Di cosa è sintomo il Coronavirus
Prima di tentare di interpretare il Coronavirus come rivelatore di contraddizioni presenti e rilevatore dello stato della società italiana, occorre una premessa. Scrivere sul presente richiede l’interrogazione di elementi del contesto sociale, e quindi anche del passato storico, con punti molteplici di osservazione. Parlare di qualcosa che accade ora non significa parlare solamente di adesso, ma anche di come si è arrivati all’oggi. Tutto ciò avviene in uno scenario in profonda mutazione, in divenire. Spostare il piano della discussione, dall’allarmismo alla sottovalutazione del fenomeno, serve per cogliere questioni che, altrimenti, sarebbero messe in ombra e apparirebbero solo come corredo narrativo del discorso sul virus.
Crisi, ossia una situazione difficile da gestire. Il termine è divenuto, a partire dagli anni Novanta, sinonimo di «guerra» – si pensi ai Balcani e ai conflitti armati di inizio secolo. Per la verità, come mostrato da Judith Butler, è la crisi dell’11 settembre a provocare una trasformazione epocale: da quel momento lutto e morte ridefiniscono la precarietà delle vite. A un primo sguardo, crisi perde il suo significato originario, di una fase decisiva per lo sviluppo di una patologia, e diventa, sempre di più un presente continuo e permanente in cui si è coinvolti, avvolti, imbrigliati, con un passaggio dall’imminente all’immanente, per usare le parole di Frank Kermode.
Reinhart Koselleck impiegava il termine crisi per parlare della modernità, recuperando un’intuizione di Rousseau, e prima ancora di Diderot con la frase, dedicata al processo rivoluzionario francese, «nous touchons à une crise qui aboutira à l’esclavage ou à la liberté». Koselleck affianca crisi al termine critica per rappresentare «lo spazio interplanetario» dopo la Seconda guerra mondiale, uno spazio «dischiuso» in cui la «storia europea si è dilatata a storia mondiale», uno spazio contraddistinto dal conflitto: tra nazioni e blocchi, tra Stati e sudditi, in cui la «ragion di Stato» di matrice illuministica ha assoggettato la religione e riorganizzato l’ordine sociale medioevale.
Adottando un vocabolario concettuale, Koselleck arriva a mostrare come molteplici siano le interpretazioni semantiche del concetto (cita Thomas Paine ed Edmunde Burke, Joseph Görres e Friedrich von Gentz, ma anche Jacob Burckhardt e Karl Marx). Crisi può essere un evento unico o, viceversa, può riguardare una condizione che si ripete, con molteplici temporalità. Koselleck, quindi, individua quattro tipologie principali di significato: crisi come contesto storico che va risolto immediatamente; crisi come evento definitivo, ultimo, con un portato che evoca l’Apocalisse; crisi come processo che si svolge nella storia; crisi come momento di transito da un’epoca a un’altra.
L’Italia del contagio
Recuperando il metodo analitico di Koselleck – ossia di leggere i significati tra pubblico e privato, e in diversi contesti storici – è possibile, ora, pensare all’Italia del contagio Covid-19. L’obiettivo, quindi, non è disquisire sull’epidemia, ma evidenziare come la diffusione del virus mostri le contraddizioni della modernità che viviamo, mettendo in crisi le strutture istituzionali e lasciando permeare, nel pubblico, fobie e paranoie.
In termini storico-linguistici, in Italia il significato originario del termine crisi è stato sostituito, oramai da tempo, da emergenza. Emergenza terrorismo, dopo ogni attentato e retata; emergenza per i terremoti in centro Italia; emergenza immigrazione, per ogni nuovo sbarco; e ancora, emergenza criminalità, emergenza climatica, emergenza bullismo, emergenza femminicidi. Crisi, invece, ha assunto un nuovo valore: è impiegato per il contesto politico, economico e finanziario, ossia crisi politica, crisi economica, crisi finanziaria. La distanza tra emergenza e crisi porta in superfice alcune considerazioni: per primo, è palese lo scollamento netto tra i soggetti decisionali e quelli che subiscono eventi di vario genere, alcuni legati alla società, altri a disastri naturali. Ad emergenza, nelle varie declinazioni, è attribuito il senso di un evento che non può essere arginato, ma solamente fronteggiato e, comunque, in cui le persone coinvolte non hanno alcuna possibilità d’azione. Crisi, invece, è il momento in cui si devono ridefinire gli equilibri all’interno delle cerchie di potere. Andando ancora più in profondità, emergenza definisce una questione strutturale, di ambito societario o ambientale; mentre crisi concerne le modalità in cui si riformeranno gli assetti di governance.
