Desaparecidos
Intervista a cura di Alba Vastano
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Due anni di stillicidio di informazione terroristica. Il virus dell’infodemia corre pressante almeno da un biennio sul filo delle nostre vite. Molto prepotente da inizio pandemia, fino ad oggi con la guerra in corso in Ucraina. I fili della paura che avviluppa la nostra esistenza li gestiscono strumentalmente i soliti pochi noti, i signori del potere e della guerra.
La vittima è la verità sulle dinamiche storiche, economiche e geopolitiche che l’hanno provocata, ma la verità non è la sola vittima. A pagare lo scotto peggiore della guerra sono migliaia di persone costrette a fuggire dalla normalità della loro vita. Ad abbandonare tutto il loro mondo, a nascondersi nei bunker, a patire la fame. Spesso anche a morire sul ciglio di una strada, mentre fuggono dalle loro case distrutte dai bombardamenti.
Loro sono lì e noi qui a vedere dai monitor questo esodo forzato e la strage degli innocenti come fosse un film, come un dramma avulso dalla nostra realtà. Possiamo provare rabbia, pena, odio verso un leader o l’altro, ma noi siamo gli estranei della guerra, finché noi non diventiamo loro, accogliendo realmente le loro sofferenze e ribellandoci a tanta crudeltà, rifiutando la guerra e la sua possibile escalation voluta dalle potenze imperialiste. La guerra è stupida e crudele. Vuol dire che ci sono uomini stupidi e crudeli che detengono enormi poteri e soggiogano i loro popoli, rendendoli inermi. Le guerre più cruente hanno sempre avuto origine da forme di governo a matrice fascista, con un dittatore al comando. La storia ne è piena.
Basterebbe ricordare quanto accadde nella metà degli anni ‘70 in America latina. In Uruguay, Cile e Argentina si avvicendarono forme di dittature violentissime e molte furono le vittime. In Argentina, nel periodo dei generali, sparirono molte persone e di loro non se ne seppe più nulla. Solo alcune riuscirono a salvarsi e a fuggire, grazie anche all’intervento del console italiano in Argentina, Enrico Calamai. Incontro il console ad un’iniziativa promossa dall’Anpi e conosco la sua storia fatta di umanità, umiltà e solidarietà verso i deboli e gli oppressi dal potere militare.
Una storia che oggi più che mai ci fa bene ricordare, perché di uomini che hanno la facoltà e, soprattutto la volontà di sostenere gli oppressi e restituire dignità e libertà alla loro vita non ce ne sono molti e quei pochi sono essi stessi dei desaparecidos, perché non gli è consentito fare del bene e subiscono l’espulsione, o peggio, dalle comunità e dall’intera società.
Ne conosce bene le restrizioni il console Enrico Calamai. La sua è una storia pregna di umiltà e di solidarietà, senza alcun protagonismo, perché l’essere umani e solidali non necessita dei fari della ribalta che ne immortalino il gesto. La solidarietà è silenziosa e umile e si fa a telecamere spente. Altrimenti è opportunismo. E’ tornaconto personale. E’ campagna elettorale per ottenere consensi personali, sfruttando una tragedia umana.
Da Enrico Calamai, lo ‘Schindler di Buenos Ayres’, una lezione di umiltà, di generosità e di coraggio fra le righe dell’intervista che segue…
Alba Vastano: Console Calamai, anzitutto la ringrazio per la sua disponibilità all’intervista. Inizierei con chiederle di illustrare i suoi trascorsi istituzionali in Cile e in Argentina nella metà degli anni ’70, quando si è trovato a vivere il Cile di Pinochet e l’Argentina dei generali. Lei così poco incline ad assoggettarsi alle soverchierie e alle prepotenze dei poteri forti, ma ligio ai suoi uffici e al senso dello Stato come ha vissuto quel periodo?
Enrico Calamai: Nell’ottobre del 1972, sono stato destinato a prestare servizio presso il Consolato Generale d’Italia a Buenos Aires. Dal settembre al dicembre 1974, in occasione dell’anniversario del golpe in Cile, venivo inviato in missione presso l’ambasciata d’Italia a Santiago, salvo poi tornare nella mia sede a Buenos Aires. Tale periodo, per quanto breve, mi permetteva di capire la violenza che comporta un colpo di stato, la stessa che ho poi visto attuata a Buenos Aires. L’esperienza con i circa 450 rifugiati presso l’ambasciata a Santiago mi permetteva di comprendere anche che il diplomatico gode di certa facilità d’azione a tutela dei diritti umani, cosa che ho messo in pratica quando mi sono trovato a vivere e lavorare per seconda volta in mezzo alla violenza a Buenos Aires. Ero tuttavia consapevole che il limite posto al mio agire derivava sia dalle scelte politiche dei macellai argentini, che dal desiderio del governo italiano di non urtarli. Un percorso stretto, ma non impossibile da seguire, venivo costretto a lasciare il posto nel maggio del 1977, più o meno a un anno dal golpe.
