che non sacrifichi né l’emancipazione né la protezione sociale (il welfare), e che quindi permetta a persone di ogni classe, genere, sesso e colore della pelle di coniugare le attività socio-riproduttive con un lavoro sicuro, interessante e ben remunerato all’interno di città, comuni e quartieri trasformati in luoghi amichevoli dell’infanzia, delle donne e delle famiglie.

Si tratta di andare incontro, con politiche efficaci, alle scelte desiderate e libere delle persone, riconoscendo tra esse quelle di valore collettivo che meritano di trovare le condizioni per essere realizzate con successo. Servono azioni sistemiche e integrate per invertire la tendenza. Occorre combinare un forte sostegno economico alla scelta di avere figli con un processo di progressivo miglioramento della rete dei servizi per l’infanzia e un rafforzamento del congedo obbligatorio di paternità. Per farlo è necessario portare le politiche familiari al centro delle politiche economiche del paese.

Sappiamo che il capitalismo si basa sul mantenimento di una scarsità artificiale di beni e servizi essenziali (come alloggi, assistenza sanitaria, trasporti ecc.), attraverso processi di espropriazione, privatizzazione e mercificazione. Sappiamo anche che la privatizzazione consente ai monopolisti di aumentare i prezzi e massimizzare i loro profitti (si consideri il mercato degli affitti, il sistema sanitario statunitense o il sistema ferroviario britannico). Ma ha anche un altro effetto. Quando i beni essenziali sono privatizzati e costosi, le persone hanno bisogno di più entrate di quelle che altrimenti richiederebbero per accedervi. Per ottenerle sono costretti ad aumentare il loro lavoro (a scapito di attività dedicate alla cura e alla riproduzione sociale) semplicemente per accedere a cose e servizi essenziali per vivere. La via d’uscita da questa trappola è la demercificazione dei beni e servizi essenziali – non solo assistenza sanitaria e istruzione, ma anche alloggi, trasporti, cibo nutriente, energia, acqua e comunicazioni -, eliminare la scarsità artificiale e garantire l’abbondanza pubblica allargando la sfera dei servizi pubblici universali, slegare il benessere umano dall’accumulazione di capitale.

Le dimensioni della crisi demografica italiana

I dati demografici mostrano che l’Italia è il paese più vecchio d’Europa (e il terzo al mondo dopo Corea del Sud e Giappone) e la natalità segna il passo: 464 mila nati nel 2017, 439.747 nel 2018, 400.249 nel 2021, e nel 2022 per la prima volta dal 1861 sono nati in Italia meno di 400 mila bambini (poco più di un terzo delle nascite raggiunte al picco del baby boom, nel 1964). Il paese ha continuato a crescere grazie all’apporto degli immigrati stranieri fino al 2014 – nel 2022, 5 milioni 30.716, ma anch’essi sono ora in diminuzione -, quando i residenti avrebbero raggiunto il numero di 60 milioni 795.612. Da allora la discesa è stata a precipizio. All’inizio del 2022 eravamo 58 milioni 983 mila, ossia 253 mila in meno rispetto all’inizio 2021. È stato come se, in un anno, l’Italia avesse perso una città di medie dimensioni come Verona. Ad inizio 2023 la popolazione era scesa a 58 milioni 851 mila, avendo perso altre 179 mila unità. Migliaia di piccoli comuni e intere aree del paese (le cosiddette “aree interne” appenniniche e alpine) sono ormai a rischio di spopolamento e desertificazione umana. Oggi in Italia i minori di 18 anni sono il 17,8% della popolazione (erano intorno al 30% negli anni ’60), mentre più del 23% ha più di 65 anni e quasi il 12% più di 75 (circa 3,8 milioni sono gli anziani con grave riduzione dell’autonomia nelle attività quotidiane). Entro il 2030 l’Italia perderà un milione e trecentomila bambini e ragazzi. Il 17% in meno di oggi, di cui l’8% della fascia sotto i 5 anni di età. Gli over 65, invece, saranno due milioni in più.

I demografi ci dicono che si tratta dell’esito di un percorso di “lunga durata” (la cosiddetta “transizione demografica”) che in Italia è stato caratterizzato da una carenza (per non dire un’assenza) di politiche in grado di mettere in relazione positiva autonomia abitativa ed economica con progetti di vita per le nuove generazioni, conciliazione tra tempi di lavoro e familiari soprattutto sul versante femminile1. Un processo che è destinato a continuare nei prossimi anni e decenni in assenza di cambiamenti economici, politici e culturali radicali. Dopo il 1945 abbiamo potuto contare per un paio di decenni sia sul baby boom post bellico sia sul drenaggio e lo svuotamento del serbatoio contadino interno ancora esistente (con la migrazione delle giovani generazioni dalle aree rurali a quelle urbano-industriali, dal Nord-Est al Nord-Ovest e dal Mezzogiorno al Nord-Centro) e sul momentaneo baby boom post seconda guerra mondiale. Almeno fino agli anni ’40 il mondo contadino aveva mantenuto il controllo dell’attività di creazione e mantenimento dei legami sociali nelle famiglie, nei villaggi e nelle reti di parentela allargate, regolata localmente dalle consuetudini e dalla Chiesa, lontana dall’azione dello Stato e relativamente al riparo dal processo di accumulazione.

Ma a partire dai primi anni ’70 del secolo scorso ad oggi il cambiamento demografico è stato caratterizzato da un rapidissimo calo della natalità – con un calo della fecondità sotto il livello di riproduzione di 2,2 figli per donna fertile2 -, accompagnato da una riduzione della mortalità infantile, e un aumento della speranza di vita (grazie a vaccini, antibiotici, sulfamidici, ricerca scientifica, cure mediche e migliori condizioni di alimentazione e vita), passata dai circa 55 anni del 1945 a 82,6 anni.

