Dieci anni dopo il crollo del Rana Plaza, come stanno i diritti nell’industria tessile
Il 24 aprile 2013 il collasso di un edificio in Bangladesh causò la morte di 1.138 persone, in larga parte al lavoro nel tessile. Decine di marchi hanno firmato accordi per programmi di sicurezza. Ma 12 brand si rifiutano, pensando ai profitti (da H&M a Primark, da Zara a Decathlon). Le azioni di Abiti Puliti e della Fashion Revolution week
Sono passati dieci anni dal crollo, il 24 aprile 2013, del Rana Plaza, nelle vicinanze di Dacca, capitale del Bangladesh. Nello stabilimento lavoravano circa 5mila persone per diversi marchi d’abbigliamento tra cui Benetton, Camaieu, H&M, Index (Zara, Bershka, Pull and Bear, Oysho, Stradivarius), Primark e Walmart. Sotto le macerie persero la vita in 1.138, altre 2.500 rimasero ferite. Il giorno prima del collasso erano state segnalate delle crepe nei muri e per questo i negozi e la banca presenti ai piani inferiori furono chiusi, mentre i lavoratori e le lavoratrici delle cinque fabbriche tessili attive si ritrovarono obbligati a tornare, alcuni anche minacciati di perdere lo stipendio del mese se si fossero rifiutati.
L’eco del disastro si diffuse in tutto il mondo. Molte persone iniziarono a chiedersi in che condizioni venissero prodotti i loro vestiti: una sorta di domanda-bandiera del movimento Fashion Revolution, nato proprio sulla scia del disastro, per chiedere trasparenza e cambiamenti positivi nell’industria della moda.
La pressione crescente dei consumatori sui marchi ha portato ad alcuni cambiamenti nella filiera. Come sottolinea la campagna italiana Abiti Puliti, la sicurezza in fabbrica è migliorata soprattutto grazie al nuovo Accordo sulla sicurezza dei lavoratori tessili in Bangladesh (“International accord for health and safety in the textile and garment industry”), entrato in vigore nel settembre 2021, che ha sostituito il precedente Accord on fire and building safety. Quest’ultimo era stato firmato a seguito del crollo del Rana Plaza da diversi marchi, rivenditori e sindacati per costruire un’industria del ready-made garment (che produce capi d’abbigliamento in serie e sulla base di taglie prestabilite, ndr) più sicura. L’attuale Accordo, legalmente vincolante, offre invece la possibilità di condurre ispezioni nelle fabbriche, monitorare le azioni correttive, formare i lavoratori sulla sicurezza sul lavoro, ricevere reclami indipendenti, e promuovere trasparenza e responsabilità dei 192 brand firmatari. A oggi tutela solo i lavoratori del tessile del Bangladesh ma l’ambizione è di estendere anche ad altri Paesi noti per essere centri produttivi con manodopera a basso costo e senza diritti. A gennaio 2023, ad esempio, è stato siglato il Pakistan Accord, che istituisce un programma di ispezione e sicurezza simile anche nelle fabbriche di tessuti locali. Tuttavia, come sollecitato dalla Clean Clothes Campaign -rappresentata come detto in Italia da Abiti Puliti- sarebbe necessario estenderlo anche a Paesi come Marocco, India ed Egitto, con un passato di gravi incidenti sul posto di lavoro. A febbraio del 2021 sono rimasti uccisi per folgorazione 28 persone in una fabbrica marocchina, mentre a marzo dello stesso anno 20 lavoratori hanno perso la vita un incendio in fabbrica egiziana, otto invece sono rimaste uccise in seguito a un crollo di un altro edificio nello stesso Paese. La storia dell’industria del ready-made garment è stata macchiata da molti incidenti spesso fatali lungo la sua catena di approvvigionamento, dall’inizio del 2021 Clean Clothes Campaign li ha monitorati e ha pubblicato anche una cronologia delle drammatiche storie.
