DI COSA PARLIAMO QUANDO PARLIAMO DI MORTI DA LAVORO
di Leopoldo Magelli, Medico del Lavoro, già responsabile dello SPSAL-AUSL di Bologna, dagli anni ’70 impegnato nelle vicende che hanno riguardato le lotte contro l’esposizione ad amianto in OGR Bologna e per tanti anni collaboratore di AFeVA Emilia Romagna aps, nella tutela degli ex-esposti amianto e dei malati di mesotelioma (e non solo).
Vorrei iniziare chiedendo scusa a Raymond Carver per essermi appropriato del titolo di un suo libro di racconti e per farmi perdonare inizierò la mia relazione con un racconto , la storia di Mirko, una storia vera. Ho scelto la storia di una malattia professionale, e non di un infortunio, perché sui giornali leggiamo spesso storie di infortuni, e quasi mai storie di malattie professionali. Le malattie professionali hanno un andamento diluito nel tempo, più o meno lento e lungo, graduale nel suo evolversi , mentre l’infortunio è un evento puntiforme, drammatico ed intenso, che colpisce di più emotivamente ed ha un impatto più viscerale e violento. Se posso azzardare un paragone cinematografico, una malattia professionale è un film di Terence Malik , un infortunio è un film pulp di Quentin Tarantino ! Ecco dunque la storia di Mirko (che è stata pubblicata in una versione un po’ più lunga pochi mesi fa sulla rivista “MEDICINA DEMOCRATICA”) che non voleva morire e voleva giustizia.
L’ho scritta (ovviamente acquisendo il consenso dei familiari) , perché credo che il meccanismo della narrazione sia il più adatto a rendere la dimensione umana della sofferenza di chi si ammala e muore per causa del lavoro (e, in realtà, la dimensione umana è anche profondamente politica). E poi, quando diciamo “mille morti quest’anno sul lavoro” esprimiamo una dimensione puramente quantitativa del fenomeno (peraltro utilissima, sia ben chiaro), ma cancelliamo involontariamente la dimensione umana ed individuale. Mille morti sono mille persone che non ci sono più, ognuna col suo nome e la sua storia. Ed io ho voluto raccontare una di queste storie ….
La storia inizia nel 1996, quando a 27 anni Mirko inizia a lavorare in una importante azienda metalmeccanica, dove si opera su manufatti di acciai speciali, contenenti, nella loro composizione, cromo e nichel. E’ un gran lavoratore (pensate che nei 15 anni tra il 1996 ed il 2011 effettua ben 5.000 ore di straordinario : è come se avesse lavorato tre anni e mezzo in più!), molto affidabile e capace nel suo lavoro. E’ molto orgoglioso di aver trovato un lavoro fisso in un’importante azienda e sul lavoro si spende senza risparmiarsi. La seconda data importante è il 2011 (15 anni dopo), quando inizia ad accusare dei disturbi alle fosse nasali. Dopo i necessari accertamenti viene posta la diagnosi: si tratta di un TUNS (tumore naso-sinusale), una tipologia di tumore molto aggressivo, non comune nella popolazione italiana in generale, ma più frequente nei lavoratori esposti a polveri di cuoio, polveri di legno, fumi e polveri di nichel (anzi, più della metà di questi tumori colpisce proprio lavoratori professionalmente esposti). Mirko è talmente legato all’azienda che non vuole creare problemi o seccature … si “accontenta” dell’indennizzo ricevuto dall’INAIL, che gli riconosce la malattia professionale. Ma quando pare che l’azienda intenda ricorrere contro il riconoscimento INAIL (e Mirko teme che gli possa essere tolto anche l’indennizzo ricevuto) scatta in lui una reazione molto forte. Sa che malattia ha, sa come andrà molto probabilmente a finire, legge, si informa, si rende conto che in azienda erano presenti sostanze cancerogene cui è stato esposto. Contestualmente si rende anche conto che se l’azienda avesse rispettato sistematicamente tutte le misure e procedure di sicurezza (oggetto tra l’altro di diversi verbali dell’ASL), se tutti soggetti impegnati nella prevenzione aziendale avessero svolto i loro compiti col massimo del rigore , se l’informazione e formazione sui rischi professionali fossero state più incisive ed efficaci, se la sorveglianza sanitaria si fosse ispirata ai protocolli più aggiornati e validati , … se … se … se … forse lui non sarebbe in quelle condizioni !