Secondo i sondaggi, oggi in media il desiderio delle donne italiane è di avere 2 figli, eppure siamo a 1,24, segno che in molte non si sentono libere di poter fare dei figli perché hanno salari/stipendi troppo bassi e in media inferiori di circa un terzo rispetto a quelli degli uomini a parità di mansioni e responsabilità (“lavoro povero” frutto del gender-gap), sono costrette ad accettare lavori part-time, sono discriminate sul lavoro in quanto madri, lavorano in aziende che non applicano reali politiche di conciliazione tra lavoro e vita3, non hanno contratti di lavoro stabili o adeguate tutele come ferie, congedi di maternità e parentali4 o per malattie, non hanno possibilità di accedere ad un mutuo per comprare una casa5, non possono contare sull’aiuto informale di nonni e altri parenti nel lavoro di cura, e vivono in luoghi dove non ci sono servizi pubblici sociali e sanitari (come, ad esempio, i consultori), asili nido e servizi socio-educativi per l’infanzia di qualità, gratuiti e accessibili. Ancora nel recente passato ci si aspettava che di norma le donne smettessero di lavorare dopo il matrimonio o la maternità. Oggi il 50,8% delle donne italiane non lavora (19 punti in meno degli uomini), il 42,6% delle madri e l’11% ci ha rinunciato per dedicarsi alla cura della prole (mentre 3% è la media europea).

Piuttosto che ammettere più immigrati per sostenere l’offerta di lavoro per le aziende che reclamano forza lavoro e non la trovano, almeno per i bassi salari che sono disposte a sborsare, e assicurare il finanziamento del welfare, il governo Meloni vuole incentivare il lavoro femminile, ma da un lato mancano i posti di lavoro congrui rispetto alle competenze nell’area di residenza e dall’altro mancano un sistema pubblico, politiche e pratiche aziendali che consentano la conciliazione tra lavoro e vita. Un circolo vizioso socio-demografico: se ci sono figli o anziani da accudire, le donne restano bloccate a casa, ma una famiglia monoreddito fa grande fatica a far quadrare i conti e spesso finisce nella condizione dei lavoratori poveri o poveri al lavoro (working poor), per cui di figli se ne fanno pochi (nessuno, uno o al massimo due).

La riduzione della natalità sotto il livello di riproduzione a partire dalla metà degli anni ’70, in associazione col brusco innalzamento della speranza di vita, ha creato in breve tempo un tipo di società diversa, assai più fragile di quella precedente. Si tratta di un cambiamento che ha colpito maggiormente l’Italia e l’Europa (e la componente bianca della popolazione degli Stati Uniti), ma che investe quasi tutto il mondo (la crescita della popolazione mondiale ha cominciato a rallentare nel 1977, 1,8%, e oggi è di circa l’1%)6.

Le spiegazioni degli analisti mainstream7 pongono l’accento sui comportamenti individuali e quindi sulle preferenze – psicologiche, intellettuali e di stili di vita – in un contesto sociale di aumento di benessere, libertà individuale e istruzione. L’incapacità del “capitalismo regolato” dallo Stato (italiano, ma più in generale di quello euro-americano) di riprodursi dal punto di vista demografico (denatalità) cominciò ad essere visibile negli anni ’70 ed è divenuta conclamata a partire dagli anni ’90 e gli analisti liberal-democratici e conservatori hanno individuato una serie di possibili spiegazioni del fenomeno che fanno perno sulle scelte (psicologiche) individuali e sulla crisi della famiglia nucleare “tradizionale” (marito, moglie e due-tre figli), contrassegnata dal crollo dei matrimoni, dall’aumento delle famiglie unipersonali e dei figli nati fuori del matrimonio. La famiglia nucleare sarebbe stata svuotata delle sue funzioni, assunte dalla scuola, altre agenzie istituzionali ed esperti di vario tipo, aprendo la strada ad un crollo dell’autorità paterna, al “permissivismo” e alla perdita di un ruolo economico-imprenditoriale (si pensi alle crisi delle aziende contadine e del commercio tradizionale).

È bene ricordare che la famiglia nucleare “tradizionale” è stata un’invenzione della prima fase dell’industrializzazione (nel XIX secolo), quando gli imprenditori grandi e piccoli reclutavano donne e bambini per il lavoro nelle fabbriche, nelle costruzioni e nelle miniere, pagandoli una miseria e costringendoli a lavorare a lungo in condizioni pericolose e nocive per la salute. Un fenomeno che aveva innescato una crisi della riproduzione sociale tra le classi povere e lavoratrici, ma anche un panico morale tra le classi medie, scandalizzate da ciò che interpretavano come la distruzione della famiglia e la desessualizzazione delle donne proletarie. Pertanto, la famiglia nucleare “tradizionale” era nata, almeno in Italia e in Europa, con la prima legislazione protettiva che aveva cercato di stabilizzare la riproduzione sociale limitando lo sfruttamento delle donne e dei bambini nel lavoro di fabbrica. Una misura che è stato anche un tentativo politico conservatore di consolidare l’autorità maschile su donne e bambini, soprattutto all’interno della famiglia (con la potestà maritale e genitoriale di tipo patriarcale, spesso corredata dal diritto di “stupro coniugale” delle mogli e di maltrattamento violento dei figli, con frequenti casi di violenza nelle relazioni di coppia e di femminicidio). Questo anche se i salari sono rimasti a lungo al di sotto del livello necessario per mantenere una famiglia e le condizioni sanitarie, igieniche e abitative erano del tutto inadeguate. Così le donne erano state condannate alla “casalinghizzazione” e ad essere gli “angeli del focolare”.