A.V.: Nel saggio ‘Niente asilo politico-Diario di un Console italiano nell’Argentina dei Desaparecidos’, oltre la drammatica testimonianza degli eventi, colpisce il riferimento all’atteggiamento ‘acquiescente’ dei governi occidentali all’ imperialismo Usa di fronte alla tragedia che stavano vivendo i popoli di quei Paesi. ‘Niente asilo politico’ è la risposta dei governi al dramma dei perseguitati e il suo diario è una sua personale denuncia. E’ così?
E.C.: L’esperienza maturata negli anni trascorsi in Argentina mi è servita per evidenziare, con “Niente asilo politico”, la sostanziale indifferenza con cui i governi occidentali affrontano situazioni di politica estera che comportano violazioni sistematiche dei diritti umani, spinti da motivazioni sia economiche che geopolitiche. Ciò, malgrado che gli stessi diritti umani rappresentassero, all’epoca dei fatti, la bandiera ideologica delle democrazie occidentali. Considero giusto quindi parlare di acquiescenza e in certi casi anche di collusione o complicità, a proposito dell’operato dei governi occidentali nei loro rapporti con i militari argentini.
A.V.: Anche l’Italia si è defilata riguardo l’accoglienza ai perseguitati. E’ la politica del doppio binario, ovvero la solita politica ambigua all’italiana che con una mano, in modo fittizio, dà e con l’altra contemporaneamente toglie i diritti e sempre ai più deboli. Rispetto alle politiche trascorse e vigenti del nostro Paese c’è una coazione a ripetere non le sembra?
E.C.: La politica italiana di quegli anni nei confronti dei perseguitati politici in America Latina, sia che fossero italiani, discendenti di italiani o aventi altra cittadinanza, era resa possibile dalla consapevolezza che le vittime non avevano possibilità di smuovere a loro favore l’opinione pubblica in Italia e tanto meno di incidere sfavorevolmente nelle tornate elettorali a venire, mentre, al contrario, la linea di governo avrebbe avuto riscontri positivi in termini elettorali, se si traduceva in ritorni per il nostro sistema produttivo e finanziario, nonché in posti di lavoro. La politica seguita dal governo italiano, ma anche, si noti bene, dagli altri stati occidentali, era finalizzata a collaborare con le autorità locali, che pure si macchiavano di sistematiche violazioni dei diritti umani, fin tanto che queste ultime non arrivavano a colpire l’opinione pubblica. La priorità era immancabilmente la tutela degli interessi economici, non quella dei diritti umani.
A.V.: I n particolare nella sua esperienza in Argentina quando le persone iniziarono a sparire in che modo è riuscito ad aiutare i rifugiati, nonostante le difficoltà poste dal governo italiano e il veto degli altri esponenti dell’ambasciata?
E.C.: A Buenos Aires, quando in Consolato cominciarono a presentarsi giovani perseguitati per ragioni politiche, compresi che mi sarei potuto rendere utile fornendo loro un passaporto italiano e un biglietto aereo per Roma, facendo ricorso alle facilitazioni per il rimpatrio tradizionalmente seguite dal governo italiano.
A.V.: Console , in quella occasione, non si è sentito in pericolo e non ha mai temuto per la sua vita? Quali sono stati i motivi che l’hanno spinto a proseguire pur rischiando la sua vita?
E.C.: Il pericolo per me derivava più che altro dalla possibilità che i militari argentini si rendessero conto dell’esistenza di una discordanza tra il mio operato e la linea politica perseguita dal governo italiano. A quel punto sarebbe stato impossibile continuare, anche perché avrei messo in pericolo la vita di chi fosse eventualmente venuto da me a sollecitare aiuto.
A.V.: Può fare un accenno, in base alle sue esperienze, su quale ruolo ha svolto la Chiesa cattolica in Argentina, considerando che negli anni 70 in molti Paesi dell’America latina si era affermata la corrente di pensiero della Teologia della Liberazione?
E.C.: La Chiesa cattolica era una vera forza politica nell’Argentina di quegli anni e la dittatura è stata da molti definita “clerico-fascista”. Occorre tuttavia distinguere tra l’atteggiamento e l’operato della gerarchia ecclesiastica e quello della base, rappresentata da semplici sacerdoti, tra loro molti preti operai, e/o suore, che si rendevano interpreti della teologia della liberazione, adoperandosi in attività a favore delle classi più svantaggiate. Alcuni di questi pagarono con la vita il loro impegno.