Qui inizia il calvario di Mirko, che si svolge su due binari tragicamente paralleli :
- da un lato la storia della sua malattia e la sua ineluttabile progressione verso un destino segnato, anche se Mirko vuole vivere, lotta, si aggrappa a tutte le speranze, affronta interventi chirurgici, radioterapia, chemioterapia, vede alternarsi momenti di apparente remissione a momenti in cui la malattia si riacutizza e recidiva, è fiaccato dalla comparsa di complicazioni sempre più pesanti e drammatiche da sopportare, come la perdita progressiva della vista, perché il tumore gli infiltra il pavimento dell’orbita … sto usando un linguaggio crudo e che può urtare la sensibilità di chi ascolta, ma quando parliamo di malattie da lavoro, ed in particolare dei tumori professionali, non parliamo solo di casi o di numeri, ma di persone reali, che sono devastate nella loro integrità psicofisica (e con loro i loro familiari)
- dall’altro la storia della sua battaglia per avere giustizia (battaglia fondamentalmente solitaria perchè, anche se Mirko coinvolge il sindacato e i rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza, il dolore e la paura sono però tutti suoi!) : anche se l’INAIL gli aveva riconosciuto la malattia professionale (decisione contro cui, come detto sopra, l’azienda intendeva fare ricorso), il procedimento penale nei confronti del suo datore di lavoro finisce con un’archiviazione per insufficienza di prove (la lettura degli atti relativi a questo provvedimento è un’altra fonte di sofferenza per Mirko, che vede messe in discussione o addirittura negate molte delle sue esperienze vissute sul luogo si lavoro). Mirko vive quindi questa conclusione come uno schiaffo feroce, perché è come se si negasse che la sua sofferenza è legata alla situazione lavorativa in cui ha vissuto per anni. Ma è ancora in atto il procedimento giudiziario in sede civile, che Mirko vede come l’ultima possibilità di avere giustizia, che per lui è diventata una ragione di vita, un punto d’onore : non accetta di morire a cinquant’anni per un tumore che è convinto di aver contratto sul lavoro senza che gli venga riconosciuto ciò (sembra quasi un cavaliere medioevale che sa che soccomberà in un’impari sfida, ma vuole almeno l’onore delle armi!). E’ in questa fase che io lo conosco, come suo consulente medico di parte nella causa civile.
A questo punto i due binari si intrecciano : da un lato la vicenda materiale della malattia che avanza e piano piano sgretola Mirko, dall’altro la vicenda quasi surreale di un processo in cui i periti e le parti si scontrano su milligrammi di polveri nell’aria, sull’efficacia delle cappe d’aspirazione, sulle caratteristiche istologiche del tumore, su dati statistici ed epidemiologici, su dotte citazioni di esperti del mondo scientifico. E intanto Mirko sta sempre peggio, ma tiene duro nonostante la situazione si aggravi sempre più, ma sembra quasi che Mirko non voglia andarsene prima di aver avuto giustizia. All’inizio del 2019 il processo si chiude con una conciliazione, che si concretizza con il pagamento da parte dell’azienda di una somma di denaro. Mirko accetta per due motivi : anche se può sembrare poco, in termini astratti di giustizia, questa conclusione per Mirko è molto, perché comunque la vive come qualcosa che gli rende giustizia, gli riconosce l’onore delle armi, e poi la somma pattuita gli consente di garantire alla madre una piccola sicurezza economica per il futuro, visto che tra poco resterà sola. Sembra che Mirko aspettasse proprio questa conclusione : infatti pochi giorni dopo se ne va … Ha perso la sua battaglia per la vita, ha “vinto” , se pure in modo un po’ nebuloso, la sua battaglia per avere giustizia.