Secondo gli analisti liberaldemocratici e conservatori, durante i “Trenta gloriosi” del capitalismo regolato dallo Stato si sarebbe diffusa tra la popolazione l’illusione di eternità generata dal crescere continuo della speranza di vita che avrebbe prodotto sia la convinzione di una quasi eterna giovinezza che faceva ritenere possibile rimandare all’infinito scelte come quelle legate alla procreazione sia un senso fortissimo di indipendenza del sé (legato anche allo sviluppo dei sistemi di protezione sociale e di quelli pensionistici), un individualismo fondato sulla ricerca del piacere personale (con il manifestarsi della rivoluzione sessuale degli anni ’60, concentrata sull’esperienza personale immediata e sulla scissione tra sesso come godimento e procreazione) che rendeva a sua volta possibile mettere da parte la necessità della riproduzione. È cresciuta l’autonomia e l’indipendenza delle donne che hanno gradualmente conquistato una libertà di scelta sempre maggiore dal dominio maschile, spesso associata alla disponibilità di metodi contraccettivi più semplici ed efficaci (accesso alla pillola anticoncezionale e all’aborto sicuro), alle battaglie femministe e dei diritti civili per i diritti riproduttivi delle donne (che le hanno sottratte ad un destino di gravidanze continue, non volute ed estenuanti) e al lavoro (salariato) fuori della famiglia delle donne che ha aumentato il costo psicologico dei figli, diventati sinonimo di rinuncia, mentre l’aumento e il prolungamento della scolarità li trasformava nell’immediato in un peso economico e in un ostacolo a una vita più piacevole e confortevole.

La tesi di fondo di questi analisti è che “raggiunto un certo livello di benessere e di presa di coscienza individuale, finché è loro possibile gli esseri umani preferiscono in maggioranza massimizzare il loro benessere in quanto singoli” (Graziosi, ibid, 2023:69). La loro conclusione è che il desiderio di “vivere come persone” si è accompagnato alla “percezione che esso era ostacolato e non favorito dalla nascita di figli”. Una volta “raggiunti determinati livelli di benessere, l’essere umano non è un <animale sociale>, o meglio non lo è in una prospettiva di specie. I singoli individui continuano infatti a vivere socialmente, ma lo fanno preferendo sé stessi, come del resto è naturale, anche quando questa preferenza entra in contraddizione con la riproduzione sociale.” (Graziosi, ibid, 2023:70).

Da un lato, analisti e politici liberaldemocratici tendono a limitarsi a proporre incentivi economici/fiscali – come assegno unico universale per i figli (oltre 16 miliardi erogati nel 2022 per 6 milioni di nuclei familiari e 9 milioni di figli), bonus bebè, congedi parentali, prestiti agevolati, detrazioni e sgravi fiscali calcolati in base al numero dei figli (il cosiddetto “quoziente familiare”), molto onerosi per i conti pubblici – e a fare un accorato appello affinché gli individui prendano coscienza della crisi demografica e decidano di porvi rimedio in modo da assicurare un futuro alla loro società.

Dall’altro lato, analisti e politici conservatori e reazionari – come il governo Meloni – si appellano alla necessità di ristabilire una stabilità del sistema sociale e, oltre all’offerta di incentivi fiscali/economici8 (prevedendo anche un peso della tassazione maggiore per le persone single senza figli e gli anziani, come strumento della “solidarietà intergenerazionale”), intervengono con narrazioni biopolitiche che mirano a controllare i corpi (delle donne) e le scelte riproduttive private delle persone (facendo appelli a donne-fattrici in stile con il regime fascista), non tengono conto della libera scelta, per cui demonizzano coloro che si dichiarano LGBTQ+, rifiutano il matrimonio eterosessuale o che non vogliono essere genitori9, prevedono il disciplinamento della vita sessuale, la limitazione dei diritti riproduttivi delle donne (a cominciare dal diritto all’aborto e dalla gestazione per altri), la difesa delle tradizioni della famiglia “tradizionale”, della nazione e della religione. Marginalizzano e criminalizzano i soggetti deboli: giovani (con il decreto rave e le misure penali ad hoc per colpire gli attivisti di Ultima Generazione), i poveri e i migranti. Temono e disprezzano questi ultimi, soprattutto se di pelle colorata, perché li considerano strumenti della cospirazione per la “sostituzione etnica”, una teoria ideologica razzista bianca del complotto. Mentre glorificano il concetto identitario nazionalistico di “popolo”, hanno paura della “società plurale” e quindi di doversi confrontare con la società multiculturale e la questione della “linea del colore” evidenziata da WEB Du Bois, con l’approfondimento della faglia che divide cittadini (i “cittadini nativi”) ed esseri umani (gli immigrati) in base ai loro diritti.

Avere abbastanza figli per evitare il declino della popolazione risiede in ciò che i demografi chiamano struttura della popolazione e, più specificamente, nell’assicurarsi che ci siano sempre abbastanza giovani che entrano nel mondo del lavoro per sostenere un patto sociale costruito attorno al sostegno garantito per gli anziani in pensione. L’Italia del governo Meloni, utilizzando la “retorica dell’invasione”, farà di tutto per evitare la soluzione più immediata e umana disponibile, che comporta aumenti costanti ma sostanziali dell’immigrazione da parti del mondo in cui i giovani sono desiderosi di imparare e lavorare, con decenni di vita produttiva davanti a loro. Il paradosso è che la parte del mondo che offre le maggiori riserve di una forza lavoro così giovane, energica e ambiziosa — l’Africa — è la stessa parte del mondo che suscita la più forte avversione tra i nostri governanti di destra. Il continente situato immediatamente a sud dell’Italia ha un’età media di soli 19,7 anni, il che significa che è completamente dominato proprio da ciò che manca sempre di più alla vecchia Italia: la gioventù. Si tratterà di vedere se in nostro paese, come il resto d’Europa, continuerà ad aggrapparsi a identità e ideologie razziste xenofobe legate al suprematismo bianco a scapito di crescita economica, prosperità e possibilità di andare in pensione con un reddito dignitoso. Per andare avanti e assicurarsi la loro salvezza economica, italiani ed europei dovranno superare la loro avversione verso gli africani e abbracciarli come loro pari pienamente umani.10.