A.V.: Riguardo il conflitto in corso fra Russia e Ucraina, il governo italiano anche questa volta fa l’inchino al potere delle armi e acconsente a partecipare alla guerra, in barba all’art.11 della nostra Costituzione. Trova che ci siano delle affinità in questa guerra con le dinamiche politiche del governo italiano e dei governi occidentali di allora e di oggi?
E.C.: La guerra è in pratica la calamità politica che di fatto comporta maggiori violazioni dei diritti umani per le popolazioni coinvolte, malgrado quanto previsto a livello teorico dal diritto umanitario. La nostra Costituzione, come sappiamo, ripudia la guerra ed esiste una convergenza in proposito a livello legislativo. Tale importante corpus normativo non sembra, al momento attuale, essere stato preso in considerazione nel formulare una linea politica che si limita all’invio di armi e all’assistenza umanitaria, trascurando invece l’attività politico/diplomatica che andrebbe perseguita in tutti i modi possibili, sia a livello bilaterale, che a livello europeo e di Nazioni Unite. L’influenza atlantica, che era presente negli anni ’70 del secolo scorso, lo è ancora oggi, a monte delle scelte seguite dalle autorità sia italiane che occidentali in generale.
A.V.: L’Anpi ha scelto di opporsi agli interventi militari, in favore della fine del conflitto che sta provocando molte vittime in entrambi gli schieramenti e per questo riceve molte contestazioni anche dal Pd. Ritiene che l’Anpi stia dalla parte giusta e perché?
E.C.: La posizione pubblicamente presa dall’ANPI contro l’invio di armi all’Ucraina è pienamente rispondente sia al dettato dell’art. 11 della Costituzione che alle norme relative all’esportazione di armi e alla neutralità. Tale posizione può pertanto pure contrastare con l’interesse congiunturale di un partito politico, ma è ineccepibile da un punto di vista giuridico
A.V.: Riguardo l’Anpi quale valore ha oggi o dovrebbe avere un’associazione che richiama ai valori della Resistenza, considerando che nella percezione e nell’opinione comune il valore della Resistenza e dei partigiani è obsoleto? Come si rinnovano quei valori se anche la Costituzione, nata grazie al sangue dei Partigiani viene costantemente oltraggiata e svilita dai nostri stessi governanti?
E.C.: La Resistenza oggi si manifesta nell’operare a livello educativo e culturale per tenere vivi i valori che furono a suo tempo a monte della lotta antifascista e dell’elaborazione della Costituzione. Tali valori non sono obsoleti, è vero piuttosto che alla loro tutela si oppone l’emergere di fermenti di estrema destra e di fascismo, non diversamente da quanto si è clamorosamente manifestato negli USA il 6 gennaio 2021 con l’assalto al Capitol Hill, cavalcati e incoraggiati da alcuni partiti politici con finalità puramente elettorali. ? importante, in questo contesto, tener presente che occorre anche attivarsi nella lotta contro il razzismo, quale oggi si manifesta a livello di legislazione, di operato dell’Amministrazione dello Stato e di opinione pubblica, che discriminano tra cittadini ed immigrati o richiedenti asilo, anche a seconda del colore della pelle. Lo vediamo in questi giorni che si accorre – giustamente – in soccorso delle vittime della guerra in Ucraina, ma si continua ad ignorare la sorte delle migliaia di persone a loro volta in fuga per la vita dall’immenso retroterra africano e dal Medio Oriente.
A.V.: Gino Strada riguardo la guerra soleva affermare che “Solo dei cervelli poco sviluppati nel terzo millennio possono pensare alla guerra come uno strumento accettabile per la risoluzione dei conflitti”. Sicuramente è anche il suo pensiero. I signori della guerra sono tutti dementi o nel potere è insita la malvagità?
E.C.: Credo si possa dire che il potere agisce ancora oggi secondo regole che nulla hanno a che vedere con quelle dell’etica, come d’altronde messo in rilievo da autori ormai da noi distanti cronologicamente, quali Dante, Machiavelli, Guicciardini. L’operato degli Stati continua ad essere caratterizzato dalla Realpolitik, che crea un sistema internazionale de facto, in cui le decisioni prese rispondono a criteri di potenza anziché al rispetto del complesso corpus normativo in materia di diritti umani, sviluppato dal diritto internazionale dal secondo dopoguerra, nonché del ruolo che si era voluto attribuire alle Nazioni Unite. La Realpolitik, tuttavia, non riesce a prendere in considerazione i danni che all’ambiente, all’umanità e alla sua stessa sopravvivenza, possono derivare dal dissennato uso di una tecnologia che oggi si limita a soddisfare le esigenze di pochi, a discapito della sopravvivenza della maggioranza della popolazione mondiale.