Se pur ancora limitate geograficamente, le garanzie del documento potrebbero addirittura venire a meno se alla sua scadenza -nell’ottobre 2023- non fosse presentato un nuovo accordo con il sostegno sia dei brand che l’hanno già supportato, sia di quelli che si sono rifiutati di farlo in passato. L’appello di Abiti Puliti è quindi rivolto a quella “sporca dozzina” di marchi che hanno deciso di “anteporre i propri profitti alla vita dei lavoratori in Bangladesh e Pakistan”, evitando di firmarlo in passato nonostante le pressioni sia dei movimenti per i diritti dei lavoratori del settore dell’abbigliamento sia dei consumatori. Nella lista dei dodici spiccano anche grandi nomi: Amazon, Asda, Columbia Sportwear, Decathlon, Ikea, JC Penney, Kontoor Brands (Wrangler, Lee, Rock & Republic) Levi’s, Target, Tom Tailor, Urbn (Urban Outfitters, Anthropologie, Free People) e Walmart.
Le sollecitazioni di Abiti Puliti sottolineano anche che, a dieci anni dal Rana Plaza, pochi progressi sono stati fatti per quanto riguarda le libertà di associazione e l’aumento dei salari. L’attività sindacale è infatti duramente ostacolata dalle limitazioni e repressioni da parte del governo, e la contrattazione collettiva è attualmente inesistente. Questo fa sì che il salario minimo in Bangladesh sia fisso da cinque anni a 8.000 Taka bangladesi (circa 68 euro) al mese, nonostante l’inflazione e le difficoltà economiche dei lavoratori negli ultimi anni. La revisione dovrebbe arrivare a breve e i sindacati chiedono di venire inclusi in quanto rappresentanti dei lavoratori e delle lavoratrici del tessile. Insomma, se per la sicurezza nelle fabbriche ci sono stati dei progressi più visibili e duraturi, il diritto di organizzazione e la povertà dei salari restano ancora questioni irrisolte.
In questo contesto, come ogni anno, si terrà dal 22 al 29 aprile, in ricordo anche delle vittime del drammatico evento del 24 aprile 2013, la Fashion Revolution week, ideata dall’omonima campagna internazionale e supportata anche dal mondo del commercio equo e solidale italiano: Equo Garantito, Altromercato, Altraqualità, Equomercato, Meridiano361 e Progetto Quid. Di iniziative nelle botteghe ce ne saranno parecchie, per non dimenticare le vittime degli incidenti ma anche per porre l’attenzione su una moda etica, sostenibile, giusta. Di recente è stata anche lanciata una campagna “Good clothes, Fair pay” sotto forma di Iniziativa dei cittadini europei (Ice) -promossa tra gli altri dall’Organizzazione mondiale del commercio equo (Wfto), Abiti Puliti e Fashion Revolution- per chiedere all’Unione europea una legislazione sui salari dignitosi in tutto il settore dell’abbigliamento, del tessile e delle calzature. Durante la pandemia da Covid-19, infatti, la precarietà salariale e le difficoltà economiche dei lavoratori e lavoratrici del tessile sono state ulteriormente aggravate da un aumento delle pratiche commerciali dannose e spesso gli stipendi sono stati trattenuti in mano ai datori di lavoro per mesi (un vero e proprio furto di salario di cui abbiamo scritto qui). In particolare, nel settore dell’abbigliamento i salari sono diminuiti di oltre il 20% tra marzo e agosto 2020. Dato per il quale l’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) ha espresso particolare preoccupazione. L’appello che viene fatto al mondo della moda è chiaro: serve maggiore trasparenza e rendicontabilità delle filiere, oltre che un maggiore impegno sia sul fronte politico sia su quello dei marchi per garantire delle condizioni di lavoro e un salario dignitosi per tutti i lavoratori e lavoratrici del settore.
Crisitina Borio
19/4/2023 https://altreconomia.it/
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