Ho scritto questa storia perché ci sono tanti Mirko ogni anno nel nostro paese. Tanti sono quelli che ogni anno si ammalano e muoiono per tumori professionali, e le statistiche INAIL lo dimostrano, anche se i dati INAIL sono sottostimati.
Dietro le cifre delle statistiche, comunque, ci sono il dolore e la sofferenza reali : ci vorrebbe un poeta, un Edgar Lee Masters 4.0 che raccontasse in una nuova antologia di Spoon River , per nome e cognome, le storie di tutti i lavoratori uccisi dal lavoro che dormono, come direbbe Fabrizio De Andrè, sulla collina.
Prima di proseguire, è opportuno puntualizzare alcune definizioni. Un “infortunio sul lavoro” è un evento lesivo da causa violenta che si verifica in occasione di lavoro (concetto più ampio che “sul luogo di lavoro” o “durante il lavoro” : se il lavoro mi impone di spostarmi da un luogo ad un altro, un infortunio che mi succede durante questo spostamento è a tutti gli effetti un infortunio sul lavoro) , in modo concentrato nel tempo ; una “malattia professionale” è una malattia che si instaura nel tempo, a seguito di un’esposizione protratta ad un fattore lesivo di tipo fisico, chimico, organizzativo (non infettivo, perché le malattie infettive di origine professionale vengono ricomprese tra gli infortuni).. Un esempio per chiarire bene il concetto : se un rumore violentissimo, improvviso, molto elevato, mi causa una rottura del timpano si tratta di un infortunio , se invece sono esposto per anni al rumore in un ambiente molto rumoroso e sviluppo una sordità da rumore, si tratta di una malattia professionale.
Quali sono i dati reali del fenomeno in Italia ? Precisato anzitutto che la fonte ufficiale di questi dati è l’INAIL, e quindi i dati si riferiscono al complesso degli infortuni e delle malattie professionali denunciati all’Istituto e riconosciuti (la percentuale dei casi riconosciuti è sempre inferiore a quella dei casi denunciati, specialmente per le malattie professionali) e che non compaiono quindi in queste statistiche tutte le vittime di infortuni o malattie che si verificano nel mondo del lavoro nero, informale, irregolare, se prendiamo in esame gli ultimi anni gli infortuni mortali oscillano intorno ai 1.100-1.200 all’anno (è così ormai stabilmente dagli anni ’10 in poi).
Sono pochi o molti ? In Italia muoiono ogni anno circa 5.000-6.000 persone per infortuni domestici, circa 200 per infortuni sportivi, 4.000 per suicidio, poco più di 300 per omicidio, tra i 3.000 e 3.500 per incidenti stradali. Al di là delle cifre, il fatto è che le morti da lavoro sono morti evitabili , applicando serie ed efficaci misure di prevenzione. Quasi tutto ciò che è PREVEDIBILE è infatti PREVENIBILE. Certamente in questi ultimi 12 mesi, dal settembre 2023, si sono verificate vere e proprie stragi, prima i 5 morti della strage di Brandizzo , poi i 3 morti della fabbrica pirotecnica in Abruzzo, i 5 morti del cantiere ESSELUNGA di Firenze, i 7 della centrale idrolelettrica di Suviana, gli altri 5 in Sicilia, a Casteldaccia, durante lavori fognari, i 3 ragazzi del deposito clandestino diu fuochi d’artificio nel napoletano e solo pochi giorni fa i 5 morti del deposito ENI di Calenzano : morti dilaniati da un treno o da un’esplosione, soffocati dall’acqua o dall’indrogeno solforato, schiacciati da travi e putrelle … esageravo prima palando di un film di Quentin Tarantino ? mente un termine brutale, che in genere si applica all’uccisione delle bestie- da un treno a modificare le valutazioni sul trend).