A.V.: La solidarietà, senza alcun fine o bene di ritorno, verso i perseguitati, i migranti che fuggono dalle guerre, gli sfollati,i poveri, gli invisibili, oggi soprattutto in cui regna sovrana l’indifferenza verso i più deboli e ogni forma di tornaconto personale, è da considerare un atto eroico? E secondo lei console è possibile che questa umanità allo sbando possa convertirsi ad un nuovo Umanesimo?
E.C.: I dannati della Terra non sono mai stati presi in considerazione dai pochi che, per appartenenza nazionale, fanno parte della minoranza privilegiata del pianeta. Oggi, tuttavia, gli ultimi sono consapevoli di essere titolari di diritti e del diritto alla vita in primis, per se stessi e per le proprie famiglie, e fanno di tutto, mettono perfino a rischio la propria vita, per arrivare a far parte di società in cui poter vivere in maniera dignitosa. D’altra parte, la tragedia della guerra in Ucraina dovrebbe farci pensare che la Realpolitik può portare a simili disastri, anche ai nostri confini o al loro stesso interno, se non sostituita da meccanismi di soluzione pacifica dei conflitti internazionali. Si tratta di un brusco richiamo alla realtà che potrebbe, se giustamente interpretato, spingerci a cambiare le regole di un mondo che senza una vera e propria cooperazione pacifica e, prima ancora, pacifista, può portare alla distruzione della specie umana.
Desaparecidos LA TESTIMONIANZA DI BLANCA CLEMENTE
Il colpo di Stato in Uruguay e il rifugio a Buenos Ayres – Il Plan Condor
“Il 27 giugno 1973 c’è stato in Uruguay il colpo di stato. Comincia il periodo della dittatura civico-militare, fino al 1 marzo 1985. Nel 1980 ci fu un plebiscito proposto dal governo civico-militare, con l’obiettivo di modificare la costituzione. Fu respinto con oltre il 56% dei voti validi. Era un periodo di grande mobilitazione popolare, Già da prima del colpo di stato in Uruguay il Parlamento decretava misure repressive (Medidas prontas de seguridad), che implicava che si potevano arrestare per esempio i sindacalisti senza nessuna garanzia legale. Potevano stare in galera senza avvocato per 48 ore o più. Dapprima ci sono stati tantissimi prigionieri, torturati ed in alcuni casi uccisi.
Il colpo di stato, a differenza di altri come il cileno, fu un processo graduale, cominciato con misure repressive per decreto. Viene sciolto il Parlamento. Tutti i partiti, compresi quelli liberali e la Centrale Unica dei Lavoratori (CNT), vengono dichiarata fuori legge come tutte le organizzazioni studentesche. La stampa censurata. E’ stata la risposta della dittatura al movimento di protesta popolare che cresceva. Violazione dei diritti umani, sparizione dei militanti.
Io in quel momento studiavo per diventare maestra. Appartenevo al movimento Resistenza Operaia Studentesca (ROE) e alla Organizzazione Popolare Rivoluzionaria33 (OPR). Mi son diplomata nel 1974. Nel 1975 subiamo una terribile repressione. Io sono stata ricercata. Per quel motivo sono dovuta andare via della mia residenza ed aspettare il momento opportuno per andare via dal Paese. Fu così che sono arrivata a Buenos Aires. Fu un momento molto duro per me. Avevo 24 anni .Ricordo con grande angoscia il viaggio aereo da Montevideo a Buenos Aires.
Dall’alto guardando la mia città, pensavo a chissà quanto tempo sarei stata senza vederla e senza vedere la mia famiglia e i miei amici. La mia famiglia non sapeva niente di me. Non potevamo comunicare perché potevano arrivare a me, giacché eravamo tutti sotto controllo. Il periodo in Buenos Aires è stato terribile. In quel momento la OPR fa un congresso e diventa Partito. Si costituisce il Partido por la Victoria del Pueblo (PVP), partito marxista. Si voleva, da Buenos Aires, organizzare il ritorno in Uruguay e organizzare la resistenza. A Buenos Aires ho fatto un corso di dattilografia per poter lavorare. La situazione era molto dura. I soldi per vivere erano molto pochi. Stavo in una casa molto modesta, senza mobili quasi. Vi abitavo con al due coppie e i loro tre bambini. Con i pochi soldi che avevamo, ottenuti dal lavoro che riuscivo a fare, garantivamo un mangiare equilibrato ai bambini.