Garantire la riproduzione sociale

In realtà, prendendo per buono il ragionamento sviluppato dagli analisti liberaldemocratici e conservatori, paradossalmente dovrebbe bastare far scendere i “determinati livelli di benessere” per far cambiare gli orientamenti psicologici degli individui e farli tornare a fare figli. Nel capitalismo regolato dal neoliberismo, almeno in Italia e nella maggior parte dei paesi europei soprattutto dopo la crisi del 2008 e poi con la pandemia CoVid-19, la guerra Russia-Ucraina e l’attuale ondata di alta inflazione, i livelli di benessere degli individui (di lavoratori dipendenti e autonomi, famiglie e piccoli imprenditori) sono certamente diminuiti o rimasti stazionari (mentre sono aumentati quelli del 10% già ricco). A partire dall’ultimo decennio del Novecento, c’è stata una rapida sostituzione delle aspettative crescenti con quelle decrescenti, accompagnata da fondamentali cambiamenti culturali, psicologici e di modi e stili di vita. Si è diffuso un generale senso di perdita di status e di angoscia per il venire meno del futuro, per il timore e l’ansia per la mobilità sociale verso il basso, legata anche al passaggio dalla proprietà al reddito, almeno per i ceti medi. Sensazioni che dopo il 2008 si sono trasformate in impoverimento reale in quasi tutti i paesi ricchi, tra cui il nostro, con la progressiva perdita dei diritti sociali, ossia dei diritti “più costosi” rispetto a quelli politici e civili, perché spesso diritti positivi a prestazione, e che per questo motivo gli analisti conservatori definiscono “diritti acquisiti”, ossia dei “privilegi”.

Con questi cambiamenti non è aumentata la natalità, anzi è ulteriormente aggravata la denatalità, mentre è certamente aumentata la percezione della disuguaglianza e la sensazione di avere meno opportunità di quante ve ne fossero in passato. Una sensazione suffragata da pensioni meno generose, lavoro precario, salari/stipendi più bassi in termini reali (l’87% dei lavoratori italiani guadagna meno di 35 mila euro all’anno), perdita della sicura preminenza rispetto alle forze di lavoro di continenti e popolazioni prima emarginate, colonizzate ed espropriate ecc.. I giovani, con un tasso di occupazione del 33,8% (contro il 49,2% di quello europeo), sono costretti a stare a casa dei genitori in media sino alle soglie dei 30 anni e sanno bene che la nascita di un figlio in Italia è la seconda causa di povertà dopo la perdita del lavoro11. Ma anche essere single ed avere un lavoro non garantisce dall’essere in povertà (working poor). In un paese dove il governo, per fare cassa e spostare i 3 miliardi risparmiati sulle spese per armi o sugli sgravi fiscali per i ceti medio-alti (con l’aumento del tetto della flat tax per i lavoratori autonomi12 taglia in modo consistente e punitivo le misure destinate ai più poveri (soprattutto se giovani, single e considerati “occupabili”) come nel caso del “reddito di cittadinanza”. Dove le famiglie incapienti o a basso reddito subiscono le conseguenze dei tagli come il mancato rifinanziamento del Fondo di sostegno alle locazioni (che nel 2021 e 2022 aveva avuto una dotazione annua di oltre 300 milioni) e del Fondo per morosità inconsapevole.

Appare dunque evidente che la spiegazione psicologica della denatalità offerta dagli analisti liberaldemocratici e conservatori non è soddisfacente. Occorre quindi provare a ragionare sul ruolo centrale che rivestono la riproduzione sociale e il “lavoro di cura” in società capitalistiche regolate dal neoliberismo, utilizzando altre categorie euristiche . La riproduzione sociale comprende una serie di attività necessarie per prendersi “cura” delle famiglie, per mantenere gli aggregati domestici, per sostenere le comunità, per nutrire le amicizie, per costruire reti politiche e per forgiare solidarietà. Spesso definite come lavoro di cura, queste attività sono indispensabili per il funzionamento della società, alimentano gli esseri umani, sia nel quotidiano sia sul piano generazionale, e tengono in vita i legami sociali. Nelle società capitaliste, inoltre, assicurano la fornitura di forza lavoro salariata da cui il capitale ricava il plusvalore.

Nella fase storica del capitalismo regolato (1946-1975) in Europa, Stati Uniti e altre appendici dell’Occidente si è cercato di disinnescare la contraddizione tra produzione economica e riproduzione sociale (e quindi di invertire la latente crisi della denatalità delle società occidentali) schierando il potere statale dalla parte della riproduzione, creando il welfare state, lo stato sociale centrato sul maschio lavoratore adulto13. Gli Stati nazionali democratici si sono assunti il compito di contrastare gli effetti corrosivi dello sfruttamento e della disoccupazione di massa sulla riproduzione sociale, sacrificando però l’emancipazione delle donne (spesso escluse sia dal lavoro salariato regolare sia dai benefici del welfare). Attraverso la sottoscrizione di “compromessi socialdemocratici” (compromessi di classe) nel contesto geopolitico della Guerra Fredda, l’interesse a breve termine dei capitalisti a spremere il massimo profitto dal lavoro salariato è stato subordinato a delle politiche finalizzate a sostenere un’accumulazione di lungo termine (con la moderazione dell’aumento di produttività, redditività e salari per realizzare una crescita continua), salvando il capitalismo dalla sua stessa propensione ad auto-destabilizzarsi e dallo spettro della rivoluzione (socialista) in un’epoca di mobilitazione politica di massa. Gli Stati hanno cercato di stabilizzare la riproduzione sociale attraverso l’investimento di risorse pubbliche nel sistema sanitario, nell’istruzione, nell’assistenza all’infanzia e nelle pensioni di anzianità, alleggerendo le pressioni materiali sulla vita familiare e favorendo l’incorporazione politica dei cittadini.