Per quel che riguarda le malattie professionali, i dati reperibili dalle fonti INAIL ci dicono che i morti per malattia professionale coincidono circa con i morti per infortunio, anzi, in molti anni sicuramente li superano, grazie all’incredibile contributo del mesotelioma da amianto.
La situazione italiana come si colloca in un contesto internazionale ? Essendo impensabili i confronti con i paesi extraeuropei, valutiamo la situazione nella UE. Dai dati EUROSTAT 2017 e 2018 , analizzando i tassi di incidenza degli infortuni mortali per 100.000 lavoratori attivi in tutti i paesi europei, inclusi Regno Unito, Svizzera e Norvegia, l’Italia si colloca intorno al valore di 2 , in 20^ posizione : una collocazione peggiore l’hanno solo 10 paesi, tra cui solo la Francia è comparabile con l’Italia , oltre a Austria, Croazia e Repubblica Ceca. Le media europea è circa di 1,75. Quindi, la situazione italiana appare un po’ più critica di quella di altri paesi europei comparabili al nostro , in particolare dei paesi nordici. Ovviamente, se usciamo dall’Europa entriamo in un mondo assolutamente diverso, dove anzitutto si ragiona, il più delle volte per stime. E, avendo fatto esperienze lavorative con una ONG in Vietnam e in Brasile, non posso che riconoscere l’impossibilità a ragionare su numeri precisi. D’altra parte, nei paesi di recente industrializzazione, o che sono nella fase di transizione verso l’industrializzazione, o che ancora non sono industrializzati, le condizioni di lavoro sono tali che parliamo di numeri ben diversi. Le stime dell’OMS parlano di un numero compreso tra 6.300 e 7.000 morti al giorno, per infortuni e malattie professionali, ovvero tra i 2.300.000 e i 2.500.000 di morti all’anno. Su questi numeri abnormi incidono anche la qualità e la logistica di distribuzione sul territorio delle strutture sanitarie, in particolare di primo soccorso. Credo che questa guerra non dichiarata faccia più morti ogni anno di tutte le guerre “ufficiali” messe insieme.
E non parliamo di “disgrazie” : sulla Treccani, tra i diversi significati, c’è questo : “Avvenimento funesto e improvviso, incidente, infortunio … più genericamente, ogni caso spiacevole che avvenga involontariamente” . La domanda retorica che vi pongo è questa : se mando un muratore a lavorare su un tetto senza conoscerne la portata e senza assicurarlo con idonei mezzi di prevenzione contro il rischio di precipitare di sotto, se il lavoratore cade e muore è una disgrazia o è la conseguenza possibile di un mio comportamento scorretto o addirittura ? Oppure, per restare nella quasi attualità, se mando degli operai a lavorare sui binari della ferrovia non sapendo se arriverà un treno o, peggio ancora, sapendo che arriverà, se succede una strage è una disgrazia ? Quindi aboliamo la parola disgrazia da ogni discorso che facciamo per un infortunio mortale sul lavoro.