Nel quadro di questa situazione la repressione aumentava. Tutti i giorni spariva qualche compagno. Si crea il Plan Condor (coordinamento delle forze repressive dell’Argentina,Uruguay, Bolivia, Brasile, Cile, Paraguay, Perù) voluto dalla CIA. L’obiettivo era distruggere tutte le proteste e la mobilitazione contro tutti i regimi repressive, dittatoriali. Ogni gruppo di lavoro, cellula, non poteva aver rapporto con gli altri. Se perseguivano uno, perseguivano tutti. Dovevamo presentarci ad una certa ora in un certo appuntamento per tre giorni di seguito. Chi non appariva voleva dire che era stato detenuto e come conseguenza desaparecido.
Furono per me, quasi due anni di una grande angoscia. Non potevo comunicare con la mia famiglia direttamente. Mia madre disperata, perché non sapeva che fine avevo fatto, se ero viva o morta, stava molto male. Una mia amica e compagna la porta a Buenos Aires e dopo una settimana quasi riesce a trovarmi, dato che eravamo tutti compartimentati. Il segretario del PVP in quel momento, Hugo Cores, mi comunica un appuntamento per vedere mia madre che al giorno seguente ripartiva. Lei con la faccia macerata, perché non dormiva, mi ha visto e dopo se n’é andata con la certezza che ero viva. Questo succedeva nel 1975.
Nel 1976 una compagna mi si avvicina (non ci potevamo incontrare) e mi dice: “ Tu hai i nonni italiani, vai al consolato italiano per la cittadinanza”. Fu così che mi recai al consolato, dove ho conosciuto Enrico Calamai.
Lui mi ha detto: “Basta che i documenti partono da Montevideo per l’Italia e faccio la pratica di cittadinanza”. Normalmente occorrevano da 8 mesi ad un anno per fare la pratica. Contatto la mia famiglia e chiedo di recarsi al consolato a Montevideo per fare i documenti. Il console di Montevideo, Colella, è stato molto disponibile ad aiutarmi e così furono elaborati i documenti necessari. E’ bastato che i documenti partissero per l’Italia e Enrico Calamai mi ha dato passaporto e biglietto facendomi rimpatriare dal governo italiano. Avevo la lettera d’urgenza delle Nazioni Unite con richiesta di visto per un paese europeo. Ma tutti i desaparecidos l’avevano. Alla fine avevo il visto per la Francia e l’Austria. Dovevo decidere e alla fine ho scelto l’Italia. Qualcuno mi diceva che era meglio andare in Francia dove i rifugiati politici erano aiutati. Ho preferito arrivare come cittadina italiana. Gli svantaggi chiaramente erano tanti. Senza lavoro, cercando di arrangiarmi per vivere, come gli altri latino-americani. Facevo diversi lavoretti per vivere.
Enrico Calamai per tutti i latinoamericani è stato una grande salvezza in quel momento di terrore. Ha aiutato tantissimi e di questo noi gli siamo tanto grati. Se non ci fosse stato il suo intervento non so se sarei viva oggi. I miei amici e compagni di militanza di quel momento sono una gran parte desaparecidos. Anche bambini che per fortuna sono stati ritrovati grazie alle indagine delle madre e nonne di Plaza di Mayo e ai famigliari di desaparecidos dell’Uruguay.
Enrico Calamai è una persona modestissima. Quando ho potuto ringraziarlo per quello che ha fatto mi ha detto che lui non aveva fatto niente, semplicemente quello che doveva fare. Non accetta che parliamo di quello che ha fatto. Ma noi vogliamo precisarlo. Addirittura c’è stato chi non avendo dove dormire ha trovato un posto nel consolato. Il fatto di averci aiutato ha comportato una limitazione nella sua carriera diplomatica. Siamo tanti che possiamo testimoniare il suo impegno. Nella situazione d’oggi di crisi politica, di demoralizzazione, credo sia importante risaltare questo tipo di impegno.
Un grazie di cuore a Enrico per tutto il suo impegno e la sua solidarietà che oggi continua ad esprimere verso tutti gli immigrati che arrivano in condizione disperata nel nostro paese” (Blanca Clemente)
Enrico Calamai- Pubblicazioni: ‘Faremo l’America’ – ‘Niente asilo politico’
Le vicende personali di Calamai hanno ispirato una mini-serie televisiva in due puntate, Tango per la libertà, prodotta da Rai1 nel 2016 e diretta da Alberto Negrin.
Alba Vastano
Giornalista Collaboratrice redazionale di Lavoro e Salute
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