Sono stati soprattutto gli uomini e le donne delle classi lavoratrici a guidare la lotta per i servizi pubblici e per estenderne l’accesso in modo universalistico (a tutta la popolazione, anche se alcuni segmenti sono comunque rimasti esclusi). Per loro, in gioco c’era la piena appartenenza alla società come cittadini democratici, e quindi dignità, diritti e rispettabilità, nonché sicurezza e benessere, tutti elementi che si riteneva richiedessero una vita familiare stabile.

Uno sforzo da parte dello Stato che è stato integrato dai servizi offerti dalle aziende. Si pensi al welfare aziendale creato da una grande azienda come la FIAT che per i propri dipendenti e le loro famiglie prevedeva dopolavoro, “colonie” marine e montane e borse di studio per i figli, attività sportive e per il tempo libero, assistenza medica ecc..

Secondo la logica Fordista, i lavoratori e le loro famiglie sono stati anche trasformati in consumatori (da cui il “consumismo”). Grazie alla produzione industriale di massa, alla sindacalizzazione (che ha determinato salari più alti) e alla spesa del settore pubblico (che ha anche creato nuovi posti di lavoro per il ceto medio), i decisori politici hanno potuto reinventare la famiglia nucleare, trasformandola in uno spazio privato adatto al consumo domestico di oggetti di uso quotidiano prodotti in serie nelle catene di montaggio. Si è affermata così anche l’idea secondo cui la dignità della classe lavoratrice richiedesse “il salario familiare” che ha avuto anche l’effetto di rafforzare l’autorità maschile all’interno del gruppo domestico (secondo il modello del maschio capo famiglia che porta a casa il pane) e di riaffermare un forte senso della differenza di genere (con la donna relegata ad essere casalinga). Non a caso i sistemi di welfare hanno assunto una forma duale: un’assistenza stigmatizzata alle donne (definite da Reagan “regine del welfare”) in quanto madri e ai bambini poveri che non avevano accesso al salario maschile, e una previdenza sociale rispettabile per coloro che erano considerati (almeno potenzialmente) lavoratori.

Il regime del capitalismo regolato dallo Stato si è dissolto nel corso di una crisi prolungata, iniziata negli anni ’60 e acuitasi nel decennio successivo. Prima c’è stata la critica politica della nuova sinistra che ha messo in discussione in modo radicale le esclusioni imperialiste, di genere e razziali, nonché il paternalismo burocratico, in nome dell’emancipazione (femminismo e antirazzismo). Poi, negli anni ’70 il sistema è entrato in crisi sul piano economico, con la stagflazione, la crisi della produttività e il calo del tasso di profitto nei settori industriali che hanno determinato la fine del Fordismo/Keynesismo, dando via libera ai neoliberisti interessati a togliere le catene della regolazione ai mercati e i vincoli della protezione sociale.

Il nuovo regime neoliberista, dopo aver deindustrializzato i paesi dell’Occidente, ha dato vita nel giro di pochi anni al capitalismo finanziarizzato globale in cui ancora viviamo. La nuova centralità nel processo di accumulazione è stata assunta dal debito, lo strumento con cui istituzioni finanziarie globali fanno pressione sugli Stati affinché taglino la spesa sociale, impongano politiche di austerità (“riforme” e “aggiustamenti strutturali”) e diano il via libera a processi di sfruttamento ed espropriazione delle popolazioni locali (terre, risorse minerarie, energia, acqua, servizi ecc.). Allo stesso tempo, la spesa continuativa dei consumatori richiede l’espansione del credito al consumo, che cresce in modo esponenziale. A partire dalla fine degli anni ’70, la finanziarizzazione della vita quotidiana è diventata il principale driver della crescita del PIL degli USA e di molti paesi europei, creando le condizioni per l’esplosione di enormi bolle speculative e crisi finanziarie nei decenni successivi. Inoltre, prestiti personali, mutui ipotecari, polizze assicurative e credito al consumo, ossia le diverse forme di indebitamento delle persone, sono divenuti un modo estremamente efficace per esercitare il controllo sociale: più le persone sono indebitate e meno sono in grado di poter immaginare in futuro nient’altro che non sia semplicemente vivere e lavorare in modo tale da poter ripagare il loro debito, a cominciare da quello, spesso enorme, accumulato per poter studiare e ricevere una laurea universitaria.

Lo stesso regime neoliberista ha portato le classi dirigenti a tagliare gli investimenti nelle infrastrutture dell’assistenza sociale e sanitaria pubblica (per cui in Italia il Servizio Sanitario Nazionale è in fase di smantellamento, con liste di attesa di anni, il pagamento di ticket per prestazioni e medicinali e la progressiva esternalizzazione dei servizi più remunerativi a grandi imprese private e società cooperative), mettendo in discussione l’esigibilità dei diritti sociali. Hanno anche fatto a pezzi i sindacati (un tempo la più salda base di appoggio della socialdemocrazia) e abbassato i salari (con la deregolamentazione del mercato del lavoro e la diffusione del lavoro precario, a termine, discontinuo, part-time e senza ammortizzatori sociali della gig economy), abolendo il “salario familiare” (per cui i salari tendono a scendere al di sotto dei costi socialmente necessari della riproduzione sociale) e imponendo un aumento delle ore di lavoro retribuito per la famiglia, per cui anche le donne sono state reclutate nella forza lavoro salariata, anche da parte di coloro che prestavano il lavoro primario di cura.

Per alcuni decenni, durante il Fordismo/Keynesismo, in Italia come negli altri paesi ricchi, la promessa fondamentale era che, se una persona non avesse lavorato, lo Stato l’avrebbe sostenuta, ma sarebbe stata povera. Se avesse lavorato, non lo sarebbe stata. Con il passaggio al regime neoliberista questo non è più vero: la maggior parte delle persone che ricevono dei sussidi o dei sostegni pubblici sono anche al lavoro, perché ora il lavoro non paga abbastanza per sopravvivere. Questa è una rottura fondamentale di quello che durante il Fordismo/Keynesismo era il contratto sociale. Le prospettive di lavoro di sempre più ampie masse di lavoratori sono ormai quelle di avere un lavoro flessibile a bassa remunerazione, senza giorni di lavoro prestabiliti, senza spazi di lavoro chiaramente definiti, senza salari fissi, senza attività predeterminate, senza diritti e senza protezione o rappresentanza da parte dei sindacati.