E facciamo anche un cenno a due misure presunte salvifiche : a) occorre fare più formazione alla sicurezza ai lavoratori , b) occorre incrementare l’attività di vigilanza e controllo delle ASL, Ispettorato de Lavoro, NAS, ecc. Sia chiaro, per non generare equivoci : entrambe queste cose sono non solo utilissime per fare prevenzione, ma sono addirittura necessarie … però necessarie ma non sufficienti ! Se io faccio formazione sulla sicurezza anche molto bene, con ottimi docenti, con verifiche puntuali sull’apprendimento … ma poi sul lavoro, all’atto pratico, faccio lavorare la gente in modo difforme (per esempio non dotandola dei necessari supporti, prevedendo tempi di lavoro non compatibili col rispetto delle procedure di sicurezza, mandando una persona sola a fare un’operazione che ne richiederebbe due…) , l’impatto della formazione sulla sicurezza è minimo e irrilevante. Quanto all’aumento del personale di vigilanza e controllo, e quindi dei sopralluoghi nei posti di lavoro , è utilissimo che le aziende sappiano che hanno più probabilità di essere controllate e si comportino di conseguenza, ma non è certo pensabile un piantonamento quotidiano di tutti i luoghi di lavoro. Cito un esempio personale : nel 1987 feci parte della Commissione d’indagine regionale sulla strage delle MECNAVI a Ravenna. Ebbene, risultò, tra l’altro, che gli operatori dell’ASL avevano fatto un sopralluogo pochi giorni prima.
Va precisato anche che , spostandoci un attimo dal punto di vista della sofferenza umana al risvolto economico, una commissione d’inchiesta del Senato ha calcolato che il costo dell’insicurezza nelle fabbriche e nei cantieri vale tra il 3,4% e il 6% del PIL (anche se ci attestiamo solo sul braccio più basso della forbice , il 3,4%, ci rendiamo conto dell’impatto non solo umano e sociale, ma anche economico !).
Chi muore di più sul lavoro ? Citiamo Federico Maritan, della Vega Engineering di Mestre in un articolo sull’Espresso del 23 giugno : “Particolarmente coinvolti anche i lavoratori stranieri : 15,2 morti ogni milione di occupati, contro 8,3 italiani” , quindi quasi il doppio. Cosa prevedibile , se i lavoratori stranieri, che molto spesso ricadono anche nella fattispecie dei lavoratori precari o in nero, e quindi sono più ricattabili, da un lato impattano col problema della comprensione linguistica, dall’altro sono molto spesso impiegati nei lavori cosiddetti delle tre D (dirty, dangerous, degrading … secondo altre versioni la terza “D” è invece : “demeaning” , cioè umilianti o avvilenti, oppure “demanding” , cioè gravosi). Ad esempio, nell’ultimo bollettino trimestrale INAIL del 2022, che comprende i dati di tutto l’anno, il fenomeno è pienamente confermato : 881 decessi di lavoratori italiani, 156 di lavoratori extracomunitari. Netto è il predominio del genere maschile, sempre alto il numero degli infortuni mortali in itinere, nel 2022 sono stati 300. Le fasce d’età più colpite sono quelle degli over 65 e quella 55-64. Le attività lavorative più colpite sono edilizia, trasporti e logistica (magazzinaggio, in particolare), attività manifatturiere. Concludendo, vorrei far notare che i lavoratori più deboli e fragili, per diversi motivi (precari, immigrati, anziani …) sono quelli che rischiano di più e pagano il prezzo più alto, come pure fare rilevare la forte criticità dei lavori in appalto e in subappalto, specie se a catena.
Ma, dopo i numeri, passiamo al problema chiave: il perché. Anzitutto smontiamo il clichè che chiama sempre (o molto spesso, troppo …) in causa il cosiddetto fattore umano : è il lavoratore che è distratto e disattento, che lavora in modo rischioso, che non rispetta le disposizioni ricevute, che affronta superficialmente il rischio, che non usa i messi di protezione personale, che non rispetta le procedure, che si sente troppo sicuro ed esperto, e quindi protetto da ogni errore, che non si impegna con la dovuta attenzione, senza poi dire del fatto che c’è chi beve, chi assume sostanze, ecc. Ebbene, non si può negare in modo aprioristico che alcuni comportamenti negativi di lavoratori siano in certi casi forieri di infortuni o malattie professionali , ma sono quasi sempre comportamenti che derivano da carenze organizzative e/o di controllo delle gerarchie aziendali : se si fa bene formazione, se si organizza il lavoro in modo corretto, se si esige il rispetto delle procedure, se si assegnano i compiti tenendo conto delle competenze, delle esperienze, delle capacità dei lavoratori, se non si organizza malamente il carico di lavoro, così da provocare stanchezza eccessiva e stress, se non si ricattano in modo più o meno esplicito le persone, ecc., il peso del cosiddetto fattore umano come lo abbiamo chiamato prima si attenua. Se l’azienda è organizzata in sicurezza, il lavoratore tenderà a comportarsi correttamente, adeguandosi in positivo al clima aziendale, se viceversa è organizzata in maniera cialtrona, l’adeguamento al clima aziendale non sarà certo un fattore positivo per la salute e sicurezza ! Ancora una volta, le normative forniscono tutti gli strumenti e le indicazioni per operare correttamente (ed anche per quanto riguarda alcool e sostanze sui luoghi di lavoro esiste una puntuale e rigorosa normativa di riferimento).