Se osservata da questa angolazione, la diffusione del Covid-19 esplicita la distanza interna al campo della politica, tra cittadini e soggetti decisionali, con una rilevanza che non si limita solamente al campo della rappresentanza, che non riguarda unicamente il principio di delega come espressione e compimento di un modello di società. Sono in campo altre forze, penso al comparto economico e finanziario, che sono colpite dalla diminuzione delle vendite e dalla caduta della borsa. In sintesi, l’epidemia di Covid-19 è sia una crisi sia un’emergenza, e proprio per questo motivo rivela la dissonanza tra i due termini, e i relativi significati, con ricadute decisionali e contraddizioni nella società.
Usare il metodo di Koselleck per interpretare questa modernità, quindi non disgiungendo i due termini ma analizzandone le relazioni, può essere molto interessante per spostare il discorso ben oltre l’epidemia. Ecco, quindi, che all’unità di crisi, che dovrebbe fronteggiare l’avanzata del virus, corrisponde uno stato d’emergenza che attiva forme di fobia e psicosi, da un lato, e dall’altro prese di posizione che sminuiscono quanto sta accadendo.
Una prima considerazione riguarda l’impreparazione a gestire la diffusione del virus. Sebbene gli allarmi fossero già presenti da tempo, la sanità italiana non è riuscita a impedire l’ingresso di Covid-19 in Italia. Ciò solo in parte è dovuto a un errore della cabina di comando – l’unità di crisi – e riguarda, in modo più ampio, lo stato della sanità pubblica. Nel primo caso, non paiono esserci critiche dal basso, da chi potenzialmente potrebbe essere infettato e il soggetto dell’emergenza; né rabbia per un ceto politico incapace di garantire la sanità di cittadine e cittadini, ma potremmo dire di tutte le persone su di un territorio. Questi sentimenti sembrano essere rimpiazzati dalla paura e dalla fobia. Nel secondo caso, poi, le politiche relative alla sanità pubblica, negli ultimi decenni, hanno previsto tagli e precarizzazione del personale, esternalizzazione dei servizi a terzi privati. In sintesi, l’urgenza è stata monetizzata. Anche su questo piano, non paiono giungere critiche dal basso inerenti il fatto che la sanità, come ogni altro aspetto del pubblico, dovrebbe essere efficiente ed efficace per quanto viene prelevato dallo Stato al reddito dei cittadini e delle cittadine. Si spendono migliaia di euro per costruire grandi opere – come la Tav in Val Susa – svuotando le casse dello Stato; migliaia di euro che, sì, dovrebbero essere usati per rinforzare i servizi pubblici alla persona sul territorio.
Accanto all’incapacità di governare il presente e alla privatizzazione del pubblico, vi sono poi questioni di altro genere: la fobia, da un lato, e la derisione per un eccessivo allarmismo. Nel primo caso, la paura del contagio ha da subito attivato quegli immaginari razzisti che corroborano il Paese. Trattandosi di un virus localizzato, ossia comparso per la prima volta in Cina, la sfera pubblica è stata attraversata da sentimenti di diffidenza e persino odio nei confronti dei cinesi. Le aggressioni avvenute nei confronti di cinesi in Italia sono solo la punta dell’iceberg di un immaginario che pesca da un archivio centrato sulla razza come elemento connotativo. Micheal Keevak spiega nel suo Becoming Yellow come la genealogia delle narrazioni di diverso tipo, prodotta da esploratori e scienziati dei secoli precedenti, fino alla politica internazionale durante la guerra fredda, abbiano costruito il colore giallo della pelle e radicato, nella sfera pubblica d’Europa, e direi dell’Occidente in senso più ampio, l’immaginario del cinese scaltro e dedito al guadagno, mai disponibile a dialogare e pronto a ingannare il bianco; ma anche capace di vivere in condizioni al limite del possibile, in case piccole e affollate, in condizioni di precarietà sanitaria. Tale razzismo chiarisce come il linguaggio della discriminazione sia indipendente dalla conoscenza della storia e si radichi nel discorso tra pubblico e privato. Basterebbe partire di qui per ripensare l’analisi del razzismo contro i neri, gli arabi, i musulmani, per comprendere che non vi è stata alcuna rimozione, come continuano a recitare le interpretazioni storiografiche sul colonialismo, ma che si è davanti, viceversa, a una memoria che è condivisa a livelli diversi della società.