Questo aumento della flessibilità del lavoro è stato da più parti indicato come uno dei fattori che contribuisce anche a ridurre la produttività delle aziende, soprattutto nel grande settore dei servizi. Possono reclutare manodopera precaria, pagarla poco e mandarla via con facilità. Potendo contare su un crescente bacino di forza lavoro di riserva a basso costo. In questo modo, le aziende non sono costrette ad innovarsi, ad investire in tecnologia oppure a chiudere se non sono più competitive.

Una eccessiva flessibilizzazione del mercato del lavoro e riduzione dei salari (come effetto di politiche di deflazione salariale) ha reso difficile per le persone fare progetti per il futuro e ha contribuito a determinare una drastica riduzione del tasso di natalità in tutti i paesi ricchi. Al tempo stesso, il lavoro di cura è stato scaricato sulle famiglie e sulle comunità, sottraendo loro le energie necessarie per svolgerlo, per cui la tendenza intrinseca del capitalismo a destabilizzare la riproduzione sociale l’ha trasformata in un’acuta crisi assistenziale e di riproduzione. Tra l’altro l’avvento del CoVid-19 ha intensificato questo aspetto della crisi, scaricando nuovi e importanti compiti di cura sulle famiglie e sulle comunità (cura e istruzione dei bambini in spazi domestici ristretti e non adatti a tali scopi), in particolare sulle donne, che continuano a svolgere la maggior parte del lavoro di cura non retribuito che produce valore d’uso. Durante o subito dopo la pandemia, molte donne hanno scelto di lasciare il proprio impiego per occuparsi dei figli e di altri familiari, come i genitori anziani (in un paese che non finanzia la legge sull’autosufficienza, mentre la vita media si allunga). Tante altre sono state licenziate dai datori di lavoro. Quelle che hanno avuto il privilegio di non perdere il posto e di lavorare da remoto, hanno dovuto svolgere al contempo compiti di cura (accudire i bambini costretti a stare a casa). Infine, ci sono state quelle che rientravano nella categoria dei “lavoratori essenziali”, pagati una miseria e trattati come risorse umane sacrificabili, che ogni giorno hanno dovuto fronteggiare la minaccia dell’infezione, con la paura di portarsela a casa e in famiglia.

Sarebbe il caso di prendere atto che sono state e sono le caratteristiche del capitalismo neoliberista (più che le psicologie delle persone) che sottraggono risorse emotive e materiali alle famiglie (trasferendole ai ricchi e alle grandi corporations), risorse che dovrebbero essere dedicate al lavoro di cura, a mettere al mondo e socializzare i giovani, prendersi cura degli anziani, mantenere gli aggregati domestici, costruire comunità attraverso attività di volontariato organizzato, aiuti informali tra famiglie e tutti gli spostamenti legati allo svolgimento di tali funzioni, sostenere i significati condivisi, le disposizioni affettive e gli orizzonti valoriali alla base della cooperazione sociale, inasprendo una crisi di vasta portata, non solo della cura, ma della riproduzione sociale nella più ampia accezione del termine14.

A partire dalla fine degli anni ’70 governi liberaldemocratici conservatori e progressisti hanno proceduto ad effettuare sempre maggiori tagli pubblici e privati al welfare nello stesso periodo nel quale milioni di donne cercavano di entrare nel mercato del lavoro con l’obiettivo di emanciparsi (dall’autorità maschile), sostenere il reddito delle loro famiglie – con il cosiddetto «doppio reddito familiare» – e acquisire o mantenere gli standard di vita della classe media15.

Un’autonomia personale e un protagonismo nei mercati dei lavori delle donne (anche di quelle che sono madri singole) che ha scatenato le reazioni preoccupate e negative di molti maschi sia anziani sia giovani che sono stati particolarmente spiazzati e colpiti da una rapida evoluzione dei ruoli di genere, che sembra sconfessare la loro concezione patriarcale, antifemminista e spesso persino misogina dell’ordine sociale. La “rivoluzione di genere” è diventata uno dei principali fattori trasversali delle tendenze illiberali (autoritarie o parafasciste) presenti in tipi di società e paesi molto diversi, perché ha innescato la reazione e il risentimento di parte degli uomini alla loro perdita di potere, prestigio e autorità nelle società contemporanee. Molti maschi guardano al passato invece che al futuro, nostalgici dei Trenta gloriosi quando il patriarca capofamiglia maschio guadagnava un “reddito familiare” e regnava incontrastato nella sua casa.

Negli Stati Uniti, dal 1960 al 2017, la percentuale di famiglie a doppio reddito con minori di 18 anni è passata dal 25% a circa il 60%. Con il passaggio al paradigma di regolazione neoliberista, la progressiva precarizzazione del lavoro, l’erosione dei diritti sociali e dei salari reali dei lavoratori, la necessità da parte dei membri adulti di dover svolgere anche più lavori contemporaneamente per cercare di sfuggire alla condizione infernale di working-poor, sono fattori che hanno ridotto il tempo che le donne sono in grado di dedicare al lavoro di cura e alla famiglia, mentre sappiamo che il lavoro domestico, compresa l’assistenza all’infanzia, rappresenta un’enorme quantità di produzione socialmente necessaria. Ma questo, in una società basata sulla produzione di merci e sulla mercificazione dei servizi (molti dei quali a bassa qualificazione e molto frammentati), di solito non è considerato «vero lavoro», ma attività “improduttive” perché ad esse non viene attribuito alcun valore monetario (non vengono retribuite o sono sottopagate) in quanto avvengono al di fuori del circuito commerciale, del mercato e del lavoro salariato, dell’accumulazione del valore dell’economia ufficiale, in case, quartieri ed organizzazioni della società civile ed enti pubblici.