Credo che valga la pena di ribadire alcuni punti che a tutti dovrebbero essere noti :
- la responsabilità di organizzare la sicurezza è in capo al datore di lavoro e alla gerarchia aziendale
- i lavoratori prenderanno sul serio le norme antinfortunistiche quando saranno ben formati e soprattutto motivati a farle
- i lavoratori il più delle volte sanno benissimo se quello che stanno per fare costituisce un rischio , eppure sono costretti (sì, costretti : la costrizione non è solo una pistola puntata alla testa!)
- le misure e procedure di sicurezza devono essere il più possibile a prova di errore , e di distrazione, e di inesperienza, e di frettolosità
- quando un “errore” inerente la sicurezza viene ripetuto più e più volte, sino a diventare quasi la regola, l’aggettivo da posporre alla parola “errore” non è tanto “umano” , quanto “sistematico” , che è esattamente il contrario di casuale o episodico, e che ci riporta sempre, senza alcuno sconto, alle responsabilità organizzative delle aziende.
Ma torniamo al “perchè”. Di fronte ad un infortunio mortale, le domande da porci sono cinque : Cosa ? Chi ? Quando ? Dove ? Perché ? (le 5 W del giornalismo anglosassone). Il problema più critico è sempre il perché si è verificato l’infortunio mortale (o la strage…), non tanto nella sua meccanica materiale, quanto nel contesto dell’organizzazione aziendale, con il suo sistema di responsabilità.
Infatti, a monte del singolo caso c’è sempre un problema di contesto generale (che spiega anche perché, pur con il continuo progresso tecnologico, il fenomeno sembra non schiodarsi dai valori numerici sopra ricordati). La sicurezza sul lavoro è un problema sistemico e strutturale : come può la prevenzione nei luoghi di lavoro funzionare in un contesto come quello italiano attuale, caratterizzato da tre pilastri: la ricerca – pure in sé legittima, se non diventa la sola variabile indipendente – del profitto (che è rimasto, pur con alcune lodevoli eccezioni, come unico o principale valore di riferimento per le scelte personali, imprenditoriali e politiche), l’illegalità diffusa e pervasiva, la negazione dei diritti? Perché dovrebbe “reggere” e magari svilupparsi la prevenzione,che ha dei costi immediati, privati e pubblici (anche se a lungo termine paga, visti anche i costi prima ricordati della mancata prevenzione), che presuppone la legalità, che tutela dei diritti ? Il problema è per l’appunto sistemico e non ha senso pensare di poterlo risolvere con interventi parziali o estemporanei, che possono comunque (e già non sarebbe poco) contribuire alla “riduzione del danno”). Tra l’altro, nel sentire comune e nell’opinione corrente (a parte l’indignazione lacrimosa quando sono colpite giovani donne con figli piccoli, oppure 5 lavoratori in un colpo solo, e in modo particolarmente brutale …) non c’è biasimo sociale e disprezzo per chi,non rispettando le norme e non garantendo la sicurezza, mette a repentaglio la vita o la salute dei lavoratori. Basterebbe un decimo del biasimo sociale che si riserva ai pirati della strada … o basterebbe che le associazioni datoriali non avessero tolleranze e atteggiamenti di aprioristica protezione e tutela nei confronti dei loro associati che hanno comportamenti scorretti, o quantomeno distratti e superficiali, su sicurezza e prevenzione.