La fobia contro «i gialli» diventa tale quando si elabora l’idea di un contagio, ossia che un gruppo abbia intenzione deliberata di infettare la società. Tale rappresentazione ha riguardato, fin dal Cinquecento, gli ebrei, accusati di essere untori, di trasmettere la peste. E non è un caso, quindi, che la narrazione xenofoba di Salvini leghi la diffusione del virus allo sbarco di immigrati a Pozzallo. Nella logica assurda del nemico esterno che invade e appesta, i «profughi» sono come i virus «dei gialli», di corpi malati e sporchi che come zombi – e qui c’è il ritorno del colonialismo attraverso il Mediterraneo – tentano di ammorbare il paese. La soluzione proposta, non solo dal leader della Lega, pesca nell’archivio del fascismo: autarchia, chiusura dei confini, controllo militare e discriminazione sociale. È questo tipo di discorso, a prescindere dai colori politici, che parla la lingua del razzismo e della xenofobia; una lingua che, dobbiamo avere il coraggio di affermarlo, è radicata a un livello pre-politico, ossia interno all’identità italiana.
Vi è poi chi sbeffeggia l’emergenza. Sia chiaro, ironizzare sulle difficoltà pubbliche può essere un buon metodo per esorcizzare il pericolo, per guardare avanti insieme. Ma derubricare la questione a mero allarmismo, a stupidaggine, rende lampante la mancanza di un’analisi del rapporto tra crisi ed emergenza. Senza parlare, poi, del ruolo di una critica a cui pare mancare un modello di riferimento. Se si agisce per cambiare la società, è perché si ha un’idea di pubblico in cui, rimanendo in questo ambito, a tutte e a tutti sia garantito il diritto alla sanità. Tutte e tutti non significa, quindi, solamente i giovani, gli adulti, ma anche gli anziani, coloro che hanno disfunzioni cardiache e gli/le immunodepressi/e, chi è sieropositivo e chi ha problemi respiratori, chi è un paziente oncologico e chi ha altre patologie. Pensare la società come maggioranza di sani, è come pensarla di eterosessuali, ragionando cioè su topoi e canoni che assolutizzano, ma che sono veri e propri feticci, cioè non esistono in quanto tali. Una società libera dovrebbe auspicare a esserlo per tutte e tutti, non uno/a di meno.
Infine, vi è un nodo tematico relativo alla mobilità. In un mondo globalizzato, in cui si ergono frontiere per controllare gli spostamenti dei corpi, i virus mostrano il confine nella sua piena essenza: come luogo che segmenta la società ed è legato all’estrazione di ricchezza. In cui, in particolari condizioni, come quella venutasi a creare in Italia, anche a persone con il passaporto rosso possono essere imposte restrizioni. Si pensi al Regno Unito e all’Iraq che hanno chiesto l’isolamento per chi torna dal Nord Italia; Bosnia, Croazia, Macedonia, Mauritius, Montenegro, Irlanda, Serbia, Israele e Turkmenistan hanno sconsigliato ai proprio cittadini di recarsi in Italia. La Grecia ha sospeso le gite scolastiche in Italia e Serbia, Macedonia del Nord, Bosnia sconsigliano di programmare dei viaggi nella penisola. E c’è anche chi, come la Regione Molise e i sindaci di Ischia, hanno posto dei divieti di ingresso a chi è lombardo o veneto. Frontiere interne a uno spazio liscio che si frammentano, e cambiano di segno, appena cambia lo status dei soggetti.
Mentre un’emergenza si diffonde – poco importa che sia vera, percepita o indotta dai media – il tavolo di crisi, a ogni livello, agisce con ordinanze. Porre attenzione solo allo stato d’eccezione, non sviluppa le contraddizioni, anche perché tali misure sono contraddittorie e sembrano un escamotage perché il ceto al governo possa non assumersi responsabilità, per evitare che chi vive l’emergenza, con una spinta dal basso, muova istanze verso l’alto, trasformando la questione in crisi.
I cambiamenti climatici e le continue apocalissi che si susseguono sul pianeta, con alterazioni talvolta irreparabili degli equilibri sociali, ecologici ed economici, potrebbero andare nella direzione di enfatizzare il rapporto crisi/emergenza. Non va, quindi, confusa la precauzione, che è fondamentale tanto per il singolo quanto per un senso collettivo, con l’allarmismo, né liquidata la possibilità di ripensare il politico da un’ingerenza di chi subisce l’emergenza su chi sceglie le possibili declinazioni della crisi.
Gabriele Proglio
Ricercatore di storia contemporanea presso il Centre for Social Studies dell’Università di Coimbra. Si occupa di memoria coloniale e di condizione postcoloniale in Europa, di storia orale e soggettività, di migrazioni e mobilità nel Mediterraneo. Tra le sue pubblicazioni: Mediterraneo nero. Archivio, memorie, corpi (Manifestolibri 2019); Border Lampedusa. Subjectivity, Visibility and Memory in Stories of Sea and Land (Palgrave 2018); Decolonizing the Mediterranean. European Colonial Heritages in North Africa and the Middle East (Cambridge 2017).
26/2/2020 jacobinitalia.it
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