L’effetto dei tagli alle spese e ai servizi sociali16 da parte dei governi, dunque, è stato di fatto uno scaricamento del peso del lavoro di cura su donne, famiglie, comunità e municipalità locali, allorquando è progressivamente diminuita la loro capacità di svolgerlo in modo adeguato, per mancanza di tempo e/o risorse umane e finanziarie. Questo ha portato ad una generalizzata crisi della riproduzione sociale, testimoniata dal crollo degli indici di natalità in Italia come in tutti i paesi ricchi, e ad una nuova organizzazione dualistica della stessa riproduzione sociale, mercificata per coloro che possono permetterselo e privatizzata per quanti non possono farlo. Alcune componenti femminili della seconda categoria (insieme a donne immigrate venute dai paesi poveri del Sud globale o della periferia europea, spesso razzializzate, che mandano rimesse alle loro famiglie in patria) forniscono lavoro riproduttivo e di cura (come colf e badanti) per coloro che appartengono alla prima in cambio di bassi salari, molto spesso in nero senza benefits, ferie pagate o congedi per malattia e senza il sostegno di un sindacato, o sono impiegate nell’assistenza sanitaria e agli anziani (in Italia sono oltre 1,3 milioni e in Germania quasi 690.000 persone nate in un altro paese lavorano in questo settore). Con il crescente invecchiamento della popolazione si sta aprendo un grande mercato per fondi immobiliari e colossi della sanità che vogliono plasmare l’assistenza residenziale sanitaria agli anziani (RSA) non autosufficienti creando grandi strutture, sebbene la pandemia ha insegnato che serve soprattutto un nuovo modello di assistenza leggera, integrata e di prossimità.

Le femministe occidentali spesso indicano come loro obiettivo il raggiungimento di un “equilibrio tra famiglia e lavoro”. Ma ormai le lotte attorno alla riproduzione sociale includono anche movimenti comunitari per il diritto alla casa, l’assistenza sanitaria, la sicurezza alimentare, un reddito di base incondizionato e un salario di sussistenza. Poi, ci sono le lotte per i diritti dei migranti, dei lavoratori domestici e dei dipendenti dei servizi pubblici, per la sindacalizzazione dei lavoratori che operano nelle case di riposo, ospedali, centri privati per l’assistenza all’infanzia, per la difesa dei servizi pubblici come l’assistenza diurna a disabili e anziani, per una settimana lavorativa più breve e per il congedo di maternità e parentale ben retribuito.

Con il regime neoliberista il capitalismo (il processo di accumulazione) si è svincolato dalle sue basi sociali e si è rivoltato contro di esse. La logica della produzione economica ha prevalso su quella della riproduzione sociale, destabilizzando i processi stessi da cui dipende e compromettendo le capacità sociali e demografiche, sia domestiche sia pubbliche, necessarie a sostenere il processo di accumulazione nel lungo periodo. Con il prevalere del capitalismo neoliberista si è diffusa anche una ideologia liberal-individualista favorevole alla parità di genere che afferma che le donne siano uguali agli uomini in ogni ambito e meritevoli di pari opportunità (anche attraverso lo strumento dell’affirmative action, la discriminazione positiva) nella realizzazione dei propri talenti, anche e soprattutto nella sfera della produzione economica (proclamando l’ideale della famiglia a doppio reddito con o senza figli). La riproduzione, al contrario, viene inquadrata come un residuo arretrato, un ostacolo al progresso da rimuovere o da rinviare sine die, anche attraverso la procedura del congelamento degli ovuli (nella pratica spesso però questa scelta è dovuta alla carenza di uomini istruiti ritenuti partner idonei, adeguati e affidabili, piuttosto che ad ambizioni professionali o educative), in un modo o nell’altro, sulla via della liberazione.