Qualcuno potrebbe pensare che il mio approccio al problema degli infortuni mortali sia troppo ideologico e prevenuto nei confronti del modo datoriale. Allora, scendiamo dalle idee ai fatti, e prendiamo in esame proprio uno degli incidenti mortali che più ha colpito la pubblica opinione lo scorso anno, ovvero la morte di Luana, giovanissima operaia in un’industria tessile a Prato. Secondo quanto si è letto sui giornali, la macchina su cui operava Luana era sicura e rispondente alle norme comunitarie, ma è stata modificata (o meglio manomessa, a scapito delle norme di sicurezza) per accelerare i tempi di lavorazione ; quindi, la prima condizione si è verificata , nel senso che la volontà di profitto ha prevalso sulla sicurezza. Quindi, nel contempo, si è realizzata la seconda condizione, ovvero l’illegalità , perché si è usata una macchina non conforme alle norme di legge. E di conseguenza si è negato (ed è la terza condizione) il sacrosanto diritto di Luana a lavorare senza rischiare la pelle e a tornare, dopo il lavoro, a casa dalla sua bambina. Allora, la realtà nella sua concretezza vi convince ?
I morti sul lavoro rientrano nella grande casistica di quelli che io con un acronimo chiamo “SUCAP” , un nome che ricorda le feroci divinità babilonesi e assire (Moloch, Baal, Enlil …) che esigevano sacrifici umani. SUCAP vuol dire, per me, Sacrifici Umani Celebrati sull’Altare del Profitto, ovvero vite che vanno perdute in omaggio al profitto, come i morti della funivia del Mottarone, le vittime dei grandi eventi di inquinamento chimico , da Seveso a Bophal a Taranto, ecc. Mi sembrava grottesco inventarmi un acronimo del genere, e l’avevo tenuto riservato dentro di me … poi il 6 giugno 2023 ho letto un pezzo di Stefano Massini su “La Repubblica” in occasione della morte sul lavoro di un giovane operaio edile , in cui ho trovato due passaggi che ho ritrovato perfettamente coerenti col mio pensiero :
“ormai la contabilità dei morti … ci appare come il dazio inevitabile da pagare al benessere collettivo, al progresso sociale”
“i sacrifici agli dei più cruenti non prevedevano sempre giovani vite? Qui non abbiamo Baal, ma c’è comunque una vittima, e il dio si chiama Lavoro …”
Allora ho deciso di sdoganare il mio acronimo SUCAP , e di proporvelo in conclusione del mio intervento. Non dimentichiamo mai, infine, che la nostra costituzione, oltre a sancire il diritto alla salute, dice, all’art. 41 che “L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana …”.
E ricordiamolo insistentemente a chi, come l’ex presidente di Confindustria, chiede al governo di “attivare interventi che facciano in modo che gli incidenti non avvengano” (ma è forse il governo che è responsabile di organizzare la sicurezza nelle imprese?) o come il Presidente del Consiglio e alcuni ministri che teorizzano come non si debbano disturbare le aziende che producono (forse controllare ed esigere che si rispettino le norme di sicurezza è un disturbo?)
L’opuscolo sull’amianto di cui Leopoldo Magelli è coautore e di cui riportiamo la copertina, è disponibile gratuitamente richiedendolo all’Associazione Familiari Vittime Amianto scrivendo a:
afevaemiliaromagna@gmail.com specificando l’indirizzo al quale si vuole ricevere l’opuscolo
19/12/2024 https://afevaemiliaromagna.org/
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