Alessandro Scassellati

26/4/2023 https://transform-italia.it

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  1. Si veda A. Rosina e R. Impicciatore, Storia demografica d’Italia. Crescita, crisi e sfide, Carocci, Roma, 2023.[]
  2. Tra il 1970 e il 1995 c’è stato un crollo del 43% delle nascite che ha dato avvio all’”inverno demografico”, squilibrando la piramide demografica. In media italiana dal 2008 al 2019 il numero di donne tra i 16 e i 45 anni di età è diminuito del 14%, mentre il tasso di fecondità è diminuito del 13%. In grandi città come Milano, Roma e Firenze l’età media delle donne al parto è di 33,3 anni.[]
  3. La struttura familiare e i contesti lavorativi sono così intrisi di mentalità patriarcale che si dà per scontato che siano mogli e madri a doversi sacrificare per conciliare lavoro ed esigenze familiari; quindi sono soprattutto le lavoratrici a ridurre o cambiare l’orario di lavoro, interrompere l’attività professionale a seguito della nascita di un figlio, a essere licenziate. Spesso le aziende hanno un’organizzazione del lavoro ostile alle donne, caratterizzata da una strutturazione di genere della gerarchia lavorativa e da una cultura androcentrica che premia maggiormente gli uomini e squalifica o emargina le donne.[]
  4. Ciò di cui abbiamo certamente bisogno è una società in cui sia naturale che gli uomini condividano la cura dei figli e i lavori domestici. Per quanto riguarda i congedi parentali, fin dal 1974 in Svezia – uno dei pochi paesi europei, insieme alla Francia, che sta riuscendo a mantenere la fecondità non troppo sotto i due figli per donna – i padri hanno gli stessi diritti delle madri e oggi quasi la metà di loro sceglie di stare a casa per accudire i neonati. Il congedo retribuito è previsto per tutti i cittadini (è a somma fissa per chi non ha un lavoro dipendente). Inizialmente pari a 6 mesi, la durata è stata elevata a 9, poi a 12, 15 e oggi è di 16 mesi indennizzati. Esaurito il congedo, i neo-genitori hanno il diritto di chiedere il part-time, se lo desiderano. Fino a che il figlio compie 12 anni, ci si può assentare dal lavoro per 60 giorni all’anno, anche se si ammala la baby sitter.[]
  5. Oggi in Italia persone e famiglie spesso spendono il 30-50% del loro stipendio in affitto (per alloggi che sono spesso terribilmente scadenti), e l’acquisto di una casa è in molte grandi città sempre più inaccessibile per chiunque non sia ricco.[]
  6. In tutti i paesi ricchi (e in metà dei paesi del mondo) i tassi di fecondità sono sotto il tasso di sostituzione di 2,2 figli per donna necessario a garantire la stabilità della popolazione, e ciò a cui si sta assistendo è una convergenza verso la cifra di 1,7 figli.[]
  7. Si veda, ad esempio, Andrea Graziosi, Occidenti e modernità. Vedere un mondo nuovo, Il Mulino, Bologna 2023.[]
  8. Il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti ha parlato di una maxidetrazione fino a 10 mila euro per le famiglie con figli, soprattutto per quelle che hanno un reddito alto abbastanza da poterne trarre un vero beneficio. Una misura che avrebbe un costo insostenibile per il bilancio pubblico: 88 miliardi l’anno[]
  9. C’è una forte pressione sociale affinché le donne diventino madri, veicolata attraverso una “cultura della colpa” per le donne che decidono di non riprodursi che viene promossa dalle forze politiche conservatrici e reazionarie. Ad ogni donna che sia mai stata indecisa sull’avere figli è stato detto: sarai sola; nessuno si prenderà cura di te quando invecchierai; ti perderai la più grande gioia della vita; non sarai mai veramente soddisfatta; la tua vita sarà insignificante e superficiale; tutti avranno pietà di te; se scegli di non avere figli, finirai per pentirtene per sempre. Ma una recente ricerca della Michigan State University suggerisce che le persone che sono senza figli per scelta, perché semplicemente non sentivano che i bambini fossero la chiave per un’esistenza significativa e degna, sono piuttosto contente delle loro decisioni, mentre alcuni genitori no.[]
  10. Su questi temi si veda il mio libro: Suprematismo bianco. Alle radici di economia, cultura e ideologia della società occidentale, DeriveApprodi, Roma, 2023.[]
  11. In Italia le persone che vivono in condizioni di povertà assoluta sono almeno sei milioni, con uno stretto legame con il numero di figli. I dati riferiti al 2019, peggiorati poi con la pandemia, mostrano come la povertà assoluta sia oltre il triplo per chi ha tre bambini rispetto a chi si ferma a uno. C’è poi oltre un milione di lavoratori con un salario orario di 8,41 euro l’ora e quasi quattro milioni che percepiscono 12 mila euro l’anno. In sostanza, circa dieci milioni di italiani sono privati della possibilità di un reale consumo. Bisogna poi considerare che ci sono oltre 14 milioni di over 65, nella stragrande maggioranza dei casi in possesso di una pensione attorno ai mille euro mensili. Infine, sette milioni di giovani di età compresa fra 18 e 34 anni vivono in casa con i genitori. Sono circa 18 milioni i cittadini che rischiano l’esclusione sociale, il 28,7% del totale, più di uno su quattro – uno su due nel Mezzogiorno, dove vivono 20 milioni di persone -, perché non in grado di affrontare imprevisti, in ritardo con mutuo e bollette, incapaci di fare un pasto adeguato ogni due giorni o di garantire alla famiglia una settimana di vacanza all’anno.[]
  12. È bene ricordare che in Italia il lavoro dipendente è tassato al 40%, la rendita immobiliare al 21%, quella finanziaria al 20%, il reddito dei lavoratori autonomi al 15%.[]
  13. L’economista Maynard Keynes (che fu presidente della Malthusian League) aveva fondato la necessità di usare le leve della politica economica e monetaria scoperte durante la prima guerra mondiale per tenere in vita società capitaliste condannate dalla demografia alla stagnazione e quindi bisognose di stimoli continui, rendendo inevitabile l’aumento del peso e del ruolo economico dello Stato per sostenere la domanda aggregata e quindi il processo di accumulazione. I grandi sistemi di welfare sono stati il frutto di conquiste di battaglie civili condotte prima e durante la Guerra Fredda (tra “capitalismo democratico” e “socialismo reale”) e sono stati resi possibili dalla crescita economica e al tempo stesso sono stati strumenti per la gestione di quest’ultima (regime del Fordismo/Keynesismo). Essi sono stati concepiti anche come strumenti per fronteggiare i problemi di società di cui si temeva la stagnazione demografica. Si pensi al Beveridge Report del 1942 e al lavoro di Alva Myrdal, la teorica del welfare svedese, entrambi frutto della preoccupazione di garantire la riproduzione sociale della popolazione nella relazione con la produzione.[]
  14. Processi analoghi di sottrazione hanno investito anche la natura, le popolazioni razzializzate e i poteri pubblici e le capacità politiche. Si veda Fraser N., Capitalismo cannibale. Come il sistema sta divorando la democrazia, il nostro senso di comunità e il pianeta, Editori Laterza, Roma-Bari 2023.[]
  15. Negli Stati Uniti, come altrove, è ormai diffuso il fenomeno del “doppio reddito, niente figli” (DINK). DINK è diventata una frase gergale per una famiglia in cui ci sono due redditi e nessun figlio. Le coppie che vivono in una famiglia DINK hanno spesso più reddito disponibile perché non hanno le spese aggiuntive che vengono con i bambini. Inoltre spesso spendono meno a persona per l’alloggio rispetto ai single a causa della loro capacità di condividere cucine, bagni e soggiorni.[]
  16. Nel 2019 la spesa per i servizi sociali in Italia è stata pari allo 0,42% del PIL arrivando a 0,7% con le compartecipazioni degli utenti e del servizio sanitario nazionale (SSN). Il dato è soltanto un terzo di quanto impegnano i bilanci di altri Paesi europei (2,1-2,2% di media).[]
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